L’intervento psicologico clinico: ridefinizioni metodologiche in corso d’opera, in tempi di pandemia
Il periodo di emergenza e di pandemia che stiamo affrontando ha imposto una rivisitazione, da parte degli operatori, dei criteri di gestione dell'approccio clinico con i soggetti sofferenti, in particolare nelle strutture pubbliche deputate.
di Simona Pasquali
Negli ultimi due mesi ho fatto i conti, letteralmente, nel presente, con nuove necessità, in una cornice di disposizioni preventive che avevano ed hanno (non so fino a quando, se muteranno come hanno fatto tante volte in questi giorni), lo scopo di tutelare e prevenire il contagio.
Le necessità in primo luogo dei pazienti, di poter trovare accoglienza nei momenti critici, di poter sentire il Servizio e il terapeuta comunque presenti e disponibili, anche a vederli presso il Centro qualora ce ne fosse l’urgenza.
Ciò ha richiesto di modulare le scelte, in base ad un attento monitoraggio, alla capacità di saper cogliere quando colloqui e visite più frequenti, sia dirette che telefoniche, si rendevano opportuni, al fine di prevenire scompensi e conseguenti ricoveri.
Ho dovuto valutare quindi, applicando quella abilità a discernere che richiede attenzione costante, sensibilità ai dettagli, ricettività alle domande inespresse e veicolate attraverso un’acuzie, la comparsa di un sintomo o la sua recrudescenza.
Le tante microscelte inerenti alla conduzione di un processo terapeutico sono state così amplificate, forse perché in un contesto emergenziale, un terzo fattore interveniva a definire il quadro , o meglio la cornice in cui situare le manovre terapeutiche, ossia la necessità di evitare l’accesso al Servizio, per proteggere il paziente, che di per sé è paradossale e induce quindi a superare il funzionamento cognitivo di tipo binario (del tipo “o…o”) che esprime rigidità e difensività, ma declinandosi in una varietà di approcci al rischio che parte dalla reazione fobica, per arrivare alla rabbia di tipo paranoideo, per cui non è il virus in sé ma l’altro a recare il morbo, l’altro da cui occorre stare alla larga, e aggredire come fosse un untore, in ogni caso, o attaccare perché gli viene attribuito uno sguardo ostile verso sé.
Conoscere il paziente, la sua struttura personale e il suo modo di essere e reagire è certo stato di grande aiuto, nel riconoscere e comprendere le dimensioni di significato attivate e la rappresentazione di elementi come il rischio (quindi la paura), la distanza sociale, le incognite riguardo al futuro, situate tra visioni opposte di imminente apocalisse o di salvifica rinascita, con una prevalenza di posizioni sfiduciate sulla capacità di “apprendere da questa crisi”, a riequilibrare il rapporto con il pianeta, a modificare le disparità sociali ed economiche, per orientarsi verso una società più equa che abbia al centro la dignità della persona.
Se leggiamo tutto ciò all’interno della relazione terapeutica, il venir meno delle certezze, della sicurezza che concerne i beni primari - la salute, l’integrità fisica, le esigenze fondamentali di vita, di libertà e movimento - ha fatto sì che come terapeuta avvertissi ancor più l’esigenza di essere “base sicura”, di garantire il mantenimento di uno spazio mentale libero in cui poter elaborare le emozioni e accedere così alla personale resilienza, mostrando io per prima di saper tollerare lo stravolgimento in atto senza riduzionismi, evitando di rincorrere le news, di alimentare illusorie aspettative su come usciremo da questa pandemia.
Lo sforzo perseguito è stato quello di mantenere il senso della complessità, delle possibili letture di quanto sta avvenendo, muovendosi però dall’interno, per evidenziare i paesaggi interiori, vederli e imparare a riconoscerli, a comprendere in che modo si articola il rapporto con quanto viene vissuto, e come prende forma il vissuto stesso.
Il vissuto è incarnato, si fa tono ed espressione, è nella postura e diviene gesto, illumina lo sguardo e modella il volto, ma questo prendere forma nel corpo e attraverso il corpo è stato estromesso dal rapporto, filtrato da contatti telefonici che lasciavano la voce, le pause e il ritmo del discorso, quali unici elementi atti ad incarnare parole, altrimenti denudate.
Così i silenzi non sono stati accompagnati da uno sguardo diretto negli occhi, da un tamburellare delle dita, da un’espressione mesta o da un capo abbassato, i silenzi sono stati deprivati, come le lacrime, che rigano il volto o sono subito asciugate, o neanche scendono accennando appena a segnalare l’effetto di una parola che scuote.
E’ vero che abbiamo fatto, con l’assenso del paziente, anche videochiamate, in cui spesso i volti in primo piano mostravano sguardi concentrati più sulle parole che sull’espressione dell’interlocutore, con un’interazione deprivata dei corpi, di un luogo fisico in cui avviene l’incontro, a cadenze regolari, proprio in quella stanza dove si entra insieme e si chiude la porta, mentre nelle abitazioni quello spazio non c’è, o è difficile da preservare.
Ricordo a tal proposito che una mia paziente, mamma di un bambino di poco più di 1 anno, è stata dapprima reticente a parlare di sé, della sua relazione totalizzante con il figlio, di quanto ne sia sfiancata non avendo più un proprio impegno fuori casa, alla presenza del marito, che non trova abbastanza collaborativo, per poi cercarmi nel momento in cui, “uscendo a fare la spesa”, si è sentita più libera di parlarmi, sottraendosi a un contesto familiare che sente risucchiarla, proprio in virtù del suo bisogno di essere perfetta, che la porta ad essere così efficiente e presente da lasciare poco o niente alla responsabilità del partner, anche quella di confrontarsi con le sue critiche.
Così , in questo procedere, tra il cercarsi e non trovare spazio, il condividere un luogo fisico e mentale, comunque “abitato da triage, disinfettanti e mascherine”, ha richiesto un surplus di adattamento e flessibilità che sono scaturite da un’esigenza protettiva, per sé e per l’altro: quanti pazienti mi hanno chiamato solo per chiedermi se stessi bene, addirittura sorprendendosi del fatto che fossimo aperti, quanti hanno deciso di aspettare la fine del lock down per riprendere i colloqui, certo per proteggersi, ma anche per non dare un altro carico al curante, quello di un possibile contagio, non solo di emozioni e stati d’animo, ma di un virus che può essere letale.
Altri hanno detto di stare bene, pur vivendo una realtà familiare assai disfunzionale hanno ritrovato un assetto più organizzato, compattandosi di fronte ad un pericolo esterno, che finalmente diventava concreto, comune e ben percepibile , invece di restare a vagare nel chiuso delle menti come una presenza fantasmatica, ma è chiaro che si tratta di equilibri momentanei , ben presto con l’incedere del mondo nelle case la mancanza di confini interni, di una funzione regolativa che consenta protezione senza invischiamento, i conflitti si ripresenteranno, o forse no, occorre seguire i passaggi, prestare attenzione alle mutevoli forme dei un’evoluzione che mai come oggi, vede embricati i destini individuali e familiari nelle sorti collettive di un mondo globalizzato.
A proposito di flessibilità… quella richiesta a un terapeuta in questo frangente: quanto possiamo prevedere che si possa coniugare al rigore consigliato da una collega psicanalista, nel definire appuntamenti telefonici concordati, come se il setting restasse invariato? La domanda nasce sempre da una sensazione che non posso ignorare, quella dell’artificio, del voler illuderci che restino ancora i presupposti di un percorso regolato in modo standard, quando si perdono invece i significanti, per cui la relazione incespica sul terreno di parole non dette, di domande che hanno bisogno di una vicinanza rischiosa, per sorgere alla mente e nutrire il pensiero.
(A cura della Dottoressa Simona Pasquali, Psicologa e Psicoterapeuta)
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