METTERSI IN GIOCO. Riflessioni sul lavoro psicologico ed educativo con i bambini
La relazione con il bambino è una relazione molto delicata e coinvolgente, giacché è sempre, prima di tutto, una relazione tra due universi emozionali.
Il bambino, infatti, è un sensibilissimo radar delle nostre emozioni, dei nostri stati d’animo, molto abile nel leggere con chiarezza dentro di noi e vederci per come realmente siamo.
Questo perché è in grado di indovinare in maniera infallibile ogni nostra reazione emotiva, a prescindere dal significato delle parole che pronunciamo, leggendo il linguaggio del corpo, le variazioni di tonalità e d’intensità della voce.
Non possiamo mentire a un bambino né possiamo impedirgli di mettersi in risonanza con il nostro universo emotivo.
Con i bambini, quindi, non hanno effetto tutti quegli accorgimenti e quei meccanismi di negoziazione della nostra immagine che di solito utilizziamo all'interno delle relazioni tra adulti.
Inoltre, i bambini riattivano in noi emozioni e conflitti, magari sedimentati, ma sempre vivi, che abbiamo nei confronti della nostra infanzia e di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli, col rischio di ridestare in noi remote angosce, rabbie infantili, paure mai confessate. E questo a volte può metterci in difficoltà, specialmente se ci consegna un’immagine di noi che non ci piace, che non assomiglia all’immagine che negli anni ci siamo fatti di noi stessi, se ci mostra dei lati di noi che non vorremmo vedere, che non apprezziamo, che non sapevamo nemmeno di avere.
L’infanzia che abbiamo avuto, ma più di tutto i ricordi che di quella infanzia conserviamo dentro di noi, determinano la qualità delle relazioni che da adulti siamo in grado di avere con i bambini.
Così la relazione con i bambini richiesta dal nostro intervento professionale può attivare in noi emozioni, conflitti e desideri relativi alla nostra infanzia, che possono essere rimasti nascosti nel nostro inconscio. E come accade in ogni relazione i conflitti inconsci attivati da quella stessa relazione possono produrre risultati anche molto lontani da quelli che avremmo immaginato, scatenando risposte aggressive, ansiose o depressive.
E’ per questo motivo che il lavoro psicologico ed educativo con i bambini reclama costantemente la nostra capacità di metterci in gioco. E’ importante che gli educatori e tutti coloro che sono impegnati in relazioni di aiuto con i bambini possano valutare la disponibilità personale a identificare e tradurre in parola il proprio universo emozionale in generale e le emozioni e i conflitti attivati dalla relazione con il bambino in particolare, per imparare a governare quelle stesse emozioni senza la necessità di negarle o di rimuoverle e, allo stesso tempo, riuscendo a non lasciarsi travolgere da esse: per sapere cosa vede il bambino quando ci guarda e cosa vediamo noi quando guardiamo lui.
Possiamo comunicare serenamente con i bambini, parlare il loro linguaggio, soltanto se quello è un linguaggio che ci piace, che rievoca in noi ricordi piacevoli e non fantasmi con cui non abbiamo ancora fatto i conti.
Ebbene, nessuno è tenuto a fare i conti con i propri fantasmi. Può anche decidere di vivere una vita difendendo strenuamente le proprie difese. Ma se vogliamo lavorare con i bambini dobbiamo farlo. Per i bambini che incontriamo, ma prima di tutto per noi stessi. Per non permettere al dolore di quei bambini, alle loro angosce, alle loro paure, di invaderci e di distruggere il nostro equilibrio psichico. Anche perché, forse, se, nonostante la nostra infanzia difficile, ci siamo avvicinati professionalmente all’universo infantile, stiamo cercando un modo di riparare alla nostra perdita, di confrontarci con essa.
Molti di noi sono adulti infelici che hanno perso la propria infanzia e che vivono soffrendo per questa perdita, ma l’infanzia perduta può essere ritrovata.
Possiamo recuperare noi stessi, la nostra parte infantile, imparare oggi a essere bambini.
Tutto ciò costituisce il punto di partenza per riuscire ad apprendere il linguaggio dei bambini e per predisporsi a un ascolto vero, empatico.
Il bambino ci parla con una lingua che dobbiamo essere in grado di tradurre. E soprattutto il bambino non parla alla nostra parla razionale, perché parla con la voce dell’istinto. E per ascoltarlo veramente dobbiamo ascoltarlo con la nostra parte istintiva. Non capiremo mai davvero un bambino, non sapremo mai interpretare i suo messaggi (bisogni, desideri, richieste di aiuto) se non lasceremo libera la nostra parte istintiva, se continueremo a pensare che il bambino “ragiona” come noi, conosce e, soprattutto, è in grado di adeguarsi alle nostre convenzioni sociali, padroneggia, come noi, i suoi bisogni ed è in grado di procrastinarli, ha delle categorie mentali ben strutturate entro le quali incasellare la realtà.
L’ascolto è un’attività delicata, molto più difficile di quanto possa sembrare. E’ già molto delicata se riguarda un altro che parla il nostro stesso linguaggio, che utilizza le nostre convenzioni e le nostre categorie. Diventa arduo con un “altro” che parla un’altra lingua e adotta schemi mentali diversi dai nostri. Ed è questo il caso dell’ascolto di un bambino da parte dell’adulto.
Comunicare con un bambino è molto più difficile di quanto possa sembrare. Non bastano le buone intenzioni. Anzi, un po’ provocatoriamente potremmo affermare che le buone intenzioni non solo non bastano ma, a volte, non servono.
La comunicazione vera con il bambino è una comunicazione tra due parti istintive, quindi non è mediata neanche dalle intenzioni.
Posso trovarmi davanti a un bambino e non avere alcuna intenzione di interessarmi ai suoi problemi, posso essere distratto da altri pensieri, ma se quel bambino ha su di sé i segni nascosti di una esperienza che in qualche modo richiama la mia infanzia, io riconoscerò quei segni, anche senza prenderne coscienza e ne resterò turbato, senza magari riuscire a capire cosa mi ha turbato.
L’ascolto autentico richiede soprattutto che chi desidera ascoltare sappia prima ascoltare se stesso, riconoscendo il proprio universo emozionale e i conflitti che la relazione d’aiuto con i bambini può attivare in lui.
Possiamo davvero ascoltare un bambino, comprendere i suoi bisogni, riuscire a tenere nella nostra mente la sua sofferenza, solo se abbiamo effettuato un impegnativo percorso di maturazione personale e abbiamo accettato di guardare in faccia il bambino che siamo stati.
Solo riconoscendo le nostre emozioni e la nostra sofferenza riusciremo davvero a mettere in gioco noi stessi e ad avere una relazione autentica con i bambini che incontreremo lungo la nostra strada professionale e personale.
Articolo a cura della Carmen Pernicola - Psicologa clinica - Roma
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