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Proposta di modifica art.31 Codice Deontologico degli Psicologi

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Parere PARMENTOLA – LEARDINI sulla proposta di modifica dell'art. 31 del CODICE DEONTOLOGICO degli Psicologi Italiani

Proposta di modifica art31 Codice Deontologico degli PsicologiIn data 27 novembre 2018 veniva trasmessa, dal Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, a tutti i Consigli Regionali/Provinciali la proposta di modifica dell’Articolo 31 del Codice Deontologico degli Psicologi.

Il documento contiene una presentazione e la proposta di modifica.

Oggetto di questo parere sarà la proposta di modifica in sé e le possibili sue ripercussioni nella pratica quotidiana, sia con riferimento all’esercizio della professione di psicologo sia in sede di valutazione disciplinare di eventuali comportamenti deontologicamente non corretti.

PREMESSA

Si sta diffondendo e promuovendo un’idea della deontologia, che la vede sempre più assimilata tout court al Diritto.

È un’idea, se vogliamo, comprensibile:  è ‘comoda’ e bene si concilia all’incontro tra chi ‘così la sa dire’ e chi ‘così vuole sentirsela dire’.

Tuttavia, reca in sé l’illusione di potersi risparmiare la fatica che un pensiero molto complesso come quello deontologico convoca.

La deontologia ha un suo articolato giuridico - formale per sostenere il quale è indispensabile un pensiero anche giuridico, ma non è ‘solo’ Diritto.

Se potesse risolversi in ‘così dice la Legge’, semplicemente non avrebbe motivo di esistere.

Certo, il pensiero deontologico non può mai contraddire la Legge, sottostà sempre alla Legge. Ma il pensiero deontologico deve andare ad esercitarsi e, nel perimetro che gli descrive la Legge, deve perseguire bilanciamenti in considerazione di paradigmi epistemologici, di cultura istituzionale (le declinazioni -caso per caso- dei termini di Autorità, Competenza e Responsabilità), in considerazione della soggettività dei Contesti, dei Momenti, delle Persone.

Il pensiero deontologico è complesso e, per molti versi, controtempo in una stagione di ricerca di like facili con battute ad effetto, frasi brevi e leggere, scambi e confronti liquidi e veloci, perciò spesso superficiali.

La complessità non si deve e non si può risparmiare agli psicologi perché è epistemologicamente connaturata alla loro disciplina, è un loro vero e proprio Oggetto professionale.

Un esempio di quanto stiamo dicendo è rappresentato dal delicato e complesso bilanciamento da perseguire tra Segreto Professionale e Obbligo di Denuncia.

Non riportiamo in questa sede i termini della questione ma, dopo anni di studio e scritti dedicati a questo argomento, fa un po’ sorridere chiunque pensi di risolverla con un ‘così dice la Legge’. O, meglio, farebbe sorridere se ciò non producesse un concreto rischio nemesi, tra il boomerang e il cul de sac.

Obbligo di Denuncia: ‘così dice la Legge’!

Ah, bene! Sì, però, Segreto Professionale: ‘certo, così dice la Legge’!

E allora? Come deve comportarsi, lo psicologo?

Lo psicologo non incontra mai nel proprio esercizio professionale un Obbligo di Denuncia a tutto tondo, perché ha anche il Segreto Professionale; e non incontra mai un Segreto Professionale a tutto tondo, ogni qual volta si profili un Obbligo di Denuncia.

Il pensiero deontologico si esercita anche in ‘Quello che la Legge non dice’, in uno sforzo che la Legge non può evitare allo psicologo: l’impegno a perseguire il migliore bilanciamento possibile tra Segreto Professionale e Obbligo di Denuncia.

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E tanto migliore sarà il bilanciamento quanto più lo psicologo sarà attrezzato al pensiero deontologico, alla ricerca negoziata di misure, alla complessità: è grave ‘disimparare’ gli psicologi a Questo, fascinandoli con i racconti di ‘quello che dice la Legge’, come se fossero dei pedissequi e burocratici esecutori giudiziari e non professionisti adulti e autodeterminati, formalmente qualificati all’esercizio di una professione riconosciuta.

All’interno dei Codici deontologici, seppur racchiuso in un corpo organizzato e coerente di norme, deve pulsare il senso più autentico della disciplina, della materia o della professione a cui tali norme si riferiscono.

In ogni singola norma deontologica deve rivelarsi la migliore regola professionale, intesa quale primo paradigma generale su cui poi declinare in concreto la tutela più efficace del bene protetto dalla norma stessa.

Coerentemente con tale sua funzione, la norma deontologica mutua dal diritto la sua formulazione in termini giuridici perché possa essere resa certa, conosciuta e applicata, anche coercitivamente, ma non la sua sostanza.

Pertanto, il Diritto si pone a servizio della migliore regola professionale: un’inversione di tale rapporto si tradurrebbe in una scelta incongrua.

Una norma deontologica che si limitasse a riprendere principi già espressi da altre norme giuridiche già vigenti all’interno dell’ordinamento in cui deve essere applicata priverebbe se stessa della propria ragione di esistere.

PARERE SULLA PROPOSTA DI MODIFICA ART. 31 C. D.

L’articolo 31 del Codice deontologico degli psicologi è destinato ad essere fonte (la più certa possibile) di ispirazione per l’applicazione in ambito psicologico della migliore regola professionale ad esclusivo e concreto vantaggio del bene protetto dalla norma stessa, cioè il paziente/cliente, nella persona del minorenne o dell’interdetto.

A fronte di tanta complessità, si è sempre ritenuto che il vigente art. 31 del C. D. non dicesse e non tutelasse abbastanza.

Si è sempre parlato di sue modifiche  e ogni volta si è impattato quanto fosse difficile metterci davvero mano.

Massimo rispetto dunque per chiunque si cimenti in tale prova e massimo rispetto per le sedi istituzionali che hanno lavorato alle modifiche.

Il vigente art. 31 C.D. così dispone:

Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela.

Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale.

Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte.

Questa la proposta CNOP di un nuovo art. 31 C.D.:

Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette, con le deroghe di seguito precisate, sono subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la responsabilità genitoriale o la tutela.

Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma 1, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Giudiziaria competente dell’instaurarsi della relazione professionale.

È comunque consentita l’osservazione breve, della durata di un incontro, della persona minorenne, tesa a verificarne le condizioni di vita, su richiesta anche di un solo genitore. Al termine dell’osservazione breve, esclusa ogni relazione diagnostica, lo psicologo redige, su richiesta, una certificazione sintetica sulla sola eventuale sussistenza di necessità di approfondimento.

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Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’Autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte.

In ambito scolastico il consenso agli interventi di formazione, orientamento, screening, prevenzione e promozione della salute è validamente acquisito anche qualora gli interventi citati risultino inseriti e adeguatamente descritti nei documenti di programmazione, espressamente accettati dagli esercenti la responsabilità genitoriale.

Lo psicologo rispetta il diritto di ascolto della persona minorenne, anche a prescindere dal consenso degli esercenti responsabilità genitoriale o tutela, negli sportelli di ascolto dedicati che svolgono un servizio pubblico, nei centri territoriali per la famiglia e in ambito scolastico.

Al fine di coinvolgere la persona minorenne nelle questioni che la riguardano, lo psicologo fornisce tutte le informazioni utili per la comprensione della prestazione professionale, tenendo conto della sua età e adeguando la comunicazione al suo grado di maturità e alla sua capacità di discernimento.

Lo psicologo tiene, inoltre, in adeguata considerazione le opinioni espresse dalla persona minorenne in tutte le questioni che la riguardano; informa la persona minorenne sui limiti giuridici della riservatezza nei confronti degli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela.

In tutti i casi che riguardano interventi su persone minorenni lo psicologo ritiene preminente il loro interesse

Prendiamo in considerazione i singoli canoni.

Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette, con le deroghe di seguito precisate, sono subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la responsabilità genitoriale o la tutela.

Colpisce immediatamente come il nuovo testo riproponga la stessa formula che ha per anni resa problematica l’applicazione dell’art. 31 C.D. in ambito disciplinare e, soprattutto, causato confusione nella sua interpretazione ad opera di psicologi e giuristi: ‘consenso di chi esercita’.

È ben noto, infatti, a coloro che da anni sono impegnati nelle Commissioni e nei Consigli disciplinari quanto e come questa espressione si sia prestata ad argomentazioni difensive di natura squisitamente giuridica tese ad affermare la legittimità di prestazioni effettuate con il consenso di un solo genitore affidatario, a maggior ragione se in via esclusiva.

Il fatto che l’istituto della responsabilità genitoriale consenta di scomporre tale diritto/dovere del genitore in titolarità ed esercizio ha, comprensibilmente, portato più di un giurista ad affermare che l’articolo in esame consentisse la presa in carico di un minore anche su incarico di un solo genitore purché esercente.

In sede di giudizio disciplinare, in virtù di considerazioni di natura più squisitamente clinica tese a tutelare concretamente lo spazio psicologico del minore, il prevalente orientamento venutosi a formare sull’art. 31 C.D. ha letto, interpretato ed applicato tale norma nel senso di rendere doveroso il consenso di entrambi i genitori comunque titolari della responsabilità genitoriale alla prestazione psicologica, salvo espresso e motivato provvedimento giudiziale. 

Tuttavia, una futura revisione dell’art. 31 C.D. dovrebbe non mancare l’occasione di renderne il testo più chiaro sul punto.

Si potrebbe obiettare che il primo canone dovrebbe essere letto alla luce del terzo canone.

Su tale terzo canone ci soffermeremo in seguito ben più diffusamente (in quanto, a nostro parere, rappresenta il vero punto critico di tutta la proposta di riforma); qui viene richiamato solo laddove, nel consentire l’osservazione breve, della durata di un incontro, della persona minorenne, tesa a verificarne le condizioni di vita, su richiesta anche di un solo genitore si pone in termini di ‘eccezione alla regola’ e, quindi, pare legittimo ritenere che quel ‘di chi esercita’  di cui al primo canone debba leggersi come ‘di entrambi i genitori’.

Ma è evidente che la necessità di una tale attività interpretativa andrebbe (di nuovo) ad appesantire il clima in ambito disciplinare e non si presterebbe a facile interpretazione anche, e soprattutto, in ogni ambito operativo che veda lo psicologo impegnato in prestazioni professionali con soggetti minorenni o interdetti.

Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma 1, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Giudiziaria competente dell’instaurarsi della relazione professionale.

Tale previsione, già presente nel testo attuale, continua a suscitare forti perplessità in chi scrive: la relazione professionale viene protetta, fin dal suo instaurarsi, dal vincolo al segreto professionale, che consente a psicologo e destinatario della prestazione uno spazio riservato e protetto finalizzato alla costruzione di un efficace rapporto di fiducia. Quanto e come tale fiducia sia vitale, sotto il profilo deontologico, per la valida ed efficace tenuta dell’intervento non crediamo sia necessario qui ricordarlo; basti pensare a quanti e quali dilemmi sorgono nell’attività professionale ogni qual volta che lo psicologo si trovi costretto, da una norma di legge, a dover scegliere se proteggere la relazione così però assumendosi la responsabilità di non avere adempiuto ad un dovere di legge, oppure riferire quanto egli ritenga di dover riferire alle Autorità competenti pregiudicando in tal modo, e spesso definitivamente, ogni possibilità di proseguire il rapporto di cura con un paziente/utente ‘tradito’.

Così riflettendo, non può che apparire ben poco congruo che sia lo stesso Codice non solo a delineare, ma addirittura a sollecitare un’ipotesi di deroga al segreto ulteriore rispetto a quelle già previste (e imposte) allo psicologo da norme ordinarie: quelle in ambito penale, quali l’obbligo di denuncia (per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) o l’obbligo di referto (per l’esercente un’attività sanitaria), o in ambito civile come l’obbligo di segnalazione al Tribunale per i Minorenni di una situazione di grave pregiudizio o di abbandono di un minore (ancora, e solo, per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio).

Si potrebbe anche qui obiettare che, a ben interpretarlo, ci si avvedrebbe come il canone in esame non possa che riferirsi ad ipotesi di stato di necessità, in cui lo psicologo, nel ‘giudicare necessario l’intervento professionale, nonché l’assoluta riservatezza dello stesso’ e prima di risolversi ad informare ‘l’Autorità Giudiziaria competente’, abbia proceduto ad una prudente valutazione circa l’effettiva imminenza di quei ‘gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto’ che il successivo art. 13 C. D. pone come condizione necessaria perché la violazione del segreto professionale possa essere ritenuta legittima fuori dai casi di obbligo di denuncia o di referto.

Sennonché, la norma deontologica deve essere suscettibile di applicazione pratica: si ponga quindi mente a quanto e come, in concreto, possa rendersi possibile ad uno psicologo risolversi ad informare l’Autorità competente sulla scorta di elementi sul possibile stato di necessità di un minore che, tuttavia, deve acquisire senza poterlo né incontrare e né tantomeno osservare direttamente fintanto che non si sia rivolto a quella stessa Autorità.

A ciò si aggiunga che tale ‘obbligo’ viene imposto di fatto non già allo psicologo operante nel pubblico (il quale, in virtù del proprio ruolo di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ovvero per il fatto di operare in ‘strutture legislativamente preposte’ - di cui al terzo canone del testo ora vigente e quarto canone della proposta di modifica - ben può ritenersi destinatario di altre e più specifiche norme ordinarie), bensì entra nello studio privato del singolo professionista.

Una simile ‘intrusione’ da parte di una norma che voglia dirsi davvero deontologica, in quanto traducentesi in una limitazione dello psicologo nelle proprie scelte discrezionali, può essere giustificata solo se basata su un’esigenza stringente di tutela della buona regola metodologica e se accompagnata, ove possibile, dal suggerimento di un comportamento non solo astrattamente corretto, ma che altresì ci si possa aspettare in concreto da un ‘professionista ideale’. 

Una soluzione possibile - e più coerente, a nostro avviso - potrebbe essere quella di un richiamo al principio generale posto dall’art. 3 C. D. (In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficacia) e nel sollecitare nello psicologo un’attività proattiva tesa a recuperare al loro ruolo di responsabilità coloro che per primi sarebbero tenuti ad invocare l’intervento dell’Autorità giudiziaria, piuttosto che sostituirsi ad essi con l’unico, probabile, effetto di non poter comunque proseguire l’intervento, essendosi a quel punto instaurata un’inevitabile contrapposizione tra lo psicologo e le effettive figure di riferimento comunque presenti, quanto meno sotto il profilo affettivo, nella vita del minore.

È comunque consentita l’osservazione breve, della durata di un incontro, della persona minorenne, tesa a verificarne le condizioni di vita, su richiesta anche di un solo genitore. Al termine dell’osservazione breve, esclusa ogni relazione diagnostica, lo psicologo redige, su richiesta, una certificazione sintetica sulla sola eventuale sussistenza di necessità di approfondimento.

Tale canone, a prima vista, potrebbe essere ritenuta una valida ed efficace soluzione anche per il problema sollevato poc’anzi: allo psicologo, verrebbe riconosciuto un seppur limitato ‘spazio di azione diretta’ sul minore, anche senza il consenso di entrambi i genitori, proprio per raccogliere quei dati e quelle informazioni necessarie per decidere se e come procedere nell’intervento.

Esso andrebbe a precostituire, altresì, un possibile strumento per comporre l’annoso problema dell’ingente mole di segnalazioni e procedimenti disciplinari per violazioni dell’art. 31 C.D.

Tuttavia, è nostra ferma convinzione che la soluzione proposta dal nuovo testo rechi in sé gravi vizi di incoerenza; deontologica, prima ancora che giuridica.

Tratteremo prima il secondo profilo, quello giuridico, che, data la sede che ci vede ora impegnati, per assurdo ci pare quello ‘meno grave’.

La formulazione di tale canone pone problemi di coerenza normativa: con i generali principi giuridici in tema di prestazione sanitaria e valido consenso, trattamento dei dati personali sensibili e, soprattutto, di lecita interferenza nella vita privata e familiare di un soggetto.

La prestazione psicologica, soprattutto in ambito clinico, è ormai a tutti gli effetti annoverata tra le prestazioni di natura sanitaria e, come tale, è idonea di per sé a venire inserita tra quelle attività che, esplicando i propri effetti sul diritto al rispetto della vita privata e sul diritto alla salute di un soggetto, per essere attuate devono necessariamente essere preventivamente accettate da tale soggetto (Artt. 2 e 32 Cost.).

Il consenso deve essere valido; ciò implica che tra i vari requisiti che deve possedere, imprescindibile risulti essere quello dell’effettiva sussistenza, in capo al soggetto che consente, della titolarità e della capacità di agire il proprio diritto alla salute.

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In caso di soggetto minorenne o interdetto, la capacità di agire è o per legge non ancora del tutto acquisita, oppure è stata ridotta per intervenuto provvedimento giudiziario; tuttavia, è noto che a tale soggetto viene in ogni caso garantito l’esercizio del proprio diritto alla salute attraverso l’azione di altri soggetti ritenuti idonei, dalla legge o dall’Autorità giudiziaria, a tutelarlo assumendo nel suo prioritario interesse ogni e più opportuna decisione.

Nel nostro attuale ordinamento, i genitori del minore di età rappresentano le principali figure individuate e preposte dalla legge perché venga assolto il compito di assisterlo; e solo la legge può diversamente disporre previa verifica dell’eventuale inidoneità di una o di entrambe le figure genitoriali (Art. 30 Cost.).

Ciò posto, è anche vero che, quanto meno per ragioni meramente pratiche, la legge non può spingersi al punto di richiedere il consenso di entrambi i genitori sempre e comunque per ogni decisione riguardante il minore; per tale motivo, è stata posta un’importante distinzione tra decisioni di minore o maggiore interesse, altrimenti riconducibile alla differenza tra atti di ordinaria o straordinaria amministrazione.

Le ripercussioni pratiche di una tale distinzione sono assai rilevanti, dato che solo per le decisioni di minore interesse è consentito (non richiesto, consentito) il consenso di un solo genitore.

In assenza di un elencazione tassativa che distingue in maniera netta e certa tra queste e quelle decisioni, la diversa classificazione si è venuta formando prevalentemente ad opera del prudente apprezzamento dei Giudici chiamati di volta in volta a valutare situazioni specifiche e contesti familiari.

Non è possibile che una tale distinzione venga posta da una norma che, ancorché di rilevanza giuridica in quanto deontologica, si pone al livello più basso nella gerarchia delle fonti del Diritto; pertanto, o la decisione di sottoporre il proprio figlio ad una prestazione psicologica può essere annoverata tra quelle di ordinaria amministrazione (quale potrebbe essere, ad esempio, portare il figlio dal Pediatra di base per verificare un possibile stato influenzale), oppure no.

Simili distinzioni non possono essere poste in breve dal Diritto perché necessitano di un’adeguata e puntuale conoscenza dei processi fisici e psichici di una particolare condizione umana, nonché della migliore regola metodologica così come condivisa in seno alla collettività di soggetti che della cura di tale condizione si occupano;  pertanto, il Diritto, prima di fissare la regola, chiede alla Scienza.

Con questo canone, la Scienza psicologica risponde al Diritto fissando il principio che un unico primo colloquio psicologico: a) è riconducibile ad un atto di ordinaria amministrazione; b) consente allo Psicologo di raccogliere sufficienti ed attendibili dati circa lo stato psicologico del minore al punto da poter esprimere un giudizio preciso e compiuto sulle sue condizioni di vita, nonché sulla necessità o, addirittura, superfluità di un ulteriore approfondimento.

Questa risposta della Scienza, sottesa al Canone che stiamo commentando, incuba il principale nodo critico, in termini più propriamente deontologici, del nuovo testo dell’art. 31 C.D. così come formulato e proposto. 

La Scienza deve vigilare sulla coerenza dei propri paradigmi: l’art. 31 C. D., quindi, può contenere una simile disposizione solo se e in quanto valida sotto il profilo tecnico, prima ancora che giuridico.

Cioè, solo se fosse davvero credibile, in termini scientifici, sostenere che l’incontro psicologico, se risolto in un unico e occasionale incontro, produce un’interferenza, nella vita privata e familiare di un soggetto, misurabile oggettivamente ed esprimibile in termini di grado limitato, lieve, moderato di interferenza.

Solo in tal caso, un ‘unico incontro’ potrebbe avere una sua specifica codifica che potrebbe consentire ai giuristi di assegnargli una specifica misura giuridica, diversa rispetto a quella della fattispecie generale della relazione abbisognevole di consenso.

Ma è di tutta evidenza che ‘un incontro’ non è codificabile perché può essere o significare troppi e troppo diversi termini.

Non si sa quali fantasmatiche possano descrivere quale mandato. Non si sa quale affettività espressa tocchi cogliere. Non si sa il problema reale da quali e quanti ‘problemi designati’ possa essere coperto, ‘mascherato’ e reso del tutto insondabile nel tempo più o meno clinico di un incontro. Non si sa quale soggettività di contesto, di momento o di persona possa andare a descriversi.

Non può dunque codificarsi una tale irriducibile complessità, una tale irriducibile dismisura di imprevedibilità.

E allora, se un incontro non può essere codificato, non può costituire una dimensione giuridica.

E, se non è una dimensione giuridica, non può essere inserito in un articolato giuridico-formale, non può parametrare alcunché.

A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione, o meglio un interrogativo che la Scienza psicologica deve porsi: è davvero possibile, per uno psicologo, esprimere validamente sulla scorta di un unico e solo incontro con un soggetto, per di più in età evolutiva, un compiuto parere professionale sulla necessità o meno di una prosecuzione dell’intervento?

A parere di chi scrive, no; tuttavia, ammesso e non concesso che lo sia in via generale ed astratta, non può negarsi il rischio insito in una previsione simile e cioè di esporre concretamente lo psicologo ad errori e comportamenti che, sebbene non più censurabili in base all’art. 31 C. D., lo possono divenire in virtù dell’art. 7 C. D.

Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’Autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte.

In ambito scolastico il consenso agli interventi di  formazione, orientamento, screening, prevenzione e promozione della salute è validamente acquisito anche qualora gli interventi citati risultino inseriti e adeguatamente descritti nei documenti di programmazione, espressamente accettati dagli esercenti la responsabilità genitoriale.

Anche tale canone poggia su evidenti esigenze operative tese a ‘snellire’ l’intervento in un ambito nevralgico quale quello scolastico.

Tuttavia, anche in questo caso, la soluzione prospettata mostra evidenti criticità.

Raramente, per non dire quasi mai, gli interventi oggetto del presente canone sono ‘adeguatamente’ descritti nei documenti di programmazione scolastica; inoltre, sovente la sottoscrizione di tali programmi avviene ad opera di un solo genitore all’atto dell’iscrizione del proprio figlio.

Inoltre, è ormai di comune esperienza, per coloro che operano in tale contesto, che la valida costruzione e affermazione della figura dello psicologo all’interno della scuola non passa solo attraverso l’apposizione di una firma; lo psicologo scolastico non è solo una figura inserita (sovente solo menzionata) in un documento di programmazione scolastico per mero lustro.

Il senso vero della presenza dello Psicologo all’interno della Scuola sta in quel plusvalore psicologico che egli può effettivamente rappresentare, per la Scuola, per i Genitori e per gli Studenti e il momento dell’acquisizione del consenso è uno degli strumenti principali che consentono di restituire sia all’Utente, sia al Committente quel plusvalore.

Una previsione come quella in esame può indurre lo psicologo scolastico a ritenere che la mera sottoscrizione di un atto d’iscrizione alla scuola, spesso generico riguardo alla sua figura, possa sollevarlo dalla fatica di azionare misure idonee alla definizione esatta della portata, dei limiti e del senso stesso del proprio intervento.

Soccorre, ai fini di una possibile futura codificazione, il tenere conto che ci possano in effetti essere prestazioni che possono pensarsi coperte dai documenti di programmazione e altre no.

Una misura più pratica, quindi, potrebbe essere data dalla distinzione tra: a) prestazioni di formazione-informazione rivolte induttivamente alla totalità di un campione (contestualmente ad un’intera classe o ad un’intera sezione), che ben potrebbero essere ritenute ‘coperte’ dal consenso espresso in documenti di programmazione; b) prestazioni ‘deduttive’ (da riscontri o segnalazioni),  ‘mirate’ e individuali, abbisognose queste ultime sempre e comunque di un dedicato ed espresso consenso.

Lo psicologo rispetta il diritto di ascolto della persona minorenne, anche a prescindere dal consenso degli esercenti responsabilità genitoriale o tutela, negli sportelli di ascolto dedicati che svolgono un servizio pubblico, nei centri territoriali per la famiglia e in ambito scolastico.

Tale canone si spinge ben oltre il comprensibile intento di risolvere esigenze operative giungendo a generare una sorta di ‘licenza’ extra legem, che potrebbe indurre lo psicologo a superare il limite del lecito in nome di un non meglio definito generico ‘diritto di ascolto’ del destinatario del suo intervento.

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Il Minore ha, senza alcun dubbio, diritto ad essere ascoltato; tuttavia, quando il suo interlocutore accetta di ascoltarlo in qualità di esperto, il Minore ha prima di tutto il diritto di ricevere un ‘ascolto esperto’.

Eliminare e ‘a prescindere’ il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale o tutoria in una norma deontologica significa non tenere conto di quali e quante siano le delicate soglie di ascolto e della circostanza che ciò che si attiva nel processo clinico non è prevedibile.

Infine, potrebbe produrre un effetto paradossale: lo psicologo, nel sentirsi legittimato a bypassare inizialmente il consenso dei genitori o del tutore, pregiudicherebbe, forse anche in maniera irreparabile, la possibilità di poter costruire un’efficace e valida alleanza con le prime figure alle quali, in caso di riscontrato malessere o disagio del minore, egli dovrebbe rivolgersi per poter sinergicamente agire in sua tutela.  

Un diritto generalizzato all’ascolto può contenere misure e dismisure, non tutte allo stesso modo pensabili fuori campo ‘consenso’.

Al fine di coinvolgere la persona minorenne nelle questioni che la riguardano, lo psicologo fornisce tutte le informazioni utili per la comprensione della prestazione professionale, tenendo conto della sua età e adeguando la comunicazione al suo grado di maturità e alla sua capacità di discernimento.

Lo psicologo tiene, inoltre, in adeguata considerazione le opinioni espresse dalla persona minorenne in tutte le questioni che la riguardano; informa la persona minorenne sui limiti giuridici della riservatezza nei confronti degli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela.

Tali canoni ripropongono, sostanzialmente, principi e regole già espressi e definiti da altre e più cogenti norme di legge; gioverebbe, quindi, anche ripeterle, se proprio lo si ritenesse assolutamente  necessario.

In tutti i casi che riguardano interventi su persone minorenni lo psicologo ritiene preminente il loro interesse.

In chiusura, una breve riflessione su quale possa essere interesse prioritario del minore o dell’interdetto.

O, meglio, tra tutti i diritti riconosciuti al minore, a quale o quali lo psicologo deve prestare maggiore attenzione?

A nostro parere, il diritto del Minore che lo Psicologo deve ritenere preminente è quello che lo Psicologo stesso è in grado, attivamente e concretamente, di tutelare in prima persona: il diritto del Minore a ricevere dallo Psicologo una prestazione qualificata, competente, attenta, prudente e responsabile.

In altre parole, la migliore prestazione professionale deontologicamente possibile.

(articolo a cura del Dottor Catello Parmentola e dell'Avvocato Elena Leardini)

 

 


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