Dal lutto “sospeso” nella Pandemia Covid 19 alla elaborazione collettiva
A seguito della pandemia ci troviamo oggi ad affrontare la necessità vitale di trovare nuovi codici simbolici che aiutino le persone nel percorso psicologico di elaborazione del lutto ed è possibile farlo attraverso Tecniche di Narrazione biografica.
di Flavia Facco
In questi giorni di pandemia, per definire il clima nel quale ci troviamo tutti immersi, i mass media si esprimono con un linguaggio che usa prevalentemente simbologie di guerra: siamo in trincea, l’eroismo dei medici, è una guerra, non abbassiamo la guardia. Effettivamente è da sempre invalso nella medicina un codice linguistico che usa questo tipo di simbologie: combattere contro la malattia, avere o non avere buone difese e via discorrendo.
Mi domando se questo linguaggio così terrifico sia appropriato per un fenomeno che ci ha colpiti tutti in maniera inattesa. E soprattutto come la parola guerra venga assimilata nella nostra psiche, come si accosti allo scenario attuale, in particolare rispetto ai lutti che hanno colpito molti cittadini.
I lutti dovuti alla pandemia stanno assumendo un aspetto che alla generazione che non ha vissuto la guerra è assolutamente ignoto. Potremmo definirli lutti “sospesi”. Quando le persone vengono private della possibilità di accostarsi alla morte attraverso il necessario corredo dei riti che intorno alla morte sempre sono stati efficaci per lenire il dolore del lutto, il processo di elaborazione inevitabilmente si complica.
Nel corso della storia abbiamo già incontrato situazioni nelle quali il lutto rimane come sospeso e di più difficile elaborazione: la guerra e la migrazione quando essa lacera il tessuto delle relazioni familiari d’origine.
Nel corso della storia vi furono modi per affrontare le conseguenze del lutto bellico. Dopo la prima grande guerra l’Europa intera fu costretta ad affrontare il sentimento di morte che allora pervadeva intere popolazioni. I lutti continuavano ad incidere sull’immaginario collettivo portandosi dietro sentimenti di colpa e una pervasiva disillusione rispetto al progresso e al positivismo. I governi si trovarono a dover affrontare e arginare sentimenti luttuosi che non di rado si affiancavano alla condanna del massacro bellico e chiamavano in causa il pacifismo. Per questo motivo vennero costruiti sacrari, innalzate statue commemorative. Queste opere d’arte commemorativa avevano soprattutto l’intento di collegare l’identità dei morti con l’esaltazione della Nazione. Il bisogno di esorcizzare il lutto era un bisogno collettivo. Per questo l’elaborazione del lutto assunse un aspetto politico e fu un lavoro che richiese un imponente investimento anche economico.
A seguito della pandemia ci troviamo oggi ad affrontare una elaborazione del lutto che per alcuni versi, per alcune questioni, ricorda quel periodo. La privazione del rito funebre, la fretta per la cremazione dei corpi, l’impossibilità della vicinanza fisica durante il commiato, tutto ha concorso a creare una cesura dolorosissima tra i cari.
Ci troviamo oggi di fronte ad un aspetto cruciale: la necessità vitale di trovare nuovi codici simbolici che aiutino le persone nel percorso psicologico di elaborazione del lutto. Il mondo dei professionisti che si occupano della psiche è ben consapevole che la mancata o complicata elaborazione del lutto esita in problemi psicologici che possono cristallizzarsi in sintomi, in sindromi cliniche anche gravi e che comunque possono rendere difficili le relazioni e la vita personale.
Quando avvengono catastrofi quali terremoti, inondazioni, eventi traumatici improvvisi, il lutto investe la persona con proporzioni inattese. L’esito del lutto e la sua elaborazione dipendono in grande misura dalla resilienza personale e dagli interventi tempestivi di soccorso psicologico effettuabili con tecniche da anni riconosciute dall’OMS quali Emdr o approcci cognitivo comportamentali e colloqui empatici.
Ma anche chi è resiliente ha bisogno di “appoggiarsi” a dei codici, a dei rituali che aiutino a percorrere gli stadi del lutto, la sua gamma articolata di sentimenti ed emozioni.
E cosa nota che la nostra società ha perso negli anni la ritualità intorno al lutto, rendendolo un fatto sempre più privato e individuale, qualcosa da consumare in fretta perché si deve in fretta tornare alla normalità, normalità quasi sempre intesa come performatività. Nessuno più porta addosso i segni del lutto (la fascetta nera sul braccio, l’abito nero delle donne del sud) per giorni. Eppure a mio parere quel segno sul braccio era un codice che aveva il potere di regolare la relazione interpersonale e la comunicazione tra le persone. Perché la comunicazione e la relazione non può essere la stessa verso chi è a lutto. La fascetta nera non è forse un invito ad una maggior empatia? Un invito alla pietà? Al rispetto della mancanza e della assenza? Ma se continuiamo a sottrarre codici simbolici importanti dal nostro linguaggio per immettere una sovrabbondanza di altri codici inutili come possiamo orientarci nelle relazioni?
Oggi a distanza di più di un secolo, i lutti di questa pandemia ci stanno ponendo tutti di fronte ad una questione terribile: l’orrore della assenza nel momento del trapasso dei cari, l’orrore dell’assenza nel momento del rito di tumulazione o cremazione dovuto alle restrizioni. Si pone una questione che ricorda i morti in guerra, quando i genitori venivano a conoscenza che il proprio figlio era caduto per la Patria, ma non avevano il corpo, non erano stati testimoni del modo e del momento in cui era avvenuta la morte.
La morte di un caro ci fa soffrire ma il fatto di non poter essere presenti nel momento del trapasso, di poter compiere quei gesti che leniscono l’angoscia di tutti, di accogliere l’ultimo sguardo, l’ultimo respiro, è dolore che si aggiunge al dolore. E’ perdita del ruolo di testimone, perdita dell’ultima pietosa illusione di rendere meno faticoso il trapasso al morente e a chi lo accompagna. La sottrazione dell’evidenza fisica del corpo, del corpo amato dai propri cari è un dolore che crea spaesamento, rabbia, impotenza. Durante la guerra questo dolore poteva essere attutito dai commilitoni che pietosamente, perché consapevoli dell’orrore, avevano raccolto gli oggetti, le lettere, le cartoline. E quando potevano tornare, raccontavano quanto “eroicamente e dignitosamente” era caduto il caro. La gloria era un poco di balsamo sul dolore. Come potremo fare noi oggi per i nostri cari, morti su un fronte che non è quello di guerra, ma un letto di unità intensiva? Potremmo forse chiedere al personale sanitario di raccontarci qualcosa delle ultime gesta? Sappiamo che ci sono oggetti da “riconsegnare”, chiusi in sacchetti, depositati in stanze di ospedale. Ma questi oggetti non hanno nessun alone di eroismo, non parlano né di sacrificio per la Patria, né di valorose gesta.
Come fare dunque a sopportare, ad elaborare un lutto che non può legarsi simbolicamente alla nobiltà del sacrificio, di un sacrificio magari scelto per l’adesione a ideali politici?
Per i caduti in guerra si presero numerose iniziative pubbliche e private finalizzate a collegare l’identità dei morti con l’esaltazione della Nazione e quando non fu possibile risalire all’identità venne istituito il simbolo del milite ignoto.
Quali iniziative potrà prendere oggi la Nazione per onorare i caduti della pandemia? Quali codici simbolici potrà istituire? Per ora quello che sento più ricorrente è il codice linguistico della guerra. Peccato che non lo sia. Nessuno dei caduti ha scelto volontariamente di andare in guerra e non c’è distinzione tra soldati e civili. Qualcuno ha voluto per analogia definire i medici e i sanitari “soldati”.
Come psicologa preferirei che i codici linguistici fossero altri e più semplici. La parola “persona” si addice, ed ironia della sorte ha una antica parentela con la maschera. Chi è “caduto” era prima di essere malato, una persona. E chi ha accudito e curato, altrettanto è persona. Credo che una buona elaborazione del lutto possa e debba partire dalla narrazione autobiografica e biografica costruita dalla rete di relazioni della persona.
E’ fatto interessante che nel dopoguerra presero piede gli opuscoli commemorativi pubblicati solitamente da familiari ed amici. Questi opuscoli raccoglievano gli elogi funebri, le lettere e i diari del caduto, lettere di condoglianze alla famiglia, fotografie del defunto ed attestati delle sue onorificenze militari. Questo culto dei caduti era basato sulla scrittura ed era frutto del bisogno della borghesia di riappropriarsi di una elaborazione privata del lutto, lontana dalla enfasi e dalla glorificazione dell’evento bellico per riportarla ad una soggettiva intimità. E’ interessante notare che questo culto dei caduti fu in Italia (non ovunque) un fenomeno di massa nella cerchia della borghesia collocandosi proprio al confine tra lutto privato e memoria collettiva, tra famiglia e nazione. L’aspetto più distintivo a mio parere è proprio il fatto che fosse organizzato dalla famiglia e dalle sue reti di relazione con l’intento di organizzare la memoria ed elaborare il trauma. L’attenzione si sposta quindi sul privato, è una “soggettiva” dei parenti, degli amici, dei conoscenti.
Ritengo che questa tipologia di commemorazione oggi come allora, possa darci una forte e valida risposta alla domanda di quali riti possiamo mettere in campo per l’elaborazione del lutto in pandemia.
Si tratta quindi di mettere in campo delle tecniche di narrazione finalizzate alla costruzione di una biografia della persona attraverso immagini, lettere, racconti, aneddotica, stampati e raccolti in un libro. Il gruppo familiare che sarà in grado di portare avanti autonomamente la costruzione della biografia potrà farlo da sé. Gli altri andranno e devono essere aiutati. Non sarà difficile trovare dei volontari coordinati da psicologi o da educatori che possano dedicarsi a ricostruire le biografie.
Oggi la tecnologia ci aiuta molto ma è chiaro che persone anziane saranno in difficoltà e andranno aiutate. Devono essere chiamate a farsi carico di ciò anche associazioni in partner con i Comuni per creare eventi commemorativi che non abbiano il sapore della retorica quanto piuttosto della vicinanza, della empatia e della ricostruzione di legami sociali che rischiano per la pandemia di slabbrarsi o di sparire del tutto.
Ciò è tanto importante quanto i buoni spesa perché i lutti non elaborati si tramandano di generazione in generazione. Se non si vuole che il virus danneggi la psiche collettiva e si incisti per decenni, l’assunzione del compito della elaborazione del lutto non può che essere collettiva ed operosa.
Mi sento di affermare che dovrebbe essere istituita per sempre per quegli anziani che a lungo istituzionalizzati perdono il senso della loro identità e dei loro legami.
Da ultimo non andrebbe dimenticato che il lutto sospeso può avvenire anche per chi è migrato o indigente. In America il progetto Hartisland net cerca di rendere dignità a coloro che sono stati seppelliti senza storia. La costruzione di memorie biografiche depositate nella rete sta cercando di ridar nome e storia a persone qualificate come “ignoti”.
La soluzione del funerale on streaming è senz’altro un buon aiuto per le famiglie che non possono incontrarsi ma a mio parere non può bastare.
Trovo invece poco efficace l’uso di memorie depositate su Facebook poiché di nuovo ci troveremmo ad utilizzare un mezzo immateriale in un luogo immateriale. Penso che ci sia bisogno invece di qualcosa di molto concreto, la pagina di carta, scritta nero su bianco, collocata in un luogo preciso, elemento tangibile e concreto, parte di una realtà da cercare, scoprire, ricordare.
Bibliografia:
- Aries Philippe, Storia della morte in Occidente, Feltrinelli editore, Milano, 1975
- Alberto Pellegrino, www. Musiculturaonline, Il primo dopoguerra e l’elaborazione del lutto collettivo
- Istituto per la storia del risorgimento Italiano Non omnis Moriar , Mostra documentaria
- Duccio Demetrio, Raccontarsi L’autobiografia Come cura di sé, Raffaelo Cortina Editore, Milano 1996
- Film suggeriti: 1917
- Roger Waters The wall
- A. Carrera, Lovely Bones The Contested Invention of the Unknown Soldier, Los Angeles Review Of Book Nov 13, 2014
(Articolo della Dottoressa Flavia Facco, Psicologa Psicoterapeuta)
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