Se il corpo diventa sè, se la vita è appesa a un filo (Riflessioni di una psicologa in parete)
Il corpo riconosce il movimento, si identifica in esso esprimendo energia.
Soltanto in due occasioni estreme lo sentiamo veramente: la malattia e il gesto atletico, quando, per ragioni ed in modi diversi, dobbiamo dominarne le reazioni o i movimenti.
La percezione del se corporeo è una delle conquiste quotidiane e primordiali del bambino.
Nessuno, alla fin fine, gli insegna a camminare, a riconoscersi allo specchio, a correre, ad andare in bicicletta. Più son piccini, più si trovano a loro agio in acqua, naturale elemento di vita cui si è espulsi alla nascita.
Iniziano pian piano, per sperimentazioni successive ad impadronirsi della ponderalità delle leggi fisiche e meccaniche che gli permettono il fare ed il far fare, e, una volta completato il puzzle delle proprie potenzialità. Acquisito il background si diventa adulti e, giorno dopo giorno, si relega il corpo ad una simbolica consapevolezza. Solo nella fase di transizione e trasformazione, e in quella di ricerca di ricomposizione dei dualismi, torna ad essere fondamentale conoscerne le potenzialità, la resistenza allo sforzo, le infinite capacità espressive.
E' di fronte ad azioni diventate estranee per l'amorfismo quotidiano, che si sente che fra l'individuo e il mondo non c'è altro in mezzo.
Solo la pelle è linea di confine.
Il pensiero entra a supporto organizzativo per garantire l'efficacia del gesto, la maggior economicità energetica che rende efficace il conseguimento dell'obbiettivo.
Non dispersione, precisione e calibratura, a fronte dell'abituale approssimazione mediata dalle sovrastrutture tecnologiche e sociali.
Il cervello rettile e quello mammifero tornano a dominare.
Quando c'è solo il corpo di fronte, in mezzo, agli elementi, e la mente è vuota, vigile e libera; quando la padronanza del movimento è la sola arma di sopravvivenza, si riscatta l'attesa abituale di qualche supporto.
Per un attimo si torna a sentire con lucidità e chiarezza, l'energia e la forza vitale che immette nel ciclo dell'esistenza, si genera un circuito di autoricarica in cui le emozioni sono determinate da fattori concreti.
Paura, tensione, fatica, respiro che segue ogni tensione muscolare e tendinea; caldo e freddo che determinano reazioni di disagio o benessere, antiche alee d'imprevisto da fronteggiare.
Persino il fulmine, lo scuotimento della tempesta elettrica sulla vetta della montagna fino a quel momento calma, non è più il bagliore lontano vissuto in città, diventa il fenomeno che spaventa, che fa scattare l'allarme, perché improvvisamente torniamo a sentire il nostro essere acqua.
Quando la mano si apre nello sforzo estremo di tenere, sappiamo che c'è; quando le gambe diventano di legno sotto il peso dei tanti chilometri percorsi, solo allora sappiamo di averle e che non hanno resistenze infinite.
Quando l'eclissi oscura il sole e tutti gli animali ed i suoni naturali tacciono, il freddo di quell'attimo senza sole richiama paure ancestrali. Avverti la diversità della luce di un normale giorno nuvolo; adesso è fredda, metallica, ha un soffio di morte.
Quando la nebbia avvolge il profilo della montagna, non è più condensa di vapore acqueo, ma l'impalpabile da dominare, da contrastare con la lucidità della certezza del ritorno della luce.
Quando sotto i piedi hai 50 metri di corda sfilata, nessun appiglio stabile, affini la motricità affidando ed adeguando il tuo corpo, a quella roccia che afferri e trattieni, in cui stai vivendo, gli attimi più veri ed estremi.
Impari a sentirne le rugosità, le aderenze, impari a vederne le infinite screpolature in cui mettere scaramantici, piccoli ancoraggi.
Quelli che guardano curiosi dal sentiero, vedono solo piccole figure che procedono apparentemente con ritmo lento e lineare, compiendo un gioco che verrebbe da imitare tanto appare naturale, facile.
Sai che non puoi sbagliare. Qualsiasi impercettibile movimento casuale può farti volare, e la domanda che frulla in testa ridondante è: reggerà la protezione? E' un gioco duro, forte, al limite. Anche nel più tranquillo dei casi la distrazione può essere fatale.
Impari a rispettare le sensazioni, ad ascoltare qualsiasi segnale: il fischio dei sassi che cadono dall'alto, lo spostamento d'aria del vento che aumenta, la minaccia dell'odore della pioggia che si avvicina, il rumore di coccio delle prese che bussi prima di utilizzare.
Continui a muoverti lentamente, circospetto, preciso, attento, affidi a quei gesti abituali, afferrare, tirare, spingere, tutta la tua vita e quella del tuo compagno. La corda come un cordone ombelicale, unico filo che ti lega ancora a terra mentre cerchi di raggiungere il cielo.
Poi, se tutto è stato fatto adeguatamente e la montagna si è prestata al gioco, esci nell'azzurro.
Articolo a cura della Dottoressa Maria Cristina Garofalo, Psicologa, Terni
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