Le Psicosi nella storia
“Fin dalle epoche più remote l’uomo ha tentato di scoprire le cause della malattia mentale, classificarla nelle diverse manifestazioni e curarla con gli strumenti culturali che aveva a disposizione” (De Nicolò, Beretta, 1988, in Colazzo, 2001, pag.159).
Nelle società antiche esistevano numerose teorie e pratiche di guarigione. Molto spesso queste pratiche venivano affidate a sciamani, stregoni e uomini di medicina che possono essere considerati come i precursori degli odierni operatori della salute mentale.
Alcune di queste teorie vedevano ad esempio nella malattia l’azione di spiriti maligni (malattia per possessione) che si erano impossessati del corpo e la terapia consisteva nell’espellere il male attraverso una perdita di sangue, il trasferimento verso un altro essere o ancora attraverso un esorcismo.
Altre ancora ritenevano che la malattia si sviluppasse quando l’anima, spontaneamente o a seguito di un incidente, abbandonava il corpo o veniva sottratta ad esso da spiriti. Il guaritore faceva allora da tramite con il mondo dei viventi, per riportare lo spirito nel corpo.
Le prime descrizioni della malattia mentale si possono rintracciare nella letteratura dei Sumeri e degli Egizi, a partire dal 2600 a.c. (Colazzo, 2001).
Tuttavia il primo studioso che introdusse nella medicina i problemi psichici fu Ippocrate (460-370 a. c). E’ proprio con la sua opera inizia la prima fase del pensiero psicopatologico, la cui influenza si protrarrà fino al XVIII secolo.
Ad essa farà seguito una seconda fase,quella della psicopatologia moderna. Mentre nella prima predomina, nella comunità medico scientifica, un paradigma descrittivo, volto cioè a descrivere la malattia mentale; nella seconda compare anche la dimensione strutturale, nel tentativo di andare oltre la semplice descrizione delle patologie e di ricercare il modo in cui i sintomi si organizzano, le leggi e i principi che strutturano la malattia (Civita, 1999a).
Con Ippocrate vengono gettate le basi della medicina razionale che influenzerà la futura psicopatologia e psichiatria.
Questa influenza è avvenuta grazie alla diffusione del Corpus Ippocraticum, ma anche attraverso una sistematizzazione delle opere ippocratiche fatta da Galeno, medico del II secolo d.c.
Ippocrate respinse la credenza che le malattie fisiche o mentali avessero origine divina, sostenendo invece che avessero cause puramente naturali.
Ippocrate, come anche i suoi successori, non differenziarono le patologie mentali da quelle organiche, e ciò si rifletteva anche nel trattamento. Nonostante ciò, il contributo di Ippocrate è evidente nell’aver individuato sintomi psichici in patologie acute e nella descrizione di malattie che la medicina identificherà come “mentali” (ad esempio la malinconia, la mania, l’isteria, la frenite).
I sintomi psichici descritti si manifestavano nelle malattie acute con febbre, tra essi di particolare importanza, ricordiamo la descrizione del delirio nel quale “il paziente è fuori di sé, non ragiona, spesso straparla e a volte compie atti inconsulti” (Ippocrate, in Civita, 1999a, pag. 10).Nel Morbo sacro troviamo invece la descrizione delle allucinazioni uditive e visive: Quando è innaturalmente umido il cervello si muove, e muovendosi esso né vista né udito possono restare saldi, bensì vedono e odono ora questo ora quello, e la lingua esprime ciò che in ogni momento vedono e sentono (Ippocrate in Civita, 1999a, pag. 11).
I sintomi fisici e quelli psichici venivano presentati allo stesso modo, senza fare riferimento alla diversa natura che li caratterizza.
La salute, secondo il medico di Kos, dipendeva dall’armonia (krâsis) tra le parti del corpo: gli organi e una serie di liquidi che circolano in esso. La malattia, fisica o mentale, si sviluppava invece quando quest’equilibrio si rompeva in seguito ad un disordine umorale, portando l’organismo ad una situazione di diskasia (disordine appunto).
Nella tradizione medica successiva, grazie a Galeno, sono stati distinti quattro umori fondamentali: flegma, bile gialla, bile nera, sangue. Ad ognuno di essi corrispondeva una specifica proprietà in grado di esercitare un’azione attiva sull’organismo: renderlo più secco, o umido; riscaldarlo o raffreddarlo (Civita, 1999b).
Per quanto riguarda le malattie mentali, la diskasia colpiva il cervello: Ed è a causa del cervello se impazziamo, e deliriamo, e ci insorgono incubi e terrori (sia di notte sia di giorno), e insonnia e smarrimenti strani, ed apprensioni senza scopo, e incapacità di comprendere cose consuete, ed atti aberranti.
E tutto ciò soffriamo per via del cervello, quand’esso non sia sano,bensì divenga più caldo o più freddo o più umido o più secco di quanto la sua natura comporti […] (Ippocrate, in Civita, 1999a, pag. 55).
La malattia si configura dunque come una malattia biologia e la sua spiegazione si può rintracciare solo all'interno di una visione meccanicistica.
Tuttavia è esplicito il riferimento di Ippocrate a possibili fattori ambientali (propri dell’ambiente fisico e sociale nel quale il paziente vive) oltre che ad eventi della vita nel determinare la patologia mentale, attraverso il loro effetto destabilizzante sull’equilibrio umorale cerebrale (Civita, 1999 a, b).Anche l’ambito del trattamento delle malattie viene ad essere ripensato con e dopo Ippocrate. Il medico non è più un curatore che ha il potere di mettersi in relazione con forme sovrannaturali, ma un’autorità che segue una praxis, un metodo, universale, naturale, trasmissibile, e che fa affidamento sulla volontà del paziente di guarire.
Lo stesso Ippocrate, infatti, cercava di stabilire un’alleanza con il malato, nell’idea che senza di essa, spesso, la guarigione non fosse possibile.
L’intervento sulla patologia divenne dunque sempre più a carico dei medici che dei sacerdoti; il sapere scientifico ebbe il primato su tutto e il medico ne era il suo principale rappresentante (Colombo et al., 2001).
Successivamente, attraverso il lavoro di Galeno, queste teorie e pratiche furono riprese e portate a Roma, dove rimasero fino alla fine dell’Impero romano.Galeno s’interessò in particolar modo alla clinica e alla terapia (Colazzo, 2001).
Dalle sue opere si evince una visione della patologia come legata alla compromissione di una funzionalità e l’idea che ogni parte del corpo ha una facoltà a cui corrisponde una funzione (Angeletti, Gazzaniga, 2008).
Le funzioni mentali, la cui sede è il cervello, sono per Galeno, così come per altri illustri medici dell’età ellenistico-romana, l’intelligenza, il carattere, la percezione.
Ne consegue che una malattia è mentale laddove l’organo leso è quello da cui deriva l’attività mentale.
Alterazioni delle facoltà mentali dipendono quindi “o direttamente dalla lesione del cervello o da un’alterazione cerebrale che si produce per simpatia a partire dalla lesione di un altro organo” (Galeno in Civita, 1999 a, pag.37).
Molto importante è la distinzione da lui fatta tra le psicosi, “insaniae”, e le nevrosi, (allora chiamate “morbi dell’anima”). Nelle psicosi il paziente tendeva ad isolarsi: “si allontana dal costume sociale normale” (Galeno, in Roccatagliata, 1999, pag. 14).
Inoltre all’interno delle psicosi fecce un’ulteriore distinzione: le exstasis, “insania breve a decorso acuto”; la explesis, una “insania breve scatenata da un evento esterno”; la paranoia lucida da lui definita fanatismo o entusiasmo dovuta “ad una idea che provoca un’alterazione mentale, come avviene per un forte impeto passionale o religioso” (Galeno in Roccatagliata, 1999, pag. 14).
Il medico di Pergamo ci parla anche dell’ebefrenia da lui chiamata “fatuitas” o “morositas”, una psicosi tipica dei giovani, nella quale sono carenti sia le funzioni mentali che quelle pulsionali (“sine corde et sine cerebro”).
La sua caratteristica principale era la mancanza di un discorso logico e la presenza di un pensiero che “procede per salti” (Galeno in Roccatagliata, 1999, pag. 15). La patologia aveva un decorso cronico e non si riscontrava la presenza di delirio.
Il delirio era invece presente in una delle due forme della “parafrosinia”, un’altra psicosi (la seconda forma era di tipo allucinatorio). Il meccanismo scatenante la patologia era da rintracciarsi nella comparsa di un “phantasma”, un elemento immaginativo (definito “aliena imaginatio”), che il paziente reputa vero e da cui si dipana il delirio (Roccatagliata, 1999).
L’età ellenistico-romana (dal I secolo a.c al V d.c) è costellata di numerosi contributi scientifici.Tuttavia si possono delineare, in estrema sintesi, due principali aspetti della psicopatologia della fase antica.
Innanzitutto la strutturazione di un paradigma puramente descrittivo, nel quale i sintomi vengono descritti come alterazioni delle funzioni e le malattie come un insieme di sintomi, categorizzate per formare una prima forma di sistema nosografico.
Il secondo aspetto è relativo alla visione organicistica della patologia mentale: essa scaturisce da una lesione organica.
Prima di giungere ad un nuovo paradigma psicopatologico, quello strutturale, si dovranno attendere molti secoli, durante i quali si manterrà stabile quanto acquisito e la storia della psicopatologia si presenterà impoverita(Civita, 1999a).
Nel Medioevo si assiste ad un ritorno della visione della malattia mentale come oscura e diabolica e la medicina viene nuovamente sostituita con la “demologia”.
La scienza così, ancora una volta, viene asservita al potere religioso e alla superstizione (Civita, 1999a).
La malattia mentale diventa quindi “la malattia del diavolo” o “la malattia delle streghe” (Brunetti, 2002). La spiegazione della malattia era di tipo religioso e il modello esplicativo dominante era quello della possessione demoniaca.
Il paradigma della cura era l’esorcismo o ogni altra forma di trattamento volto a liberare l’indemoniato dagli spiriti maligni, come ad esempio l’interramento utilizzato con i pazienti epilettici, la prigionia, la lapidazione (Colazzo, 2001; Giusti, Azzi, 2013).
Tuttavia l’esempio più eclatante delle conseguenze della visione demologica della patologia mentale è senza dubbio “la caccia alle streghe” (1400-1600/1700) che mise al rogo migliaia di donne, accusate di aver fatto un patto con il diavolo.
Durante il rinascimento, il Tribunale della Santa Inquisizione condannò anche molti scienziati, accusati di eresia perché cercavano di indagare le cause della follia.
Tutto ciò fortunatamente non impedì a molti studiosi di creare spiegazioni alternative della patologia oltre quella demologica.
A questo riguardo, in epoca moderna, risulta importante citare l’opera di Thomas Willis (1621-1675) fautore della teoria neurologica dell’isteria.
Contrapponendosi alla teoria dei vapori, che postulava l’ascesa dei vapori dall’utero, prodotti dell’alterazione di quest’organo, alle varie parti del corpo determinando i sintomi isterici (è forte il richiamo ad Ippocrate, il quale concepiva l’isteria come una malattia che si originava nell’utero), Willis sosteneva che essa scaturisse dal cervello (Civita, 1999a).
I vapori non sono più ascendenti e non provengono dall’utero, bensì il contrario: i vapori hanno origine nel cervello e discendono attraverso vari canali, determinando la sintomatologia isterica.
A partire dal 1600, in vari paesi europei, fu realizzato un sistematico “internamento” dei malati mentali così come dei poveri, degli invalidi, dei vagabondi, dei maghi, delle prostitute, ovvero di tutto ciò che si scontrava con il “razionale”.
La storia del Grande Internamento, descritto da Michelle Foucault nel famosissimo libro “Storia della follia nell’età classica” (1961), è prima di tutto una storia di separazione tra la razionalità e l’irrazionalità, quest’ultima vissuta come minacciosa.
Secondo Foucault ci sono due ragioni che hanno scatenato il Grande Internamento: la prima è di natura economica, la seconda di natura etica. Il periodo tra il 1500 e il 1600 fu un periodo caratterizzato da un aumento dell’urbanizzazione ma, nel contempo, anche da una forte crisi economica.
In un tale contesto sociale ci fu una notevole espansione di comportamenti devianti, oltre che un di un elevato numero di persone disoccupate che vagavano per le città.
Attraverso l’Internamento, la società rispose a queste condizioni da un lato con una condanna dell’ozio (ragione etica) e dall’altro con lo sfruttamento lavorativo dei ricoverati (ragione economica): “L’internamento è una creazione istituzionale […].
Il folle venne così giudicato, secondo un’etica dell’ozio, come un essere inutile nella società, insieme ai poveri, i mendicanti, altri malati e condannato all’esclusione dalla comunità (Foucault, 1961).
Il settecento è stato un secolo importante per la psicopatologia, al di là dei preziosi contributi delle classificazioni delle malattie di Sauvages (1705-1767) e Cullen (1712-1790), colui che diede una svolta alla storia della psicopatologia e diede inizio alla psichiatria moderna fu Philipe Pinel (1745-1826).
Direttore dell’ospedale Bicêtre di Parigi dal 1793, nel quale venivano internati i malati mentali e i vagabondi, dal 1795 iniziò a dirigere l’ospedale della Salpêtrière.
A Bicêtre isolò i malati mentali e li liberò dalle costrizioni fisiche, come le catene, nell’idea che dovessero essere trattati con umanità. Partendo dal principio inviolabile del rispetto della dignità umana, Pinel concepiva il manicomio come un luogo di cura, l’unico luogo dove potesse avvenire la guarigione.
Opponendosi ad una concezione organicista della malattia mentale, riteneva che l’origine della follia fosse nella mente e nei suoi eccessi passionali, un disordine morale (Roccatagliata, 1999).
La guarigione poteva avvenire solo attraverso un trattamento morale, che rappresenta, nella storia, la prima forma embrionale di psicoterapia.
Un altro aspetto importante, che segna il passaggio verso una nuova visione della patologia mentale e della sua cura, è la convinzione che fosse necessaria una conoscenza diretta del singolo caso clinico, attraverso un’attenta analisi della vita, della personalità e dei sintomi del paziente. Questi ultimi infatti hanno un senso se il medico si presta ad ascoltarli (Roccatagliata, 1999; Civita, 1999a).
Con Pinel inizia così ad abbozzarsi il primo tentativo di “comprendere” la malattia che caratterizzerà i secoli successivi, fino ai giorni nostri (Civita, 1999a).
(A cura del Dottore Giovanni Madeddu)
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