Addiction. Bisogno di piacere ed autodistruzione
Abbiamo intervistato Franco Riboldi, medico Responsabile del SERT di Merate, su ADDICTION, il suo nuovo libro appena pubblicato da Edizioni Psiconline. Il piacere che distrugge è il filo conduttore della sua analisi e le soluzioni concrete per evitare di autodistruggersi sono il contenuto del suo volume.
Franco Riboldi è medico e lavora dal 1987 presso il SERT di Merate. Attualmente ricopre il ruolo di direttore dell’U.O.C. Rete Dipendenze dell’ASST di Lecco. È specialista in Igiene e Medicina preventiva, specialista in Criminologia clinica ed è autore di molti volumi sul tema delle dipendenze. Fra i più significativi ricordiamo Stop alla dipendenza dal fumo (De Vecchi, 2008), Stop alla dipendenza dall’eroina (De Vecchi, 2008), Stop alla dipendenza dall’alcol (De Vecchi, 2009), Dipendenze dal piacere e autoterapia (Edizioni Psiconline, 2013) e Droghe Ricreative, Le life skills per crescere in-dipendenti (coautore E. Magni, Franco Angeli, 2016).
Psiconline ha voluto intervistarlo in occasione dell'uscita del suo nuovo libro ADDICTION. Nuove strategie di intervento clinico, pubblicato da edizioni Psiconline e comprendere quali le motivazioni che lo spingono ad impegnarsi in modo così significativo nella battaglia contro la dipendenza.
Franco Riboldi ci ha accolto con assoluta disponibilità e ha risposto alle nostre domande in modo, a nostro parere, esaustivo e completo e non ci resta che invitarvi a leggere tutta l'intervista.
Ci parla della sua teoria per cui, in fondo, il bisogno di piacere dell'uomo può portarlo alla sua distruzione?
Il piacere è un bisogno naturale e fisiologicamente utile all’uomo perché motiva il senso di vivere ed è funzionale all’autoconservazione della specie. Il problema sorge quando il desiderio di piacere diventa ossessivo. Negli animali il problema non si pone perché non hanno la possibilità di amplificare le risposte a questo bisogno.
Nell’uomo, invece, lo sviluppo delle scienze favorisce la continua scoperta di nuovi piaceri artificiali (farmacologici e comportamentali) che rischiano di minare alla radice i drive motivazionali di cui siamo dotati. Ciò può essere contenuto finché tengono i valori e le risorse positive proprie di ogni persona, in grado di contrastare le spinte edonistiche nelle scelte di vita. Quando però questi criteri di riferimento iniziano a traballare è molto più facile, oggi rispetto a ieri, essere risucchiati nei vortici delle addiction più disparate e rimanervi intrappolati sino all’azzeramento mentale.
Perché la "schiavitù" di cui si rende protagonista è così poco evidente nella percezione di chi soffre di addiction?
Ciò perché i processi decisionali avvengono in una zona del cervello, la cosiddetta area prefrontale, che rappresenta una delle strutture cerebrali più coinvolte dalle scariche dopaminergiche indotte dall’addiction. Nelle fasi più avanzate della malattia il senso critico è completamente obnubilato e la sensazione di schiavitù non viene processata in modo adeguato. In realtà non mancano momenti della malattia in cui il senso critico ritorna a funzionare, seppur a sprazzi, con la percezione angosciante di impotenza e senso di prigionia. Sono questi i momenti importanti da riconoscere dove è possibile intervenire per il cambiamento.
Quali le utili e/o necessarie strategie per intervenire in un campo così complesso e, in fondo, subdolo?
Gli interventi che si possono attivare nei confronti di una persona con un problema di addiction sono tanti, ma bisogna stare attenti ad usare la strategia giusta al momento giusto. Ciò che rende una strategia efficace dipende soprattutto dalla fase di malattia in cui la persona si trova. Non ha molto senso, per esempio, insistere nel voler inviare in Comunità Terapeutica una persona che si trova in fase di “rifiuto della cura” così come sono destinati al fallimento i vari “interventi ad alta soglia” quando sono praticati nei soggetti in fase iniziale o cronica. Talvolta nel commettere errori clinici di questo tipo si perde la credibilità del pazienze e la sua compliance.
Perché nel suo libro utilizza "il mito" per riuscire a far comprendere al lettore le profonde implicazioni della patologia di cui parla?
Nella descrizione della storia naturale della malattia avevo bisogno di esempi clinici che lavorassero sui significati e fossero facili da ricordare. Così, partendo da assemblati di storie cliniche reali, ho costruito delle simulazioni aventi come protagonisti personaggi della mitologia. Avvicinare il mito al discorso scientifico è un modo per creare interesse intorno alla complessità, stemperarla, rileggerla attraverso un linguaggio più comprensibile e assimilabile. Un aiuto in più per cogliere, tra ipotesi e teorie, il senso dell’intervenire.
A CHI SI RIVOLGE, IN CONCRETO, IL SUO VOLUME. AL LETTORE ATTENTO E CURIOSO O SPECIFICATAMENTE AL PROFESSIONISTA DEDITO ALLA SOLUZIONE DEL PROBLEMA?
Il libro è pensato soprattutto per le equipe di professionisti (medici, psicologi, assistenti sociali, educatori e infermieri) che operano nei servizi per la cura delle addiction. Ricco di aggiornamenti scientifici e spunti metodologici il testo promuove un nuovo modo di lavorare in equipe, strettamente correlato con gli sviluppi della malattia. Si tratta di una proposta con un taglio essenzialmente specialistico, rivolta quindi agli operatori dei SERD (Servizi pubblici per le dipendenze), degli SMI (Servizi Multidisciplinari Integrati), dei centri di riabilitazione e delle Comunità Terapeutiche. Ciò non toglie che possa essere di interesse anche per un lettore desideroso di apprendere e conoscere più da vicino la materia.
Quali consigli si sente di dare a coloro che, alla ricerca del proprio piacere, si trovano invischiati in situazioni di addiction?
Il primo è quello di non perdersi mai d’animo. Non bisogna scoraggiarsi di fronte alla lunghezza della malattia e agli eventuali insuccessi delle terapie: uscire dai labirinti del piacere è possibile, molti dati lo confermano. Magari ci vorrà del tempo ma stiamo parlando di patologie che possono sicuramente guarire.
Il secondo è quello di avere fiducia nei servizi. Meglio evitare il fai da te e affidarsi a operatori competenti. Soprattutto è opportuno non perdere tempo, prima si cerca una soluzione e più probabilità ci sono di trovarla.
Cosa sottolineare in particolare del volume? Quali sono gli aspetti più innovativi?
Il volume si connota come un nuovo strumento di lavoro per chi si occupa di addiction. L’innovazione tocca varie dimensioni, dalla definizione della patologia, alla sua storia naturale, all’individuazione di strategie d’equipe. Centrale nella trattazione è il riferimento ad un nuovo modello di malattia aperto sia alla cronicità come alla guarigione. Per ognuna delle fasi cliniche rappresentate in tale modello sono descritte le strategie cliniche più appropriate così come gli errori di metodo più frequenti. Ciò si traduce in una sollecitazione continua per l’equipe al ragionamento clinico e all’adozione di un metodo di lavoro.
La nostra intervista si conclude qui. Ringraziamo il Dottor Riboldi per la sua cortesia e per la chiarezza delle sue risposte e vi invitiamo, se foste interessati, a leggere il suo nuovo volume che è possibile trovare in libreria oppure online.
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