Trauma e perdono – Intervista alla Dott.ssa Clara Mucci
Intervistiamo la Dott.ssa Clara Mucci, Professore Ordinario di Psicologia Clinica all'Università di Chieti, alla vigilia dell’uscita del suo nuovo libro “Trauma e perdono. Un approccio intergenerazionale” Cortina editore.
Cosa ha anticipato il pensiero di Ferenczi riguardo al trauma?
Ferenczi ha anticipato la moderna visione del trauma come reale rispetto a quella di Freud in cui l’elemento fantasmatico era predominante, cioè per Freud (anche se all’inizio pensava il trauma fosse dovuto a un vero abuso sessuale) subito dopo il 1897 prevale nella sua teoria l’elemento fantastico e fantasmatico: l’abuso è stata fantasticato più che subito. Il problema è che per tanti anni la psicoanalisi tradizionale ha creduto a o seguito questa versione.
Sulla realtà del trauma si è combattuta la lotta tra Ferenczi e il suo maestro: nel 1932 Freud proibisce a Ferenczi di portare al congresso di psicoanalisi il suo saggio sulla differenza tra i linguaggi degli adulti e quello dei bambini in cui Ferenczi dichiara che la maggior parte degli abusi che gli adulti consumano a danno dei bambini non viene scoperta, ma che lui raccoglie tra i suoi pazienti la confessione che sono essi stessi abusatori. Ferenczi ha anticipato non solo la attuale visione che il trauma sia essenzialmente dovuto ad elementi della realtà al di fuori della nostra possibilità di sopportazione fisica e psicologica ma che il trauma peggiore sia quello dovuto a mano umana e in particolare a una figura di riferimento, o di attaccamento, una persona di famiglia. Inoltre, il cosiddetto terzo termine, ovvero la persona che potrebbe aver capito quanto sta accadendo in famiglia ma rimane in silenzio, spesso la madre, causa una traumatizzazione vicaria ugualmente grave perché lede la possibilità di fiducia nell’altro.
Altri due aspetti fondamentali di Ferenczi fortemente anticipatori rispetto alla contemporaneità riguardano la dissociazione, come conseguenza principale della grave traumatizzazione dovuta a mano umana e ad abuso continuativo nella famiglia (che nel suo linguaggio chiama “frammentazione della personalità”), e l’atteggiamento da tenere in terapia perché ci sia cura. Brevemente, Ferenczi, di contro all’atteggiamento distaccato e ipocrita di un analista del tipo di Freud, raccomanda un atteggiamento empatico e partecipativo, o quello che chiama “atteggiamento benevolo e soccorrevole”; inoltre, dice che l’abreazione (cioè la scarica emotiva) non è tutto (come Freud sosteneva all’inizio, nel trattare le isteriche), ma è necessaria una ripetizione con differenza per così dire, cioè una nuova esperienza fatta in terapia che possa riscrivere un modo nuovo di essere in relazione con l’ambiente e cambiare il modo di leggere la realtà. In questo modo, Ferenczi può essere visto come il padre della moderna prospettiva psicoanalitica relazionale, in cui è proprio la relazione a costituire l’elemento di differenza col passato, modificando le caratteristiche dell’attaccamento e quindi cambiando il modo di essere in relazione con l’altro (inclusi i propri oggetti interni) e con l’ambiente.
Teorie psicoanalitiche, attaccamento e teorie neurobiologiche del trauma
Oggi si parla (con Allan Schore) di attaccamento-regolazione, cioè di passaggio di informazioni emotive e di meccanismi di sintonizzazione tra madre e bambino grazie alla comunicazione tra i due emisferi destri dei soggetti implicati. Per Schore l’emisfero destro (che nel bambino si forma prima del sinistro e che è la sede della parte più emotiva del cervello) è la sede di quello che Freud chiamava inconscio; in altri termini, nell’emisfero destro sono immagazzinate quelle esperienze o ricordi che chiamiamo impliciti, cioè non coscienti, non narrabili, non descrivibili, ma contenuti a livello corporeo, immagazzinati in periodi della vita preverbali, in cui non era ancora formato il linguaggio. Se per esempio un trauma avviene nei primissimi anni di vita del bambino, quando il ricordo non può essere immagazzinato consapevolmente con una etichetta verbale e quindi richiamabile in un secondo momento e descrivibile, narrabile a parole come parte della memoria dichiarativa; tuttavia viene comunque immagazzinato dalla memoria implicita e dall’emisfero destro e rimane lì finché non trova sollecitazioni (primarie, olfattive, visive, corporee) che stimolano il ricordo, sotto forma di una sensazione, un odore, una impressione. Il trauma può essere considerato l’elemento può chiaro della plasticità del cervello, perché i danni subiti da certe aree (l’ippocampo ad es, che si rimpicciolisce come si è visto nelle donne abusate e nei reduci del Vietnam, ed è una delle sedi principali della memoria) sono visibili e permanenti; è il cortisolo causato dallo stress prolungato che causa danni a certe aree del cervello, ed è anche per questo ad es. che il disturbo post traumatico da stress ha tra le altre caratteristiche disturbi della memoria.
L’importanza della relazione è oggi affermata sia dalla psicoanalisi (per cui è nell’attaccamento, sicuro o insicuro, o addirittura disorganizzato che si forma la principale forma di protezione rispetto a traumi futuri) che dalle neuroscienze, che fanno dell’intersoggettività la forma principale di sviluppo della vita e della mente umana; così come il trauma dovuto a mano umana è alla base della psicopatologia mentale se non intervengono elementi di recupero, allo stesso modo lo sviluppo delle capacità di mentalizzazione e di empatia sono dovute alla capacità di regolazione affettiva e sintonizzazione emotiva tra madre e bambino.
Un importante elemento di connessione tra psicoanalisi, attaccamento e neuroscienze oggi avviene nello studio di come funziona neurobiologicamente la psicoterapia; come avviene per la madre e il bambino nel primo anno e mezzo di vita, così nella terapia Schore parla di comunicazione tra i due emisferi destri dei partecipanti al dialogo intersoggettivo clinico.
E’ possibile superare il trauma? Come avviene la psicoterapia con i pazienti traumatizzati?
La psicoterapia con i traumatizzati implica livelli di partecipazione e autenticità altissimi nonché accettazione di un pesante controtransfert da parte del terapeuta; ma è inevitabile se vogliamo aiutare il paziente ad “andare oltre” e superare il trauma senza essere costretto a ripetere emozioni negative e situazioni distruttive.
Le fasi principali sono tre: la formazione dell’alleanza terapeutica, la stabilizzazione ed eliminazione dei sintomi, la possibilità di analizzare gli elementi traumatici ricostruendo quanto appartiene alla storia del soggetto o anche alla storia familiare. E’ grazie alla ricostruzione della storia traumatica e alla accettazione di una qualche forma di significato dell’accaduto dentro un contesto rivissuto a livello emotivo e sensoriale che è possibile recuperare la storia in parte perduta perché dissociata del trauma grave di mano umanam mentre il trauma dovuto a forze naturali raramente dà dissociazione, elemento questo molto significativo, perché vuol dire che la dissociazione è legata l’elemento umano insopportabile del trauma. Si lavora attraverso enactment (messe in atto in azioni come dimenticanze dentro la terapia, infrazioni e dimenticanze sul setting, ad es ritardi o anticipi dell’orario, e ogni altro atto che sembra sfuggire al controllo della situazione e riguarda la comunicazione tra paziente e terapeuta, dall’ emisfero destro dell’uno all’emisfero destro dell’altro, da un inconscio all’altro, attraverso il non verbale, perché l’enctment (come azione-comunicazione che significa qualcosa) è la prima possibilità che le parti dissociate indicibili acquistino una forma di espressione, arrivino alla coscienza attraverso l’azione, appunto. Gli enactment avvengono anche tra generazioni, come ho spiegato dettagliatamente nel mio ultimo libro Beyond Individual and Collective Trauma (Londra, Karnac Books, 2013), pubblicato da Cortina con il titolo Trauma e Perdono (2014).
Quindi è possibile la trasmissione traumatica tra una generazione e l’altra? In che modo avviene?
Dori Laub, Ilse Grubrich-Simitis, Ilany Kogan lo spiegano molto chiaramente (usando l’esperienza della Shoah e della trasmissione traumatica tra queste generazioni). La trasmissione avviene attraverso identificazione proiettiva, genitorializzazione del bambino che sentendo le difficoltà del genitore si “prende cura” soprattutto emotivamente di lui cercando di alleviare la sua sofferenza; attraverso fantasie inconsce che passano da una generazione all’altra, perfino nei sogni (come si vede nella psicoterapia) e attraverso le identificazioni, non solo con il genitore e con le aree segrete o le tematiche sentite da tutti, ma perfino con i parenti morti che non ha mai conosciuto, con quei bambini morti prima di lui di cui magari porta il nome, e così via.
Per la seconda generazione, può essere utile pensare che se la traumatizzazione è “reale” nel caso della prima, nella seconda generazione è il trasferimento fantasmatico e il tentativo di rielaborazione simbolica dell’evento al posto dei/del genitore che costituisce il nucleo traumatico. Spesso si tratta di individui che hanno scelto proprio il ruolo di psicoterapeuti (per una forma di riparazione simbolica). Per la terza generazione, il destino sembra ancora più difficile, se la seconda non ha fatto molto lavoro per elaborare il lutto e le difficoltà della prima; se la seconda generazione sembra “scampare” al trauma, è proprio la terza a portare con più evidenza il segno di una grave sintomatologia, nel caso le generazioni precedenti non abbiamo avuto occasione di rielaborare il trauma in alcun modo, fattore questo che farebbe del “lavoro sul trauma” e sulla interruzione della trasmissione traumatica un decisivo elemento di urgente intervento sociale, capace di poter non solo ridurre la sofferenza delle vittime ma prevenire possibilmente ulteriori costi di distruttività umana.
Quindi per concludere è possibile andare “al di là del trauma”? quali sono, oltre la terapia, le pratiche del “beyond trauma”?
E’ fondamentale elaborare il lutto: un bambino o un adulto la cui infanzia è stata devastata da perdite, abusi, incesto o altre separazioni e infrazioni gravi, deve fare il lutto per quello che non c’è stato, per esempio per un genitore (un padre, una madre) a cui avrebbe avuto diritto, un padre responsabile, una madre attenta e capace di nutrire psicologicamente, ma per tanti motivi questo non c’è stato; dunque va elaborato il lutto (cioè accettato in profondo, elaborando la rabbia, la disperazione, il desiderio di vendetta) di situazioni così dolorose; elaborare il lutto vuol dire elaborare la rabbia e anche il senso di colpa che spesso situazioni di abuso lasciano, anche se sembra paradossale (ma è la colpa che la vittima prende su di sé, la colpa dissociata del persecutore, come ci ha spiegato Ferenczi). Si può elaborare il lutto per quanto non c’è stato in queste “infanzie infelici” come le chiamerebbe Luigi Cancrini, attraverso la terapia e attraverso altre forme, in aggiunta: la riconnessione con l’altro, con la collettività, possibile quando livelli basilari di fiducia nell’altro sono stati recuperati, cosa che a volte prende la forma di un impegno verso persone o gruppi che hanno subito drammi simili, e forme di creatività, la scrittura autobiografica, ad esempio, insieme a pratiche di perdono e riconciliazione. Per perdono, non vorrei essere fraintesa, non intendo affatto perdonare l’altro andando dal persecutore e facendo in realtà “qualcosa”, un atto di perdono fisico verso il colpevole, ma vuol dire elaborare le parti scisse che inevitabilmente sono nel traumatizzato, intrappolato tra parti interne di vittima e parti di persecutore (verso se stesso, come accade attraverso l’autolesionismo) o verso l’altro, facendo del male a un altro. Elaborare le parti scisse vuol dire integrarle, superarle, andare oltre, uscire dalla ripetizione cieca di un circuito vittima- persecutore che condanna all’eguale (descrizione della pulsione di morte per Freud) e alla sofferenza propria e altri, ripetendo sempre le stesse azioni e perpetrando altri crimini.
Essere arrivati al “perdono”, (anche delle proprie parti ancora invase dal senso di colpa) che non ha nessun risvolto religioso, vuol dire essere andati “al di là” del trauma, aver permesso all’esistenza di aver superato i circoli viziosi (e mortiferi) della coazione a ripetere che lega perfino generazioni le une alle altre in una catena che sembra difficile da sciogliere. Questo non vuol dire che perché il lavoro sul trauma sia pienamente riuscito si debba arrivare per forza al “perdono” dell’altro, ma sicuramente, se si è giunti a questa soglia (che ha qualcosa di miracoloso nel senso di totalmente gratuito e che può essere raggiunta solo se tutte le tappe del lavoro terapeutico sono state effettuate, dalla ricostruzione il più possibile reale e oggettiva dell’evento o della relazione traumatica, alla recuperata capacità di relazione, alla liberazione dalle emozioni e dai contenuti dissociati, spesso agiti in enactments) è possibile raggiungere quella interconnectedness o interrelazionalità della psiche e del sociale che sono segnali di avvenuta cura e di ritrovata costruttività nel vivere.
In altri termini, il perdono come elemento intrapsichico lascia andare quelle parti tenute ancora nelle grinfie del persecutore che ci legano alle dinamiche della vendetta o della semplice rivendicazione; libera nuova forza vitale, implica una rinascita interiore e un recupero che si estende dalla vittima individuale o dal sopravvissuto a tutta la comunità. O come dice Laub, perché ci sia recupero della vittima è necessaria una “comunità di testimonianza” in cui l’elemento umano di connessione emotiva, di sostegno, di interazione sociale venga al primo posto, comunità in cui l’azione terapeutica viene a collocarsi necessariamente. Non solo studi neuroscientifici hanno dimostrato come le stesse aree del cervello che sembrano essere implicate nella empatia e nelle più alte qualità morali sono impegnate nelle attività di “perdono” come opposte a “vendetta, rivendicazione, risentimento e rancore”, ma questi sentimenti positivi e sociali sembrano legati a un maggiore stato di benessere del corpo (parametri cardiaci, respiratori, ecc). Se oggi si parla tanto di riconciliazione a livello sociale e giuridico (si veda il caso della Commissione per la Verità e Riconciliazione in Sud Africa), una vera riconciliazione delle parti sociali è possibile solo se una integrazione delle parti scisse e degli opposti è stata raggiunta nel soggetto, attraverso il superamento (possibile solo attraverso una vera conoscenza) del passato e delle emozioni ad esso connesse, a livello individuale e di gruppo. Segni di risanamento e recupero rispetto al trauma sono anche pratiche di creatività e di connessione sociale che indicano come il lavoro del lutto (per quello che non c’è stato, per le parti che devono essere lasciate andare) sia stato affrontato e per quanto possibile elaborato, e implicano il superamento del trauma e una rinnovata integrazione psicosociale, all’interno e all’esterno, pratiche etiche e oserei dire politiche, in cui la psicoanalisi ha in ruolo (ancora) decisivo, visto che la psicoanalisi nasce alla fine dell’Ottocento proprio per il desiderio di recuperare le verità nascoste, represse.
Intervista a cura della Dott.ssa Maria Lucia Ammirabile