La maternità nel mare immaginaleMaternità marina è un progetto corale concepito e intrecciato da donne. L’antologia poetica, edita in maggio da Terra d’ulivi, mi ha vista ancora una volta nel ruolo di curatrice insieme alla poetessa Silvia Rosa, insegnante ed educatrice, mia co-conduttrice dei laboratori di terapia narrativa e poetica e delle iniziative editoriali di Medicamenta – lingua di donna e altre scritture (*).

Il primo seme lo ha gettato lei tra i marosi nelle acque primordiali, fotografando una fiaba che profuma di salsedine. C’è una fanciulla che all’inizio si muove leggera e poi si fa sempre più appesantita dal feto che le cresce dentro fino ad assumere, tornando all’origine in partenogenesi, la forma del pesce. L’embrione marino emerge dall’antico Caos, è l’eco di un vaso-conchiglia, ma non sembra arrivare al compimento; giace morto in grembo alla puerpera e non è chiaro quanto la stessa possa trasformare la propria materia prima in madre. Eppure, il concetto di ‘maternità’ ha ben più di una sfumatura e non finisce di certo con il parto o con l’aborto.

Colori vivi, tracce materiche, materiali animici si sono rimescolati nell’incontro fertile che ha congiunto Silvia a me, per poter diventare altro, oltre le prime bozze del suo discorso immaginale che nella congiunzione delle idee si è fatto ‘nostro’. Le ho proposto io una nuova rotta, cogliendo lo spunto che lei mi ha proposto. Abbiamo inserito quest’opera nel percorso attivo della ricerca in terapia poetica. Giorno dopo giorno ho inciso e spezzato, ho invocato lo spirito delle onde richiamando dal fondale bocche e occhi, stupita del guizzo di scaglie lucenti. Sono arrivati i pesci, le possibilità, l’ovulazione artistica che ha dato corpo e pelle al libro che adesso sto sfogliando con un certo giustificato orgoglio.

Maternità marina è uno scrigno prezioso: così lo hanno definito le stesse autrici. Le poetesse sono giunte sulla riva dell’opera una dopo l’altra, chiamate a raccolta con attenta e preziosa scelta operata soprattutto da Silvia.

I versi di Franca Alaimo, Vera Bonaccini, Angela Bonanno, Claudia Brigato, Martina Campi, Paola Casulli, Mirella Ciprea Crapanzano, Flaminia Cruciani, Alessia D'Errigo, Lella De Marchi, Francesca Del Moro, Laura Di Corcia, Claudia Di Palma, Alba Gnazi, Ksenja Laginja, Anna Lamberti-Bocconi, Daìta Martinez, Silvia Maria Molesini, Gabriella Montanari, Renata Morresi, Daniela Pericone, Valeria Raimondi, Anna Ruotolo, Silvia Secco, Francesca Serragnoli, Enza Silvestrini, Claudia Sogno, Alma Spina, Antonella Taravella Guarino, Claudia Zironi io li avevo letti, amati e riletti durante il percorso di cura, nella tessitura del libro. Ma a seguire oggi il filo azzurro, immersa dentro questo antico mito marino rivivificato in arte, trovo la completezza di un discorso che è nato dentro il vaso alchemico del coro, inconsciamente collegato alle immagini accolte individualmente.

“Se penso alla maternità come elemento perturbante nell’arte, mi viene subito in mente la donna gravida che ci sorride dal dipinto La speranza di Gustav Klimt (1903). Nell’immagine prende vita la sognante rêverie di colei che contiene e cova il suo stesso essere luna piena. Dentro quel solipsismo, il pittore si tuffa per cogliere la perla dell’ispirazione e nuota realizzando il quadro come un convitato alla poetica del femminile terreno. La gestante archetipica klimtiana crea da sola il proprio feto pesce, culla quell’essere ancora privo di forma, lo stesso che, nero e oblungo, il corpo ancora indefinito e caudato, si mostra abnorme eppure in nuce - ed è lo stesso essere vivente che fa capolino al fianco della rossa e pallida protagonista. La donna del quadro sembra avvolta dall’ombra dell’ignoto e dal riflesso del desiderato, nutrita di timore e, al contempo, immersa nel suo stesso essere madre in fieri. Dietro di lei, altre ombre avanzano portando il rischio dell’incompiutezza, dell’aborto, del taglio del filo innanzi tempo. Le forbici di Atropo sono sempre all’erta mentre la vita freme in ogni angolo del corpo di terra e mare, nel ventre pregno del possibile. Sappiamo che la presentazione del dipinto avvenne dopo sei anni dalla sua realizzazione, e che l’immagine destò inquietudine nella Vienna dei benpensanti. Che si potesse appunto ‘pensare male’ della maternità, o che si potesse ‘pensare il male’ come elemento tra le trame della stessa, non era faccenda ‘buona e giusta’ per i gusti dell’epoca. Non lo è, sovente, nemmeno per i nostri tempi, ma la psicoanalisi e la psicologia analitica ci hanno insegnato a fare spazio allo stupore, alla meraviglia che perturba, al panico persino, poiché in ciò che ci scuote c’è un dio che preme per essere ascoltato e accolto. Un dio, certamente, ma soprattutto, nella storia della maternità, c’è una dea una e trina. Ci sono molti volti di terra, mare e luna.

Dire madre presuppone ancora, nell’immaginario collettivo e nella psiche del singolo - lo si vede in ambito clinico così come nell’ideale mediatico - una sorta di morbidezza che accoglie e lenisce ogni pena, una dolcezza mammifera che offre alla creatura creata atmosfere Eden prima della caduta, ma circola ormai come acqua nei meandri della realtà cosciente, l’idea che la madre sufficientemente buona di winnicottiana memoria sia una meta costellata di erranti errori agiti quotidianamente da migliaia di volonterose eroine dello smettere di fumare in gravidanza, della tetta somministrata a piacere, del pannolino ecologico. E così via, tentativo fallito dopo tentativo abbozzato, dalla fecondazione alla tarda adolescenza della prole (e oltre). Insieme alla psicoanalisi, il femminismo come filosofia e pratica ha scosso la società occidentale, richiamando dal buio un femminile plurale: madri e non madri, tutte le donne possono viversi creature generative. Nella non-maternità delle madri c’è oggi lo spazio per per ri-generarsi: scrivere un libro, per esempio, è attività che spesso viene paragonata al parto, e i figli di carta, a ben guardare, richiedono impegno e responsabilità sulla via del reiterare il Sé nell’Altro.

Pensarsi madri eppure non generare è oggi una scelta possibile, meta di un percorso che, seppur ancora troppo spesso metta in gioco pregiudizi sociali, diventa lecito e anche a tratti desiderabile, se si osserva attentamente lo scenario da teatro dell’assurdo della contemporaneità distopica eppure reale. Pensarsi madri e generare è oggi una scelta possibile tra le altre scelte.” (dalla mia introduzione).

“Una poltrona di pelle rossa abbandonata sugli scogli, nella luce estiva abbacinante che infiamma sabbia e mare, in uno scorcio di Sud dai contorni fiabeschi. Questa visione mi viene incontro, un agosto di molti anni fa, mentre passeggio sulla spiaggia, distratta, e mi colpisce lo sguardo come un sasso, rimbalzando concentrica altre immagini, altre visioni, che sprofondano poi nell’inconscio. La genesi di Maternità marina è in questo incontro casuale con un dove che ha risonanza di sogno, e con il rosso di un desiderio ormai sbiadito, capace di evocare ancora tutta l’accoglienza di un abbraccio, nonostante l’abbandono, lo strappo, il danno che l’oblio ha cucito addosso al corpo cavo dalla poltrona, lambita dalle onde e pungolata dalle rocce. In quell’attimo sottratto al tempo, con i piedi affondati fino all’oro della terra, con gli occhi caduti in un altrove, ho visto una giovane donna vestita di bianco muoversi dentro un racconto muto, che mi è affiorato sulle mani e ho provato a narrare con gli scatti fotografici presentati qui, in quello che dopo una lunga gestazione è diventato un progetto corale intorno al femminile e alla sua potenza creatrice.” (dall’introduzione di Silvia Rosa)

“La particolarità della pubblicazione è la contaminazione fertile, la trasformazione e il passaggio continuo tra un territorio artistico e l’altro. Sfogliando le pagine di quest’opera corale ci si imbatte in immagini fotografiche e in illustrazioni che si alternano e si incontrano con la parola poetica: il segno della scrittura cede il passo al segno del disegno; i fermi immagine con soggetti e oggetti immersi nella natura si smaterializzano per diventare tracce, parole, simboli, voci. Un tentativo di innesto tra fotografia, disegno, parola, che è il gioco della creazione. Il dedalo viario generato tra questi linguaggi assume potenza comunicativa per la sensibilità delle autrici nell’investigare la propria intimità fino al pensiero più recondito, l’esperienza di maternità o la sua negazione.” (dalla postfazione dell’artista Sandra Baruzzi)

Valeria Bianchi Mian
Maternità marina – AAVV – a cura di Silvia Rosa e Valeria Bianchi Mian – Terre d’ulivi edizioni, 2020.