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Corpo e Depressione

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Corpo e depressione. Piccolo viaggio nella psicosomatica e nelle ricerche psicologiche e psicoanalitiche

corpo e depressione ferrajoliQuesto lavoro tratterà il tema “depressione” attraverso il modello di riferimento analitico derivato dall’approccio reichiano e successivamente arricchito dalla metodica di Alexander Lowen, fondatore dell’analisi bioenergetica e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis (I.I.B.A.) con sede in New York.

Per descrivere la personalità dei pazienti depressi, A. Lowen riferisce su alcune difficoltà, tipiche e facilmente riscontrabili.

Queste difficoltà riguarderebbero la mancanza di “grounding”, la fatica attraverso la quale esse si rapporterebbero con il loro corpo, la perdita della fede nel Sé.

Secondo questo caposcuola, essere in “grounding” significa possedere le basi per essere radicato nella vita reale, cosa che mancherebbe nelle persone depresse.

Il termine inglese “nobody” per indicare “nessuno”, “nessuna persona” o “non sei nessuno”, “non esisti se non sei o se non hai un corpo”, oppure, alla lettera, “nessun corpo” o “senza corpo”, illustra bene il concetto secondo il quale le persone affette da depressione avrebbero perduto il contatto con il corpo, non abiterebbero più il loro corpo.

Quando Lowen afferma, invece, che il paziente depresso ha perso la fede nel sé intende dire che egli non ha più fiducia nella vita e presenta difficoltà di apertura verso di essa e verso il futuro. La fede, per Lowen, è in tal modo configurabile come quel ponte capace di collegare passato e futuro transitando per il presente ed è essenzialmente fede nel Sé. Questo ponte nel depresso sembra essere seriamente danneggiato o, quantomeno, compromesso.

E’ il ponte dell’esperienza presente sul quale dovranno essere orientati, allora, gli interventi di psicoterapia.

La fede, secondo Lowen, non è solamente fede in Dio o in una religione; per lui la fede “è anche caratteristica dell’essere: dell’essere in contatto con se stesso, con la vita e con l’universo. È senso di appartenenza alla propria comunità, al proprio paese e alla terra. Soprattutto è il senso di avere “grounding” nel proprio corpo, nella propria umanità e nella propria natura animale. Può essere tutte queste cose insieme perché è una manifestazione della vita, un’espressione della forza vitale che unisce tutti gli esseri (A.Lowen 1980, p.162).

La terapia ha successo quando fa riacquistare all’individuo la fede in se stesso e lo fa divenire una persona autodiretta, diretta dall’interno, dal suo centro.

Negli interventi analitici di bioenergetica partendo dalle sensazioni che provengono dal corpo, dalle emozioni e dai sentimenti in esso depositati, è possibile ristabilirne il contatto perduto e riorientare il soggetto in direzione del Sé, nel fluire esperienziale del tempo.

Viktor Frankl, psichiatra austriaco, sopravvissuto agli orrori dei campi di concentramento della Germania nazista, arrivò alla conclusione che solo gli individui per i quali la vita ancora, nonostante la barbarie, continuava ad avere un senso poterono sopravvivere. Morì chi non ebbe più fede nella vita e nel continuare a lottare di fronte alla tortura, alla crudeltà, al tradimento, alle privazioni e alla degradazione, la vita in questi uomini aveva perso ogni significato.

Antoine de Saint-Exupéry nel suo “Volo di notte", ha descritto molto bene la situazione di crisi personale nella quale si era venuto a trovare e che poté essere superata grazie alla sua fede nella vita.

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Freud si era reso conto che le convinzioni interiori delle persone potevano influenzarne le attività biologiche. Né lui, però, né altri psicoanalisti seguirono questa traccia e restò a W.Reich il compito di mostrare la connessione diretta fra le funzioni corporee e i vissuti emozionali. Fu questo studioso il primo ad introdurre, nella descrizione della depressione, il termine di “atrofia biopatica” per indicare l’indebolimento dell’apparato vivente fino ad arrivare ad una situazione di collasso energetico.

Ogni conflitto psichico avrebbe avuto, secondo questo modello, la sua controparte in un corrispondente disturbo fisico senza esserci separazione tra la sfera psichica e quella somatica; il corpo e la mente venivano ad essere considerati in tal modo due aspetti di un’unica realtà.

Se si osserva il corpo di una persona depressa colpisce il fatto della sua scarsa vitalità. Il suo atteggiamento è caratterizzato da difficoltà nel consapevolizzare le limitazioni imposte dalle proprie rigidità muscolari, la motilità è ridotta e la respirazione è fortemente ridotta.

Queste persone tendono ad identificarsi nel proprio Io piuttosto che nel loro corpo; si identificano più nella volontà e nella immaginazione che nel vivere pulsante del presente. La vita del corpo che è vita nel presente, è respinta ed è avvertita come irrilevante o come dolorosa e piena di sofferenze.

Lowen, per esplicitare il problema depressivo, paragona la depressione alla perdita di aria che può verificarsi in un pallone che sia gonfio. Di fatto, riferisce, è la carica energetica che si muove all’interno di un corpo che conferisce a quel corpo energia e motilità. Un organismo dotato di poca energia possiede un minor livello di eccitazione interna, si muove con fatica, è meno desto e meno pronto nel rispondere alle richieste dell’ambiente.

Nelle persone depresse questa carica è presente in maniera limitata e si assiste ad un impoverimento nella capacità del loro sentire interiore e ad una corrispondente perdita di motilità.

Esse hanno imparato a reprimere i sentimenti allo scopo di eliminare il dolore.

Possiamo parlare pertanto di depressione come di un collasso interno. La depressione è “morire dentro”, emotivamente e psicologicamente, e questo spiega perché essa è spesso accompagnata da pensieri, azioni o sentimenti suicidi. Il suicidio secondo Lowen, è l’atto consapevole dell’Io che si rivolta contro il corpo per non essere stato all’altezza dell’immagine che l’Io stesso si era fatta di lui, è l’ultimo atto di aggressione di un Io alterato e onnipotente che non è riuscito ad esprimere i suoi sentimenti veri.

Freud in “Lutto e melanconia” riferisce che vi è una relazione significativa tra depressione, suicidio e repressione dell’ostilità e che questa relazione non deve essere trascurata se si vuole comprendere in modo approfondito le dinamiche interne dell’individuo depresso.

Secondo Freud, nel lutto è il mondo a diventare povero e vuoto, mentre nella melanconia è l’Io stesso ad essere povero e vuoto.

Più tardi, la figlia Anna ebbe modo di verificare come gravi privazioni affettive subite durante la prima infanzia, riattivate durante l’adolescenza, potessero portare perfino al rischio di suicidio che è sempre da intendersi come rinuncia dell’Io alla conservazione di sé.

Da sottolineare che in questi ultimi anni il suicidio è in aumento ed è la seconda causa di morte fra gli adolescenti.

Se inoltre possiamo considerare le attuali piaghe sociali rappresentate dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza quali comportamenti reattivi al senso di disperazione a cui la depressione espone, siamo anche in grado di comprendere l’alto valore di patogenicità presente nella depressione.

Secondo Luigi Pavan, psichiatra italiano, i suicidi oggi non aumenterebbero per un rapporto conflittuale con i genitori, bensì, ancora più grave, per colpa di relazioni estremamente povere di comunicazione.

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Karl Abraham, dopo anni di studi psicoanalitici, ritenne che la depressione fosse dovuta alla contemporanea presenza di sentimenti ambivalenti di amore e di odio; in particolare, l’odio non ammesso e rimosso, non elaborato e metabolizzato, poteva essere rivolto, come il sentimento di colpa, all’interno, contro il Sé determinando la depressione.

Secondo il modello loweniano, ed anche secondo John Bowlby che vedremo in seguito, l’espressione del disappunto, dell’ostilità, della rabbia per una perdita avvenuta è utile all’individuo per elaborare in modo appropriato la sua condizione interiore di sofferenza e di lutto.

Nei pazienti depressi spesso troviamo che essa viene razionalizzata.

A cosa serve protestare se nulla potrà cambiare?”, riferiscono questi pazienti nelle sedute.

Come ben sappiamo l’elaborazione del lutto non ha questo scopo, essa non può cambiare una condizione esterna reale. Elaborare un lutto o una condizione di sofferenza estrema è concedersi l’espressione di un sentimento che potrà consentire alla vita di procedere.

Se l’espressione di questi sentimenti viene trattenuta, il flusso della vita subirà tensioni e limitazioni che potranno portare l’individuo alla depressione.

Attraverso metodiche psicocorporee sarà possibile rendere consapevole il paziente di come il suo vissuto depressivo influenzi la personalità nella sua totalità.

Questa operazione di “contatto con se stessi”, molto delicata dal farsi, può essere non esente da dolore psichico poiché suscita sentimenti e sensazioni che erano state represse perché diventate insopportabili.

Il problema terapeutico nella relazione con questi pazienti sta nel ristabilire in loro la progettualità esistenziale e far sviluppare la capacità di provare piacere, compito non facile dato che queste persone sono sì affamate di piacere ma non in grado, spesso, di percepire tale fame.

Lavorare sul corpo facilita il ricordo delle memorie rimosse e dei sentimenti repressi.

Antonietta, una paziente, controllando la sua respirazione era in grado di mantenere sopito il dolore psichico, fu fondamentale renderla consapevole di questa relazione ed avviarla a sviluppare una respirazione più profonda che fosse collegata a dei vissuti personali.

Contemporaneamente al lavoro sul corpo cominciai l’analisi delle sue reazioni comportamentali legandole dapprima alla sua sfera emotiva in seguito allo sviluppo della capacità di comprendere la propria situazione, il possibile significato e cause.

Nell’arco di poco tempo, partendo dalla consapevolezza del proprio corpo, Antonietta progredì fino a sentirsi più viva e più incline alla speranza.

Era riuscita ad arrendersi al corpo e alle sensazioni ed emozioni che da esso provenivano.

Prima di sottoporsi alla metodica analitica bioenergetica, ella aveva cercato di uscire dalla depressione facendo leva sul suo amor proprio, sulla sua forza di volontà e sul distrarsi nel compiere azioni. Questi comportamenti non aiutarono Antonietta poiché, date le condizioni depressive, non potevano fare affidamento sulla necessaria base energetica.

La volontà, avverte Lowen, ha un grande valore ai fini della sopravvivenza, ma nessun valore ai fini del piacere.

Nelle persone depresse la volontà non può aiutarle a ritrovare l’equilibrio, esse piuttosto hanno bisogno di essere dirette nella ricerca attiva del piacere che nella loro vita hanno perso.

Per ottenere che questa paziente affrontasse se stessa in maniera autentica bisognava aiutarla ad ascoltare il proprio corpo: esso era rigido, contratto, immobile e spaventato.

A livello fisico, il problema di Antonietta era quello di accettare la sua rigidità, a livello psicologico di accettare la solitudine, la tristezza e la paura. L’aumento della rigidità aveva portato Antonietta ad una riduzione della capacità di risposta del suo organismo e ad una difficoltà nell’utilizzare le sue potenzialità e la sua energia. Antonietta era inoltre incapace di rilassarsi a causa dei suoi blocchi e delle sue forti tensioni. Aveva seguito in precedenza, prima di rivolgersi a me, un corso di tecniche di rilassamento – il training autogeno – ma senza successo per le ragioni specificate.

Man mano che la consapevolezza procedeva si concedeva, nella terapia, più spazio alla riflessione interiore e veniva fatta sempre più luce sull’origine delle sue tensioni.

Sono sempre più consapevole del mio corpo”, osservò durante una seduta, “sento che il cedimento delle mie rigidità è un fatto positivo, che vivo in modo intenso e sento importante ai fini del mio star bene”, espresse nel corso di un’altra.

Nella sua vita infantile anch’essa, come tante persone depresse, era stata privata della soddisfazione dei suoi bisogni ed aveva perduto quella capacità che Lowen individua nel protendersi e nell’aprirsi al piacere.

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Uno dei primi analisti, Karl Abraham mise in relazione la depressione dell’età adulta con la depressione primaria nell’infanzia.

Secondo questo studioso, vissuti emozionali con caratteristiche depressive sorte da esperienze infantili di frustrazione esporrebbero questi bambini, una volta divenuti adulti, alla depressione maniaco-depressiva.

Secondo B.Bettelheim, uno dei massimi esponenti di psicologia infantile, i comportamenti a rischio di adulti e adolescenti che mettono in pericolo la loro vita rappresenterebbero tentativi disperati di mettere a tacere la loro voce interiore di autovalutazione negativa: non vali niente, sei una nullità, convincimenti interiori originati da esperienze infantili che avevano fatto sentire al bambino come il suo corpo, e con il suo corpo la sua persona, non avesse alcun valore (Un genitore quasi perfetto, p.208).

Il fenomeno della depressione infantile fu in seguito studiato da Melanie Klein che curò con la psicoanalisi un buon numero di bambini piccolissimi.

René Spitz osservò invece lo sviluppo dei bambini in seguito alla perdita della madre. I bambini sottoposti alla sua osservazione dopo tre mesi di separazione tendevano a presentare rigidità muscolari nel corpo, in particolare sul viso e lungo la colonna vertebrale, e il pianto, come reazione iniziale, veniva sostituito da piagnistei ai quali seguiva letargia.

Se la separazione non cessava, i bambini entravano in uno stato di ritiro dal mondo che Spitz definì “depressione anaclitica”, per distinguerlo dalla reazione depressiva degli adulti, ma fece notare che nel loro atteggiamento corporeo e nel loro comportamento questi bambini piccoli mostravano caratteristiche che potevano riscontrarsi nella depressione degli adulti. Egli poté teorizzare questa depressione come il risultato di un distacco, traumatico, del Sé nascente dal non Sé con il quale il bambino era fino ad allora fuso.

John Bowlby osservò casi di separazione prolungata e confermò le conclusioni alle quali era giunto Spitz.

In particolare dai suoi studi risultò che i bambini in primo tempo tendevano a protestare e cercare in tutti i modi di riavere la madre, in seguito essi assumevano atteggiamenti di disperazione passando da crisi di pianto sconsolato a pianti monotoni ed intermittenti con perdita di peso e arresto dello sviluppo; dopo questo stadio essi assumevano un atteggiamento di distacco-rifiuto, divenendo abulici e ripiegati su se stessi, continuavano a perdere peso e a contrarre malattie con facilità; successivamente poteva subentrare una fase caratterizzata da arresto irreversibile dello sviluppo intellettivo fino ad arrivare ad uno stato di marasma.

Questo studioso sostenne che quando un bambino o un adulto reagisce con rabbia di fronte ad una situazione reale di perdita egli sta reagendo in modo naturale e perfettamente normale. Egli scrive: “lungi dall’essere patologica, questa manifestazione suggerisce l’idea che l’espressione aperta di questo bisogno così imperioso e potente, per quanto irrealistica e disperata possa essere, è una condizione necessaria affinché l’espressione del cordoglio compia il suo corso normale. Solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per recuperare l’oggetto perduto, sembra che l’individuo sia nello stato d’animo di ammettere la disfatta e di orientarsi di nuovo verso un mondo in cui la mancanza dell’oggetto amato è accettata come irreversibile”.

A sostegno delle tesi di Spitz e di Bowlby, ci sono i lavori che H.Harlow condusse nel 1959. Egli mise a punto una situazione sperimentale in cui vennero utilizzati due manichini: uno di fil di ferro, munito di biberon e l’altro di peluche, privo di biberon. Questi manichini vennero messi all’interno di una gabbia dove vivevano fin dalla loro nascita alcune scimmiette. Harlow si accorse che i piccoli di scimmia restavano con le madri “fredde”, quelle fatte di fil di ferro, soltanto il tempo necessario per prendere il latte, mentre trascorrevano gran parte del loro tempo avvinghiate alla madre soffice, di peluche.

Questo esperimento, allora celebre, segnò una tappa importante per la comprensione dello sviluppo del legame di attaccamento: esso, oltre ad essere in relazione con il soddisfacimento orale, è anche, soprattutto, legato alla soddisfazione di un bisogno molto forte presente nelle prime fasi della vita che coincide con il desiderio di disporre di un contatto fisico “caldo”, rassicurante e protettivo.

Gli studi finora condotti hanno mostrato che tanto i neonati della specie umana quanto quelli di scimmia hanno bisogno, per “funzionare normalmente”, del contatto fisico con il corpo della madre.

Questo contatto carica la pelle di sensibilità e stimola la comunicazione tra la madre e il bambino a livello tonico muscolare. Se questa relazione, avverte Ashley Montagu, medico e studioso di antropologia, è vissuta in modo piacevole e gratificante dal bambino, essa è un antidoto alla depressione e prepara il bambino ad aprirsi alla vita.

Importante poi è la relazione visiva che si instaura tra neonato e madre.

La ricchezza dei sentimenti espressi dallo sguardo della madre, e dal bambino ricambiati, danno inizio allo sviluppo del senso del sé, dell’autostima e delle funzioni emozionali, vere e solide basi per lo sviluppo delle competenze cognitive.

I comportamenti, poi, amorevoli della madre che Winnicott definì “sufficientemente buoni”, ma ricchi di contatto affettivo, consolideranno e approfondiranno la significatività della relazione madre-bambino caratterizzando lo sviluppo di quella fase che gli psicologi dell’età evolutiva hanno individuato nel periodo, o fase, dell’attaccamento.

Sviluppando la consapevolezza di essere a contatto con il corpo della madre, il bambino viene in relazione con il proprio corpo e ciò prepara lo sviluppo del suo sé corporeo e, conseguentemente, della sua identità.

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A tal proposito, Lowen avverte che “un buon orticoltore ritarderà la crescita di una pianticella per favorire lo sviluppo del sistema di radici” (A.Lowen 1980, p.179).

In particolare, egli si schiera contro l’attuale atteggiamento, secondo lui pseudoeducativo dei genitori che caratterizzato com’è da massicce stimolazioni volte ad ottenere una rapida crescita cognitiva trascurerebbe le necessarie funzioni di appoggio e nutrimento invece indispensabili per il rinforzo delle radici nei loro bambini.

Come già riferito, secondo l’analisi bioenergetica, le frustrazioni e la sofferenza fanno contrarre il corpo, in particolare l’energia che viene ritirata dalla superficie del corpo viene concentrata nell’apparato muscolare ristagnando in tensioni e blocchi. Se essa non viene completamente scaricata l’individuo può bloccarsi rispetto alla possibilità di protendersi di nuovo verso il piacere, in altre parole, secondo questo approccio, l’individuo avrebbe la possibilità di sviluppare i sintomi di una depressione.

Compito principale della psicoterapia analitico-bioenergetica è aiutare il paziente a riacquistare la capacità di provare piacere.

Nella storia della vita di adulti depressi troviamo sempre esperienze infantili predisponenti e comunque significative e frustranti.

L’avvenimento del passato che più di altri predisporrebbe alla depressione è la perdita, reale o no, di un oggetto d’amore, spesso individuato nella madre, condizione dolorosa che può essere riattivata nella vita adulta allorché un’illusione crolla di fronte alla realtà causando nell’Io un vuoto per la perdita subita.

Gli interventi psicosociali di prevenzione primaria, allora, per raggiungere in modo maggiormente efficace bambini e adolescenti, andrebbero calibrati su genitori e insegnanti al fine di prevenire quegli atteggiamenti e quelle condotte, che alla luce di questi studi, non sono in grado di aiutare, bambini e ragazzi, a crescere in modo sano.

Secondo Freud, in “Contributi a una discussione sul suicidio” (1910), in particolare la scuola, specialmente quella secondaria, dovrebbe creare negli alunni il piacere di vivere, offrire appoggio e sostegno e non dovrebbe mai dimenticare di aver a che fare con individui ancora immaturi ai quali non sarebbe lecito negare il diritto di indugiare.

 

(Articolo a cura del Dottor Alfredo Ferrajoli)

 

 


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