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Per una psicologia delle migrazioni

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Dott. Annalisa Vezzosi - Psicologa clinica e di comunità - Messina

Questo articolo ha partecipato al 1° premio di divulgazione scientifica "PSICONLINE.IT"

"La fiducia è l'uccello che canta quando la notte è ancora buia."
(Tagore)

Le migrazioni, oltre che un fenomeno di vasta rilevanza sociale, economica e politica, sono anche esperienze emotive molto intense, che rimettono in discussione l'identità profonda degli individui: a questo proposito, Mancia (1990) afferma che "di fronte a quello che alcuni autori (Risso e Boker, 1964) chiamano "shock culturale" indotto dall'emigrazione, la mente può mostrarci le sue grandi capacità plastiche di adattamento. La regressione che segue la separazione può rivelarsi utile, se finalizzata al recupero del vero Sé" (in senso winnicottiano). I Grinberg (1990) definiscono il momento migratorio come "cambiamento catastrofico", bionianamente inteso: infatti, lasciare il proprio paese risveglia sentimenti di perdita e di sradicamento che incidono sul sentimento d'identità, provocando una crisi che potrà sfociare "in una vera catastrofe o, al contrario, tradursi in un'evoluzione arricchente e creativa, nel senso di una vera rinascita rigeneratrice".

L'emigrazione, dunque, è un cambiamento di una tale portata che, oltre a rivelare l'identità, la mette in pericolo. La perdita degli oggetti, infatti, è totale, compresi i più significativi ed importanti: persone, cose, luoghi, lingua, cultura, abitudini, clima e, a volte, la propria professione e l'ambiente sociale ed economico cui sono legati ricordi ed affetti profondi. Alla perdita sono esposti anche parti del Sé ed i legami corrispondenti agli oggetti perduti, non a caso, lo scrittore Ben Jelloun definisce la condizione del migrante "di solitudine estrema" .

Non si può, quindi, misconoscere l'importanza di specifiche problematiche psicologiche che interessano sia la persona che emigra sia il suo ambiente e che si riferiscono tanto alle motivazioni dell'emigrazione, quanto alle sue conseguenze.

Scrive Frigessi (1991), "negare la diversità degli immigrati nei confronti del disturbo psichico, sostenere che essi non sono vulnerabili, induce anche a misconoscere l'importanza dello sradicamento e l'esperienza dell'espropriazione, che tuttavia essi vivono intensamente".

In passato, addirittura, l'emigrazione è stata considerata la manifestazione di una vera e propria patologia psichiatrica: "Si emigra perché si è già matti (pre-schizoidi), non si diventa matti perché si emigra" (Frigessi Castelnuovo - Risso, 1982). Il migrante era considerato dalla psichiatria ottocentesca "alienato mentale" in quanto diverso, estraneo per eccellenza. Il modello predominante in questo paradigma è quello che Hofer definisce nostalgia-malattia , "l'Heimweh" (il "dolore della casa"), considerato, già dal '600, malattia che innesca un decadimento fisico a volte mortale.

L'unica soluzione possibile a tale patologia era considerata l'espulsione, il rimpatrio. Come afferma Inglese (1994) l'immigrato era per la classe medico-psichiatrica "un nemico irriducibile", in quanto "soggetto di contestazione culturale", i cui sintomi non "volevano" concordare con la nosografia ufficiale.

Questo paradigma si è depositato nell'inconscio collettivo ed è ancora fonte di alienazione e discriminazione: l'immigrato è straniero in terra straniera e straniero a se stesso; l'alieno è anche alienato . A questo proposito, Handlin (1958) ha scritto: "La storia dell'immigrazione è la storia dell'alienazione. Solitudine, isolamento, estraneità, mancanza di aiuto, separazione dalla comunità, disperazione per la perdita di significato caratterizzano la condizione degli immigrati. Essi vivono in crisi perché sono sradicati. Nello sradicamento, mentre le vecchie radici sono perdute e le nuove sono da stabilire, gli immigranti vivono in situazioni estreme".

L'emigrato si trova prigioniero di due mondi ed alieno ad entrambi: estraneo al suo passato ed estraneo al presente-futuro, "sospeso fra due mondi", come scrive Nathan (1996).

Egli si sente smarrito in un mondo selvaggio, mentre i vecchi e lontani modi di vita possono essere oggetto sia di una lacerante nostalgia, sia di una struggente idealizzazione. I Grinberg attribuiscono tale atteggiamento (ed anche quello opposto, di denigrazione e disprezzo per il "vecchio" mondo) ad una scissione protettiva nei confronti delle molteplici e spesso intollerabili emozioni che accompagnano il passaggio migratorio. "Vogliamo evidenziare l'insieme dei sentimenti d'ansia, tristezza, dolore e nostalgia, uniti alle aspettative e alle illusioni piene di speranza, che ogni emigrante porta con sé nella valigia. Proprio per proteggersi dagli effetti dolorosi di queste emozioni, a volte insopportabili, egli utilizza la scissione per non dover evocare - in forma disperata- le perdite patite" (Grinberg L. e R., op. cit.)

Se tale scissione non dovesse funzionare emergerebbe, infatti, l'ansia confusionale in cui "non si sa più chi è l'amico e chi il nemico, dove si può trionfare e dove fallire, come distinguere l'utile da ciò che è dannoso, come discriminare tra l'amore e l'odio, tra la vita e la morte". (ibidem)

L'emigrazione è, dunque, un'esperienza di crisi, ed ogni crisi implica un'idea di "rottura, separazione o strappo". (Kaes , 1979) Emigrare espone l'individuo a fasi di disorganizzazione che, come afferma Winnicott (1971), interrompono la "continuità dell'esistenza", cui l'individuo deve far fronte tramite la propria "eredità culturale": l'emigrante ha necessità di uno "spazio potenziale" che gli serva da "luogo di transizione" e "tempo di transizione" fra il paese oggetto materno ed il nuovo mondo esterno.

Se la persona possiede sufficienti capacità di elaborazione dell'esperienza, supererà la crisi e, anzi, questa assumerà il carattere di una "rinascita" che aumenterà il suo potenziale creativo, in caso contrario, egli potrà riprendersi molto difficilmente e sarà esposto a forme diverse di patologia fisica e psichica.

Il modo in cui le persone affrontano il momento migratorio dipende molto dall'atteggiamento nei confronti del nuovo, dell'ignoto: Balint (1959) ha coniato due termini, "ocnofilia" e "filobatismo", che indicano delle posizioni opposte, uno tendente ad aggrapparsi a ciò che è stabile e sicuro, l'altro orientato verso la ricerca di nuove ed interessanti esperienze.

Etimologicamente, i due termini derivano da voci greche che significano, rispettivamente, "aggrapparsi" e "camminare sulle dita" (come un acrobata). Gli "ocnofilici" si caratterizzano per l'enorme attaccamento alle persone, ai luoghi, alle cose.

Hanno bisogno di oggetti, sia umani sia materiali, perché non possono vivere da soli. I "filobatici", al contrario, evitano i legami, tendono all'indipendenza ed a cercare piacere nelle avventure, nei viaggi e, in particolare, nelle emozioni nuove.

Gli oggetti, umani e materiali, li infastidiscono e se ne allontanano senza rammarico alla continua ricerca di nuove attività, nuovi posti, nuove abitudini. Evidentemente, anche la reazione allo strappo migratorio sarà diversa a seconda che si appartenga all'una o all'altra tipologia: gli "ocnofilici", sono profondamente legati al proprio paese e lo lascerebbero solo in circostanze inderogabili, i "filobatici", invece sono più inclini ad emigrare, inseguendo orizzonti sconosciuti e nuove esperienze.

Sempre secondo i Grinberg (op. cit.), "gli atteggiamenti estremi, in ognuna delle due categorie, configurano a nostro giudizio un carattere patologico. In ultima analisi, potrebbero essere assimilate rispettivamente all'agorafobia e alla claustrofobia".

In ogni caso, la "capacità di essere solo" (Winnicott, 1958), cioè la capacità di tollerare la sofferenza della solitudine e del distacco, costituirebbe un prerequisito importante che determina l'esito positivo della crisi migratoria. In questa esperienza, infatti, l'individuo che ha acquisito tale capacità, si trova nelle condizioni più favorevoli per affrontare sia la perdita degli oggetti familiari, sia l'inevitabile esclusione che subirà nella prima fase della sua emigrazione.

Scrivono ancora i Grinberg, "il vincolo sociale del sentimento di identità è quello che viene colpito dall'emigrazione in modo più manifesto, dal momento che effettivamente i cambiamenti maggiori avvengono in rapporto all'ambiente circostante. E nell'ambiente circostante tutto è nuovo, tutto è sconosciuto, come "sconosciuto" è per questo stesso ambiente l'immigrato" (Grinberg L. e R., op.cit.).

L'emigrazione è dunque una situazione traumatica complessa che implica numerosi cambiamenti della realtà esterna, con le relative, e spesso "catastrofiche", ripercussioni sulla realtà interna.

Alla luce di queste considerazioni, De Micco e Pompei (1993) si chiedono se "è possibile trattare l'esperienza migratoria come un "life event" o non bisognerebbe piuttosto considerarla come una condizione che muta la matrice stessa in cui i "life events" s'inscrivono?"

Per comprendere la portata psicologica del fenomeno migratorio, inoltre, è importante considerare sia l'atteggiamento tenuto dal gruppo di appartenenza del migrante, sia quello del gruppo di accoglimento: l'individuo, infatti, è, per tutta la vita, inscritto in una matrice gruppale che ne condiziona pensieri, affetti, modi di leggere la realtà.

"L'uomo è sempre "tutto" qualunque cosa faccia, ciascuna delle sue attitudini ed attività lo coinvolge per intero, con il complesso mondo relazionale, e quindi anche sociale, che è la sua esistenza". (Cuffaro, 1996)

Diversi, e paralleli, sono gli atteggiamenti di "chi rimane" e di "chi ospita". Le reazioni delle persone che rimangono in patria dipendono dalla qualità e dall'intensità dei legami che li uniscono ai migranti.

È inevitabile che i familiari e gli amici più intimi sperimentino vissuti di abbandono e di perdita, non esenti da sentimenti di ostilità verso chi parte, per il dolore che procura loro. A volte, soprattutto se il ritorno non è prevedibile o possibile, la separazione è vissuta come morte della persona amata, con il conseguente sentimento di lutto.

L'elaborazione del lutto è "un intricato processo dinamico, che investe l'intera personalità dell'individuo e coinvolge, in modo consapevole o inconsapevole, ogni funzione dell'Io, gli atteggiamenti, le difese e, in particolare, i rapporti con gli altri." (…) In particolare, "i sentimenti di dolore e colpa relativi alla perdita di parti del Sé proiettati sull'oggetto, si trasformano, in genere, in fattori che aggravano o turbano l'elaborazione del lutto." (Grinberg L. e R., op. cit.)

Chi emigra è, comunque, oggetto di sentimenti e proiezioni ambivalenti: il gruppo può riversare sul partente anche invidia ed ostilità. Nel primo caso, accoglierà su di sé, per identificazione proiettiva, il desiderio dei membri del gruppo di emigrare anch'essi; nel secondo caso, egli fungerà da "capro espiatorio", depositario di tutto ciò che è indesiderato e temuto.

Attraverso la partenza, che rappresenta "un'espiazione", libererà il gruppo da tutte le sue colpe e gli permetterà di godersi i beni rimasti.

Prendiamo adesso in considerazione le reazioni della comunità ospitante di fronte all'arrivo dell'immigrato. Anche la comunità autoctona risentirà dell'impatto con l'arrivo del "nuovo", che, con la sua presenza, modifica la struttura del gruppo, mette in discussione alcune norme consolidate e può destabilizzare l'organizzazione esistente. Essa si sentirà minacciata nell'identità culturale, nella purezza della lingua, nelle convinzioni e, in generale, nella propria identità collettiva. "I nativi - affermano i Grinberg (op.cit.) - devono affrontare l'arduo compito di metabolizzare ed incorporare la presenza dell'estraneo".

Le reazioni del gruppo ospite all'arrivo dell'immigrato possono essere diverse: nel caso in cui la comunità avrà, in qualche modo, partecipato a questo arrivo l'accoglienza sarà positiva o, quantomeno, priva di ostilità. Se, invece, il nuovo venuto irrompe senza preavviso, il gruppo potrà manifestare una reazione di allarme, come se dovesse prepararsi ad affrontare un possibile "attacco" da parte di un "nemico" di cui non si conoscono le intenzioni.

In alcuni casi, addirittura, la presenza dell'immigrato incrementa le ansie paranoidi del gruppo ospitante, che vive il nuovo venuto in modo persecutorio, come un intruso che cerca di privare i locali dei propri legittimi diritti (lavoro, beni, conquiste sociali).

Una reazione di questo tipo si traduce in quelle forme di xenofobia e razzismo che si manifestano, purtroppo sempre più frequentemente, anche nel nostro paese.

Scrive a tale proposito Inglese (1993), "Questa massa in movimento (gli immigrati, N.d.A.) viene agitata sullo scenario del conflitto sociale come figura della predatorietà istintuale." (…) "La creazione di questo fantasma predatorio, codifica il radicale xenofobico delle formule di contatto culturale realizzato nei confronti degli immigrati. Da questo radicale discendono le operazioni di segregazione e di discriminazione del perturbante sociale. La passionalità xenofoba, in particolari momenti critici, si configura come forza specifica di psicopatologia collettiva dotata di grande forza mimetica. Essa talvolta si organizza o esplode nella consumazione di atti di aggressione o di persecuzione".

Kafka ha mirabilmente descritto tale atteggiamento di diffidenza e disprezzo dello straniero nel romanzo "Il Castello": "Lei non è del Castello, non è del paese, non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre tra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi…"

L'emigrazione risulta, dunque, un fenomeno complesso e sfuggente, un delicato ed impegnativo "passaggio di confine" (De Micco - Martelli, op.cit.) geografico, culturale, esistenziale.

Essa, allora, si configura come una dimensione trasformativa singolare, insieme dolorosa e struggente, della variegata commedia umana, all'interno della quale l'avventura seducente del viaggio assume i contorni di un evento mitico, di una fata morgana (Rushdie S., 1999), vagheggiata e temuta allo stesso tempo.

 

BIBLIOGRAFIA

  • BROWN D. - ZINKIN L. (A CURA DI) 1996
    La psiche e il mondo sociale. La gruppoanalisi come strumento del cambiamento sociale, Milano, R. Cortina;
  • CUFFARO M. 1996
    Il labirinto relazionale. Psico-socio-dinamica delle relazioni interne, Milano, Franco Angeli;
  • DE MICCO V. - MARTELLI P. (A CURA DI) 1993
    Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, Napoli, Liguori;
  • FRIGESSI D. - RISSO M., 1982
    A mezza parete, Einaudi, Torino;
  • GRINBERG L. - GRINBERG R. 1990
    Psicoanalisi dell'emigrazione e dell'esilio, Milano, Franco Angeli;
  • KAFKA F. 1973
    Il Castello, Milano, Mondadori;
  • MANCIA M. 1990
    Introduzione a Psicoanalisi dell'emigrazione e dell'esilio, Milano, Franco Angeli;
  • INGLESE S. 1994
    Le dimensioni antropologiche della cura, "I fogli di ORISS", 1-2, 137-147;
  • MELLINA S. 1987
    La nostalgia della valigia, Venezia, Marsilio;
  • NATHAN T. 1994
    Costretto ad essere umano, "Psicoterapia e scienze umane", 4, 72-97, Milano, Franco Angeli;
  • NATHAN T. 1996
    Principi di etnopsicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri;
  • RISSO M. - BOKER W. 1964
    Sortilegio e delirio. Psicopatologia dell'emigrazione in prospettiva transculturale, a cura di Lanternari V., De Micco V., Cardamone G., 1992, Napoli, Liguori;
  • RUSHDIE S. 1999
    La terra sotto i suoi piedi, Milano, Mondadori

 


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