Guerra e psiche
Intervista della prof.ssa Giulietta Bascioni Brattini del Comitato editoriale della rivista “Classe DONNA” al nostro collaboratore Dott. Antonio VITA – Psicologo-psicoterapeuta, pubblicata nel numero di maggio della rivista (per gentile concessione della Redazione).
Come la guerra o le sole immagini di guerra possono influenzare la nostra psiche e, soprattutto, quella dei bambini?
Lo abbiamo chiesto al dott. Antonio VITA – psicologo e psicoterapeuta di Recanati.
D. Dottor Vita, i corpi tra le macerie, i feriti negli ospedali, i volti di bambini atterriti, il profilo delle città bombardate sono le crude immagini che rimangono indelebili nella memoria e generano una sensazione di impotenza e sono sicuramente causa di una situazione di ansia sociale generalizzata. Quali sono le abitudini comportamentali più comuni in situazioni simili?
I comportamenti sono ancora influenzati dagli ultimi focolai di scontri armati che, di solito, diventano veramente feroci nell’ultima parte di un conflitto. Pertanto, permane una diffusa situazione di ansia e di paura. Al termine delle ostilità, lo sgomento sostituirà il panico, l’angoscia e la depressione subentreranno all’ansia e alla paura. Il futuro non apparirà così roseo come molti vogliono far credere. Chi presiederà le zone occupate dovrà affrontare bande di sciacalli, che profitteranno della confusione per portare ancora dolore e morte tra i civili, in special modo tra bambini, donne e vecchi. Come in situazioni calamitose diverse, ad es. terremoti distruttivi, i senza tetto cercheranno tra le macerie e i resti delle loro case qualche oggetto, qualche ricordo, e piangeranno sul loro nulla.
La ricostruzione, per quanto veloce essa possa essere, non riuscirà a colmare i tempi di attesa, della disperazione, di chi ha perso familiari e abitazioni. Chi ha avuto familiari dichiarati dispersi, alterneranno sentimenti di disperata attesa, di pallida speranza, a sensi di smarrimento, di scoramento, d’avvilimento. Le reazioni saranno prevalentemente interne alle persone e toccheranno gli strati emozionali. Le reazioni esterne saranno caratterizzate da uno spirito di collaborazione, di partecipazione, di reciproco aiuto, di solidarietà, di manifestazioni d’affetto, specialmente verso le donne ed i bambini. In mezzo alla folla potrà sempre esserci chi si avvale della confusione per trarne dei benefici personali.
D.: Proprio in situazioni di guerra o di grave emergenza socio-umanitaria si assiste alla mobilitazione assistenziale; c'è un legame tra l'evento stressante ed i sentimenti di solidarietà?
C’è un a vera gara di azioni solidali e d’aiuto, ad opera di associazioni nazionali ed internazionali. Ma l’evento stressante è stato così profondo, da creare, con molta probabilità, delle voragini psichiche negli iracheni. Chi giungerà lì per appoggi umanitari, sono già toccati dagli eventi visti in televisione e molti, per un ineffabile senso di pietà, sentono il desiderio e l’esigenza di portare sollievo ed aiuto. Spesso però, in questi casi, essi cadono in situazioni di profonda prostrazione perché quello che avevano immaginato potrebbe rivelarsi ben poca cosa rispetto a quello che veramente troveranno. Cosicché, come negli eventi catastrofici naturali (grandi terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche etc.), i soccorritori hanno loro stessi un gran bisogno d’aiuto psicologico perché potranno cadere in uno stato di profonda crisi.
D.: I bambini sono l'anello debole di questa società che è caratterizzata dall'informazione mediatica, in cui i mezzi di comunicazione, soprattutto la televisione, hanno ruolo importante nelle nostre famiglie. Come reagiscono alle notizie e soprattutto alle immagini di guerra?
Purtroppo, dal mio punto d’osservazione, mi sfugge un po’ l’atteggiamento dei nostri bambini nei confronti della guerra. Quello che ho registrato non ha molto valore perché l’insieme di bambini, fanciulli ed adolescenti non costituisce un campione rappresentativo dell’universo dei soggetti in età evolutiva. Quello che ho potuto costatare è che i bambini e i più grandicelli non sono stati molto traumatizzati da questa guerra. In fondo essi sono abituati a sentire di eventi tremendi che, da un decennio e più, sono riportati dalle nostre televisioni e riguardano le lotte in Medio Oriente. Ma sentono queste cose ancora lontane, e assistono a scene di raccapriccianti immagini quasi fossero ormai “vaccinati”; non li vivono con indifferenza, ma con abitudine. Essi non si sono resi conto appieno che questa è una guerra diversa, con eserciti schierati, dove sono morti giovani soldati dall’una all’altra parte, dove ci sono madri, distrutte dal dolore, che sono destinate a sopravvivere ai loro figli. Forse la televisione ha agito, in questi anni, come un anestetico. D’altronde, nelle fictions, i ragazzi rivedono le stesse scene. Per i più piccoli distinguere una guerra vera da una finta non sempre è cosa possibile. Per quelli più grandi le cose cambiano poco, non hanno sentito passare sopra le loro teste aerei, non hanno visto sfilare carri armati, non hanno sentito la deflagrazione dei missili e delle bombe. Non credo che ci sia indifferenza, ma senz’altro il clamore della guerra è giunto attutito.
Parliamo invece dei piccoli e degli adolescenti iracheni.
Il terrore li ha avvolti per settimane e settimane. Non hanno forse compreso la diversità dell’essere in un regime e del poterne essere fuori. Non riescono ancora a capire bene la differenza. Si sono visti le case distrutte, morti e feriti in molti casi, scene cruente, apocalittiche a cui hanno assistito. Alcuni sono rimasti orfani, molti senza tetto, senza viveri, senz’acqua, senza speranza. Cosa sarà di loro? Due vie potrebbero scegliere in futuro: o il risentimento che sfocia nella guerra e nella rivolta, e fare nell’uso delle armi un loro stato permanente di vita. O il rifiuto totale di tutto ciò, affidandosi ad un desiderio di pace, di ritorno al dialogo e alla paziente tessitura del ragionamento. Chissà come reagiranno. In Israele e in Palestina, i giovani sono cresciuti in mezzo alle bombe, agli attacchi terroristici dall’una e dall’altra parte. Dubito fortemente che il logos abbia ripreso il posto che gli spetta nell’animo dei giovani. Chissà come reagiranno questi bambini iracheni quando avranno 16-18 anni ? chi lo può dire?
D.: Quando le situazioni di disagio diventano sintomo di una vera e propria ansia patologica?
Quando una persona perde la possibilità dell’uso della categoria della causalità che tutti noi adoperiamo per governare gli eventi della vita, sia di quelli interni e quindi propri della nostra psiche, sia quelli esterni proprio del nostro esistere, si perde, in questi casi, il senso della realtà e dell’essere al mondo. Siamo in balia degli eventi. Oltre a questa categoria, anche quelle dello spazio e del tempo vengono alterate negli adulti e indebolite nei piccoli.
Così il disagio diventa panico che è uguale ad un’ansia patologica smisurata.
D.: C'è il rischio che le scene drammatiche a cui hanno assistito possano far insorgere situazioni di ansia, anche dopo del tempo?
Si potrebbero verificare reazioni a catena, reazioni collettive, che si osservano spesso, anche il tempi di pace allorquando le coscienze vengono mobilitate da eventi particolari ( allucinazioni collettive ed altro). In alcuni casi queste reazioni diventano veri e propri fenomeni isterici di massa. Tra i nostri giovani non saprei cosa potrebbe succedere, se dovessero vivere personalmente situazioni del genere.
D.: Come si interviene in questi casi?
Sulla folla, peggio sulle masse, è difficile intervenire. Si possono mediare i comportamenti collettivi con soggetti carismatici, anche sconosciuti. Sono soggetti particolari che da un verso
potrebbero essere grandi sobillatori, dall’altro soggetti capaci di contenere i comportamenti esaltati di un gran gruppo di persone e di dissuadere i facinorosi ed i più accesi trascinatori.
L’adulto dovrebbe mantenere la calma, un atteggiamento chiaro, non equivoco, non deve dimostrare paura, deve saper rischiare! Chi ha avuto da fare con persone folli in situazione di crisi esplosive sa che , mostrando attenzione “all’interlocutore”, guardandolo negli occhi, senza proteggersi, non mostrando atteggiamenti difensivi, ponendosi nelle mani dell’altro, riesce a spostare e deviare l’atteggiamento esplosivo e l’attenzione dell’altro su un terreno diverso, in una situazione di stallo, di meraviglia, di incredulità.
Ma una massa di persone è più difficile da contenere e da affrontare.
D.: Quale dovrebbe essere il comportamento più giusto, da parte dell'adulto, nel mediare le informazioni?
Tra i bambini e gli adolescenti non c’è stato un incremento di disagio. Diversamente è successo nelle persone adulte, più consapevoli e più preoccupate. Alcuni adulti rivivono la loro infanzia quando nell’ultimo conflitto mondiale hanno passato momenti di paura e di panico. Molti soggetti nevrotici hanno subito un aggravamento della loro situazione e sono ricorsi a psicofarmaci o hanno aumentato la dose giornaliera. Altri si sono rivolti allo psicologo per un consulto, e pochi, in verità, hanno intrapreso un percorso psicoterapeutico. La maggioranza si è rifugiata nel farmaco, forse perché più immediato per sedare i sintomi. La psicoterapia ha effetti a lungo termine, più dilatati nel tempo. In ogni caso, questi eventi cruenti toccano tutti. Le scene di guerra non sono facilmente metabolizzate da nessuno: sangue, feriti, morti, bimbi che piangono, il terrore delle notti. Le scene agghiaccianti di lotte per l’accaparramento di alimenti ed altri beni primari sono cose vecchie per alcuni di noi. Alle mie figlie che guardavano con un senso di profondo smarrimento la scena ho detto: “Vedete? Questo succedeva quando vostro padre aveva 5 anni; anche noi assaltavamo i camion”. Mi hanno guardato con occhi increduli, mentre crescevano in loro una viva preoccupazione ed un sincero turbamento.
Io non nasconderei nulla né ai piccoli, né agli adolescenti. La televisione, abbiamo detto, agisce già da anestetico; se anche noi dovessimo edulcorare queste situazioni ed eventi di guerra, quando prenderanno coscienza i giovani del loro “sé”?. Quando diventeranno consapevoli dei tragici umani destini?
D.:Dal suo punto di osservazione, come psicologo, in quest'ultimo periodo c'è stato un incremento di situazioni di disagio psicologico infantile?
Non tutti i bambini si sono resi conto di cosa succedeva in Iraq. I preadolescenti, parlo di quelli delle scuole medie, hanno avvertito gli echi della guerra. L’Iraq è lontano. D’altronde sono abituati a reportage di guerre. Il disastro dell’ Iraq è apparso loro come un’ appendice, forse un po’ maggiore delle altre, di tutto quello che hanno sentito sino ad oggi sulle guerre, specie su tutti gli episodi che quasi giornalmente avvengono in Medio Oriente.
Qualcuno, più avveduto e più attento ha fatto considerazioni diverse, anche se ingenue ed utopistiche. Ma in genere nell’età evolutiva questa guerra è rimasta ancora lontana da loro, dal proprio “Io”.
Ha fatto più effetto, più “tenerezza” e più meraviglia il crollo delle due torri a New York.
D.: Qual è la situazione nella nostra realtà locale?
Noi stiamo ancora “discutendo” sulla guerra. Molti pensano che non finirà, alcuni temono che sia solo l’inizio di eventi peggiori. Forse lo spazio, categoria che tuttavia sta diventando sempre più fluttuante e soggettivamente vissuta, ci allevia in parte il senso del pericolo. Noi siamo qui, lontani dallo scenario della guerra. Ci tengono informati pochi impavidi giornalisti che rischiano la vita per farlo, e ci giungono notizie che qualche bomba e qualche proiettile, un po’ meno intelligente degli altri, stanno colpendo ed uccidendo anche alcuni di loro. Ci chiediamo in molti se poi lo spazio conta ancora in un eventuale deprecabile conflitto che possa allargarsi a macchia d’olio. Chi ha studiato le conquiste napoleoniche o gli eventi dell’ultimo conflitto mondiale, con Pearl Harbur, e con tante altre manifestazioni di attacchi improvvisi, sa che non c’è posto sicuro nel mondo in cui ci si possa rifugiare.
Ci chiediamo se veramente i civili iracheni, prima vittime di un sanguinario regime dittatoriale, ora vittime di una guerra che loro non hanno voluto ma che si sono trovati in casa loro, i cui familiari morti sono stati anch’essi vittime di bombe e missili dotati di uno scarso quoziente intellettivo, si sentano finalmente liberi tra le macerie, la fame, il sangue, e le bande armate di malfattori che imperversano per il paese.
Per ora, solo loro ci hanno rimesso. Devono contare le loro vittime, gli orfani e le vedove, i vecchi sopravvissuti. Devono riappropriarsi della loro terra e delle loro macerie. Sono privi del diritto di autogovernare la propria vita.
La dittatura è crollata, ma i capi non sono stati presi, le armi di distruzione di massa non sono state né scoperte né usate, anche a fronte della disperata resistenza opposta all’attacco di un esercito ben agguerrito che avanzava. Ci si chiede se ci sono e dove sono.
Riflettiamo ancora sul fatto che i civili iracheni non hanno voluto la dittatura, altri hanno deciso per loro, non hanno voluto la guerra, altri hanno deciso per loro. Essi fanno parte di quella maggioranza portatrice d’opinioni che non contano perché esse non riescono ad affermarsi in quanto non sono supportate dalle armi. Tutto riporta alle armi e non al logos, nemmeno alla doxa. Né la ragione, né le opinioni contano senza il potere delle armi. Gli iracheni sono apparsi come “figli di un dio minore” e ci sentiamo angustiati perché forse anche noi, popolo, massa, folla, in fondo “siamo figli di un dio minore”. Non contiamo, non pesiamo sulle decisioni. Altri decidono per tutti. Speravamo che situazioni che hanno messo a ferro e a fuoco il mondo nel secolo scorso, fossero finite, che le dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino avessero un riconoscimento oggettivo. Non siamo più sicuri di questo: le affermazioni forse valgono per altri periodi storici, e non possiamo che sospettare, patendone la delusione, che queste finiscono per essere soltanto espressioni di principio.
D.: Ovviamente con il dovuto riserbo, può parlarci di un episodio emblematico?
Sono stato in diverse scuole elementari medie e superiori.
Degli alunni delle elementari ho già riferito. Nelle scuole superiori ho notato una specie d’adattamento e d’abitudine alle notizie di guerra. Gli eventi per loro sono lontani. Solo in una scuola media si è discusso a lungo sul problema. Alcuni alunni erano un po’ spaventati, alcuni addolorati per i propri coetanei iracheni. Si sono identificati nella loro situazione. Ma che fare? Non hanno saputo rispondere.
Una ragazzina di 13 anni, una biondina con due occhi azzurri come due laghi, imperterrita e decisa, ha proposto questa soluzione: “ e se noi ragazzi e ragazze, che oggi piangiamo tutti sulle miserie dei piccoli iracheni, e facciamo collette per mandare aiuti umanitari, e preghiamo ognuno il proprio Dio perché cessino le ostilità, facessimo una promessa a noi stessi? Una grande promessa che è questa: noi ragazzi e ragazze promettiamo a noi stessi che da grandi non prenderemo mai in pugno un’arma, che non ci avvarremo mai di qualcosa che possa nuocere agli altri. Lo promettiamo solennemente, sul nostro capo e sulla nostra vita. Che succederà? Quando avremo 20 anni , più o meno, se qualcuno vorrà imporre il proprio dominio e la propria dittatura, lo dovrà fare con le armi e con soldati armati. Ma dove andrà a reclutarli? Fra tutti noi non ce ne sarà uno, di nessuna nazione, disposto a prendere in mano le armi per aggredire gli altri? E se qualcuno vorrà fare una guerra, con che cosa la farà se non troverà giovani disposti ad indossare una divisa e a prendere in mano armi letali di nessun genere?””
Utopistico, ingenuo, fantasioso e forse irrealizzabile questo proponimento. Ma se i ragazzi ed i bambini d’oggi, di ogni nazione del mondo intero, facessero veramente questa promessa e la mantenessero, non dovremmo finire per ammettere che hanno vinto loro?
L’intervista è stata curata da Giulietta Brattini Bascioni della rivista Classe DONNA
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