Trauma e dissociazione: perché non è facile liberarsi di un passato doloroso
Vissuti traumatici significativi e lo shock conseguente ad un violento ed improvviso irrompere di eventi emotivamente incontrollabili possono portare alla dissociazione (intesa come ‘separazione’ forzata) con lo scopo di proteggersi da stimoli troppo violenti a cui non si riesce a dare un senso razionale.
Ci sono pazienti che nel proprio passato hanno vissuti traumatici significativi; lo shock conseguente ad un violento ed improvviso irrompere di eventi emotivamente incontrollabili può portare alla dissociazione (da intendersi come ‘separazione’ forzata) degli stati mentali connessi, con lo scopo di proteggere da stimoli troppo violenti a cui non si riesce a dare un senso sotto forma di pensiero coerente.
Si tratta di un meccanismo di difesa inconscio, una sorta di ‘manovra d’emergenza’ che si attiva in situazioni di realtà estreme. Goldberg (1995) ha recentemente ampliato questa definizione aggiungendo che la dissociazione è anche un meccanismo che porta a ‘sganciare’ la mente dalle sensazioni che provengono dal corpo e dall’apparato percettivo, come se i movimenti psichici divenissero indipendenti dal soma, a discapito dell’elaborazione delle informazioni complessiva.
Difatti uno dei segnali della presenza massiccia del meccanismo della dissociazione in un paziente è una ridotta capacità di riflettere su di sé ed una difficoltà a percepirsi come ‘personalità globale’; quando la persona parla di sé è come se presentasse un insieme di frammenti o immagini, tra cui racconti di relazioni tra sé e gli altri irrigidite e stereotipate.
La finalità adattiva del meccanismo dissociativo è la protezione di sé da un dolore non arginabile. A volte queste persone appaiono fredde e/o distanti, comunque inautentiche perché le loro reazioni non sono spontanee ed immediate ma è come se osservassero e controllassero il mondo attraverso una ‘corazza’ protettiva. Il dolore esistenziale conseguente deriva dalla sensazione di essere bloccati, di non riuscire a prendere parte alla vita in modo spontaneo e diretto ma di essere costretti senza capire il perché, ad osservarla come uno spettatore alla finestra. Il tempo è come se fosse fermo in un eterno presente dilatato all’infinito che non lascia la speranza di un cambiamento.
La dissociazione può anche essere un meccanismo adattivo soprattutto se è temporaneo e non blocca altri aspetti della personalità che restano mobili e che consentono alla persona di essere comunque creativa e avere soddisfacenti relazioni con gli altri. Allora si tratta di un meccanismo che aiuta a superare una fase difficile proteggendo da un impatto eccessivamente disturbante perché potenzialmente dilagante su altri aspetti della personalità. La dissociazione diventa invece problematica quando costringe la persona ad un ‘ritiro’ massiccio che diviene isolamento e perdita di interesse vitale per qualsiasi aspetto della realtà che la circonda; l’angoscia provocata dal “sentirsi senza via d’uscita” a volte porta a forme di dipendenza patologica (uso ed abuso di droghe, farmaci, alcol, relazioni distruttive ecc.) e ad un progressivo impoverimento delle risorse personali.
Come ricordavo sopra, la necessità di far uso di un meccanismo dissociativo in misura così radicale è una risposta ad un pericolo grave incombente; lo shock, ancor prima della paura, ricorda la reazione di un bambino piccolo che fatica a dare un senso al contesto e a capire cosa lo sta minacciando. Questo porta ad uno stato di preallarme costante e risponde ad un bisogno di ‘sopravvivenza psichica’ fondamentale quello cioè di salvaguardare l’equilibrio del proprio mondo interno evitando che un’angoscia non arginabile possa condurre ad un’esperienza di frammentazione del Sè. Si tratta ad esempio di persone che possono essere state vittime di atti di violenza significativi sia sul piano fisico che su quello psicologico, che hanno subìto maltrattamenti di vario tipo, mortificazioni ripetute, che sono state ignorate affettivamente dalle figure adulte di riferimento, costantemente disconfermate nel loro autentico modo di essere e di sentire.
Quando decidono di intraprendere una psicoterapia sono pazienti che con fatica imparano a narrare le proprie situazioni di disagio emotivo connesse a ricordi traumatici ma grazie alla buona relazione di comprensione e sostegno di cui fanno esperienza con il proprio terapeuta riescono a ristabilire un accesso ai propri stati dissociati e agli episodi connessi, consentendo una graduale costruzione della personalità come qualcosa di piu’ ‘intero’ e coeso.
Le rigide barriere difensive si attenuano a fronte di una nuova condizione di sicurezza che si è venuta a creare e che rende possibile una graduale regressione e l’emergere di stati di sé discordanti, dimenticati o problematici che il terapeuta rispecchia e di cui promuove il senso e una nuova ‘organizzazione’. Non è facile abbandonare il proprio modo di essere che seppur problematico rappresenta una sicurezza acquisita, ma quando questo gradualmente avviene si assiste a cambiamenti di vita significativi nel paziente, nella direzione di una maggior partecipazione vitale piacevole all’esistenza e di un aumento di autostima.
Ecco perché una terapia analitica che consente questo può essere per una persona la prima occasione autentica di essere ‘conosciuto’ e conoscersi per come veramente è, cosa che permette di costruire nel tempo un’identità piu’ definita.
Letture consigliate
- P. M. Bromberg, Clinica del trauma e della dissociazione, ed Raffaello Cortina 2007
- J. Steiner, I rifugi della mente, ed. Bollati Boringhieri 1996
- P. Goldberg, “Successful dissociation pseudovitality and inhautenitic use of the senses” in Psychoanalitic Dialogues, 5.
Articolo a cura della Dottoressa Marcella Dittrich – Psicoterapeuta - Milano
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