Quando maternità non coincide con felicità
Il maternity blues, o baby blues, sopraggiunge due o tre giorni dopo il parto (quindi solitamente in coincidenza con il rientro a casa dall’ospedale) e si manifesta prevalentemente con un umore calante e difficoltà nel prendersi cura del neonato
Per tante donne la scoperta dell’imminente maternità, e l’evento nascita, non rappresentano un momento lieto; al contrario il puerperio può diventare un periodo molto critico dell’esistenza della donna.
Si stima che, nel mondo occidentale, la depressione post-parto abbia un’incidenza del 10-15% delle donne che partoriscono; per quanto riguarda invece il maternity blues l’incidenza oscilla fra il 50% e l’80% delle partorienti. Questi dati dimostrano che la maggior parte delle donne dopo il parto deve affrontare un periodo di squilibrio emotivo a cui spesso non si è preparati e di cui non si sospetta di poter essere vittime.
La differenza fra le due manifestazioni attiene alla durata e alla pervasività dei disturbi ad essi associati. Entrambe sono manifestazioni di malessere psico-emotivo che subentrano dopo il parto, e che in parte dipendono dallo squilibrio ormonale che segue l’evento, mentre per un’altra parte si lega ai vissuti passati e presenti della donna. Ad influire nello specifico sono: una pregressa esperienza di depressione, la stabilità della relazione di coppia nella quale nasce il bimbo, il momento emotivo che vive la donna durante la gravidanza, il rapporto avuto con la propria madre.
Il maternity blues, o baby blues, sopraggiunge due o tre giorni dopo il parto (quindi solitamente in coincidenza con il rientro a casa dall’ospedale) e si manifesta prevalentemente con un umore calante e difficoltà nel prendersi cura del neonato, facilità al pianto. Si tratta di una condizione che generalmente si risolve da sola nel giro di pochi giorni, soprattutto se la neomamma viene adeguatamente assistita, confortata e sostenuta dall’aiuto di familiari o esperti.
La depressione post-parto ha una durata maggiore, ha un esordio che si presenta fra la sesta e la dodicesima settimana dopo la nascita, si manifesta con una prevalente tristezza, maggiore irritabilità, facilità al pianto ed un generalizzato senso di inadeguatezza al ruolo di accudimento. A questi sentimenti si aggiunge un senso di colpa e vergogna, alimentato dal senso comune che vorrebbe dipingere la maternità come un evento felice e sereno in senso assoluto.
La realtà, invece, vede un 67% di donne che lamentano difficoltà di accudimento ed interazione con il proprio figlio appena nato. Tutto questo ci porta a ricordare che genitori si diventa, non è un ruolo geneticamente determinato dal solo fatto di poter generare; imparare a decifrare i segnali del proprio bambino ed avviare con lui una comunicazione ed interazione efficace è un’abilità che necessita di tempo per essere appresa ed affinata. Per alcune donne questo tempo è ridotto, per altre è più lungo. Un contesto sociale che nega questo dato di fatto e propone soluzioni facili ed altrettanto facili giudizi, non fanno altro che aggravare il senso di colpa e sofferenza della neomamma, procrastinando la soluzione dell’episodio depressivo e complicando la relazione con il neonato, con profondi vissuti di inadeguatezza.
I dati rilevati dall’Istituto Superiore della Sanità farebbero pensare che è più diffuso il malessere seguente alla nascita, piuttosto che la felicità che il senso comune narra.
La maternità è una relazione, un legame, e come tutte le relazioni ha bisogno di tempo, cura, attenzione, ascolto, amore per svilupparsi; non è sufficiente la generatività per creare il legame, ci vuole interazione, scambio, comunicazione, emozione, per crearlo. Dunque ogni donna che si sente rappresentata da queste parole non deve vergognarsi né della sua condizione, né di chiedere l’aiuto dei professionisti, c’è chi può aiutarvi senza accuse e senza giudizi a capire meglio cosa state provando, e perché state vivendo un’esperienza emotiva così destabilizzante; c’è chi può aiutarvi nelle prime e più difficili interazioni con il vostro bambino.
Non c’è vergogna nel chiedere aiuto, non c’è vergogna nelle emozioni, non c’è vergogna nello stato d’animo!
(Articolo a cura della Dottoressa Maria Amati, psicologa e psicoterapeuta familiare,
autrice del volume "Nella pelle del Bambino", Ed. Psiconline)
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