Vai al contenuto

Il Lupo

Membri
  • Numero di messaggi

    2
  • Registrato dal

  • Ultima visita

Ospiti recenti del profilo

Il blocco recente degli ospiti è disabilitato e non viene visualizzato dagli altri utenti.

Il Lupo's Achievements

Newbie

Newbie (1/14)

  • One Month Later Rare
  • Week One Done Rare
  • Dedicated Rare
  • First Post Rare
  • Conversation Starter Rare

Recent Badges

0

Reputazione comunità

  1. Ringrazio innanzitutto Ivan per la storia interessante. Sono sostanzialmente d'accordo con te, "all'amor si comanda" anche se ritengo che certe volte occorre imbrigliarlo un minimo, altrimenti diventa ossessione. L'indecisione non va ma bene e probabilmente ci saremmo fatti male a vicenda, ma c'erano mille modi per interrompere il tutto e si poteva tentare un'amicizia - o quantomeno un rapporto di non-belligeranza tra colleghi, circostanza che non c'è. Per quanto riguarda la risposta di pisi, ammetto che mi metti in difficoltà. Non sono innervosito ma sorpreso. Perché ritieni che io sia narcisista? Quali tratti hai individuato? Hai adoperato molte parole per scusarti, ma non hai dato motivazioni. Dici che mi reputi narcisista perché ho detto di non riuscire ad amare, e non capisco l'associazione. Ho affermato di non essere capace di amare perché ho avuto tre relazioni serie e durature - una ha superato i 4 anni - e in nessuna di esse mi sono sentito perfettamente a mio agio. Difatti, ho deciso di prendermi del tempo dall'impegno sentimentale proprio per evitare di creare sofferenze all'altra - e ovviamente anche a me stesso, perché questa mia incapacità di "gettarmi" mi feriva. Ti chiedo delucidazioni. Inoltre, scusami se ti dico questo - e ti assicuro che il mio tono è pacifico - ma non credo sia molto corretto commentare e "accusare", soprattutto con questa foga, se non hai letto tutto il post e non hai quindi una visione completa della situazione.
  2. Ho bisogno di ricevere la vostra opinione su una circostanza che mi sta recando non pochi disagi. Credo di essere al limite. Una premessa necessaria. Ormai da qualche anno, ho deciso di non intrattenermi in relazioni serie. Non mi sono mai sentito confortevole in una dinamica sentimentale duratura, e - dopo aver causato sofferenze evitabili alla mia ultima ragazza, persona adorabile ma che semplicemente non riuscivo ad amare - ho convenuto fosse preferibile evitare di "impegnarmi" quantomeno fino al raggiungimento della maturità emotiva necessaria. La mia stessa vita lavorativa - sono dottorando di ricerca - non mi consente troppo tempo libero né soprattutto una dimora fissa, dato che vengo sballottato da una parte all’altra dell’Europa. Ho accettato di buon grado tale inclinazione esistenziale curando altre porzioni della mia vita - lavoro in primis - e limitandomi alle one-night stands per soddisfare i meri appetiti corporali. Da ottobre 2021 a luglio 2022 ho vissuto a Parigi per approfondire il mio progetto di ricerca, e qualcosa è cambiato. Ho cominciato a percepire un sentimento di solitudine anomalo, che si manifestava soprattutto nell'impossibilità di condividere con qualcuno di vicino le mie passioni e gli aspetti più intimi della propria vita. Passeggiavo per Parigi e guardavo le coppie con una certa apprensione. Per combattere questa ferita del tutto inedita, ho usufruito di varie app di incontri, con il risultato di uscire in media con due ragazze diverse a settimana - pare che le francesi adorino gli italiani, se può interessarvi. Credevo di stare bene, ma non era così: il sentimento di solitudine è accresciuto. Non mi riconoscevo più: ero io ad aver preso quella decisione, ero io ad aver lasciato la mia ultima ragazza - e quella prima, e quella prima ancora - perché infastidito dalla vita di coppia, ero io ad aver rifiutato dall'ultima relazione numerose "sistemazioni" più che adeguate, congeniali, preferendo la vita dello scapolo. Parigi, e soprattutto lo stress lavorativo che ha comportato e l'avvicinarsi dei 30 - ho 27 anni - ha rivoluzionato tutto. A volte sentivo l’esigenza di una compagnia e non di un rapporto sessuale, di una persona con la quale parlare della propria giornata, sfogarsi e ridere di sciocchezze che solo una coppia può comprendere. Ho soffocato quella vocina fin quando ho potuto, cioè fino agli ultimi giorni dello scorso luglio, quando ho partecipato ad un convegno in Georgia e ho conosciuto... una Persona. Questa Persona è mia collega di dottorato - stessa Università - e studia la mia stessa disciplina – in Italia siamo in pochi a farlo - ma non l’avevo mai vista di presenza prima di allora dato il mio trasferimento a Parigi simultaneo alla sua entrata nel corso di dottorato. Già dal primo incontro, quando prendiamo l’aereo insieme, scatta qualcosa, e ce ne rendiamo conto a vicenda pur non ammettendolo espressamente. Durante i giorni del convegno ci conosciamo meglio, e ci accorgiamo delle nostre affinità. Io, soprattutto, vedo in lei una compagna di sofferenze: scorgo nei suoi occhi lo stesso dolore, la stessa lotta alla depressione, che ho sempre celato nei miei. Lei mi rivela subito di soffrire di disturbo borderline, di essere in terapia e... di essere fidanzata, da quasi due anni. Il suo ragazzo vive a sua volta a Parigi, perciò non possono vedersi spesso, ma mi assicura che il loro sentimento è forte e che lo ama intensamente. Pur affermando questo, durante quei giorni in Georgia accade qualcosa, non di natura sessuale ma egualmente compromettente. Non esagero quando dico che mi sentivo di vivere in un romanzo rosa, o in un film di Hollywood per adolescenti. Non mi ritenevo capace di provare un sentimento così forte. In più di un’occasione sta per scappare il bacio, ma riusciamo sempre a frenarci all’ultimo secondo possibile. Durante il viaggio di ritorno, in aereo ci sediamo vicini pur non essendo i nostri posti, e ascoltiamo musica dividendoci le mie cuffie. Scopriamo di amare alla follia la stessa canzone - Fireflies degli Owl City - e la ascoltiamo in loop per una buona metà del viaggio, prima che, grazie alla sua estrema sbadataggine, non perde la cuffia senza più ritrovarla. Mortificata, insiste nel comprarmi un paio di cuffie nuove non appena tornati in Italia, pur avendo entrambi di lì a un’ora i treni per tornare alle rispettive regioni di origine. Riusciamo a ribeccarci davvero per miracolo, e mi consegna le cuffie dicendomi "Le ho incantate: finché le avrai con te, sarai costretto a pensarmi e a non dimenticarmi". Sapevamo entrambi che ciò che era successo non si sarebbe ripetuto, che si sarebbe rivelata una parentesi delle nostre vite - per quanto piacevole. Il giorno dopo le mando una sorta di "messaggio d’addio", in cui dichiaro - mooolto tra le righe - i miei sentimenti, deciso però a chiudere la situazione al di fuori di un rapporto di amicizia e di colleganza; non voglio una relazione clandestina. Lei fa lo stesso. Soffro, ma va bene così. Ciononostante, nel giro di qualche giorno pubblica su instagram una nostra foto - io sono tagliato, ma il mio braccio è ben visibile - scrivendo "Fireflies" come descrizione. Neanche il tempo di chiedermi a che gioco stesse giocando, che mi contatta. Da lì, parliamo tutto il mese di agosto costantemente, conoscendoci del tutto, rivelandoci i nostri più reconditi segreti. Mi scrive messaggi di una bellezza inaudita, descrivendomi porzioni della mia persona che nessuno aveva mai notato, me compreso. Se esiste davvero la magia, funziona grazie alle parole, e lei è una maga più esperta di Albus Silente. Lei scrive da Dio - fidatevi, diventerà qualcuno, un'autrice importante. Scopriamo di avere vissuto una vita molto simile, di soffrire di fobie e disturbi simili, di amare e odiare le stesse cose. Improvvisamente, mi sembra di averla sempre conosciuta: era lei quella persona alla quale parlavo nella mia testa, in quelle giornate solitarie a Parigi. Ci innamoriamo. Lei sostiene di essere poliamorosa, di amare entrambi. Verso fine agosto va col ragazzo in Grecia, e le cose non vanno bene: pensa di lasciarlo, non sente più lo stesso sentimento dopo avermi conosciuto. Ma non lo fa. Lo ama ancora, dice. A settembre torniamo a vivere nella stessa città dato che il mio periodo a Parigi è finito, e Fato vuole che diventiamo vicini di casa. Da lì, non ci separiamo più. Arriviamo a convivere per qualche settimana, finché i suoi sensi di colpa non diventano troppo forti e le bugie al fidanzato troppo traballanti. Avrei tante cose da dire su quei mesi, ma mi rendo conto di star scrivendo già un po’ troppo. Sintetizzo con: giorni meravigliosi, giorni di magia, di amore, di riscoperta di emozioni che avevo seppellito. Ovviamente, tutto in clandestinità. Il primo mese, settembre, scorre come una favola d'altri tempi; non riuscivo più a distinguere il sogno dalla veglia. All'università ci considerano tutti una coppia de facto, e per certi versi lo siamo. Non c'era nulla che ci mancasse, tranne l'ufficialità e il fatto che ogni due-tre settimane circa lei dovesse tornare a Parigi dal fidanzato per qualche giorno. Soprattutto, mi sentivo realizzato nell'aiutarla con i suoi disturbi dell'umore. Volevo dimostrarle che il mondo non è così brutto come crede, volevo combattere fianco a fianco la nostra depressione. Ogni giorno era dilaniata da una nuova forma di sofferenza: lunedì si considerava una fallita a lavoro, martedì non riusciva a guardarsi allo specchio perché brutta, mercoledì diceva di essere una pessima amica e fidanzata e che faceva marcire chi le stava intorno, e così via. Ogni giorno, tentavo con tutte le mie forze di farla stare meglio, e mi piaceva. Mi piaceva, piaceva a me, individuo allergico all’eccessiva vicinanza emotiva, fidanzato che è capace pure di non risponderti per intere giornate se ha da fare. Ma questo degenerò in una forte dipendenza affettiva, da ambo le parti. Mi ripeteva in più occasioni che "Se non ci fossi tu, a volte non mi alzerei nemmeno dal letto. Aspetterei che sia tu a prendermi in braccio". Era sbagliato. Avevamo entrambi perso le nostre abitudini, la nostra routine esistenziale, colpiti da qualcosa che ci è sfuggito dalle mani. Siamo entrambi persone a cui piace stare da soli, articolare autonomamente il proprio tempo e spazio; eppure, eppure ci avessi conosciuto in quei mesi saremmo sembrati l'opposto. Ci vedevamo ogni giorno, anche dopo la fine della convivenza. Ricordo che ogni mattina mi alzavo con la speranza di vederla; contemporaneamente, quelle rare volte in cui ciò non accadeva mi sentivo sollevato, leggero, LIBERO. Cogli amici non facevo altro che parlare di lei, e so che lei faceva lo stesso. La cosa ci sfugge di mano, insomma; il sentimento era troppo forte, e finisce per divorarci. Su di lei i sintomi di questo veleno sono più visibili: non riesce più a lavorare bene, soffre di sleeping paralysis e passa intere giornate a letto, mangia solo biscotti e merendine saltando i pasti principali - durante la sua vita aveva subìto varie volte fasi di bulimia e anoressia, ma sperava di averle risolte con la terapia. Soffre, soffre perché non vuole più tradire il ragazzo, eppure non riesce nemmeno a staccarsi da me. Il suo disturbo peggiora, e con esso la sua depressione. Neanch'io me la passo bene. Già da inizio ottobre, comincio a sentire l'urgenza di definire ciò che stava accadendo tra noi. Volevo un ruolo nella sua vita, volevo stabilità. Dopo anni di precariato sentimentale, di "una-botta-e-via", volevo una relazione seria, proprio io che avevo deciso di smettere. Le chiedevo spesso cosa fossi, se fidanzato o amante, e lei rispondeva che non ero nessuno dei due perché la nostra storia "era magica, senza forma, inspiegabile". Divento nervoso. Più volte proviamo ad allontanarci, più volte le propongo di allentare i rapporti - quantomeno fino ad un eventuale fine della sua relazione col ragazzo. Ma lei - e qui ci tengo a precisarlo - LEI dopo massimo un giorno torna a scrivermi e a chiedermi di vederci, per non parlare di quando spunta direttamente sotto casa con i miei piatti preferiti. Io sto sempre peggio, sento crescere dentro di me un mostro pericoloso. Mi sento sul punto di cadere da un grattacielo, voglio un appiglio sicuro. Voglio o un "Sì" o un "No", un "Ok, adesso lascio il mio ragazzo e mi metto ufficialmente con te" o un "No, è stato bello ma finisce qui perché amo lui e non voglio lasciarlo". Invece no, era dilaniata dall'indecisione. Un giorno sembrava più propensa verso di me, il giorno dopo verso di lui. Un giorno decantava le qualità del suo ragazzo, il giorno dopo piangeva perché l'ultima volta che si erano visti mentre erano insieme pensava a me. Scrive persino dei racconti su questa situazione: un Lupo - io sono alto, moro, palestrato e abbastanza deciso a letto - e una Volpe - lui è rosso, basso, mingherlino, astuto ma spesso impacciato - si contendono la stessa preda, uno scoiattolo, ma alla fine vince sempre il Lupo. Mi accorgo di impazzire, di perdere una porzione di ragione ogni giorno che passa - compresi altri guai che mi stavano capitando nel mentre, soprattutto lavorativi dato che mi sto per addottorare e il futuro per il post-doc non è roseo. Verso fine ottobre, lei parte ancora una volta per Parigi per stare col ragazzo, ma qualcosa va in modo diverso rispetto alle altre volte. Mi chiede di accompagnarla alla stazione. Davanti ai distributori di biglietti per il treno che l'avrebbe portata all'aeroporto, si volta verso di me con l'espressione più sofferente che le avessi mai visto e mi chiede "Ma secondo te dovrei andare a vederlo? Non sto facendo una c∙∙∙∙∙a?". Le rispondo che sono l'ultima persona a cui chiedere, e lei trattiene le lacrime. Lei è spezzata, si vede che non riesce più a reggere questo bipolarismo sentimentale. Qualche giorno dopo mi chiama - lui era fuori a fare la spesa: mi racconta che non fanno altro che litigare furiosamente a causa della loro incompatibilità caratteriale divenuta ormai incisiva, mi vomita addosso tutti i suoi difetti. Non lo aveva mai fatto. Torna, e mi rivela che si stanno per lasciare, che aspettano qualche altro giorno per calmare le acque prima di chiamarsi e di interrompere in modo maturo la loro relazione. L’atmosfera tra noi due diventa frizzante: sentiamo che c’è qualcosa nell’aria, qualcosa che sta per avvenire. Sappiamo entrambi che stiamo per fidanzarci ufficialmente senza più nasconderci, ma non lo esplicitiamo perché, parole sue: "le cose belle non si dicono a voce alta, altrimenti non si avverano". Mi sento felice, dopo tanti anni. 31 ottobre, Halloween: viene da me per una serata film horror. Quando sto per riaccompagnarla a casa, le chiedo come va col suo ragazzo, se hanno parlato, e lei mi risponde con volto inespressivo "No, abbiamo deciso di rimandare la discussione a fine dicembre, quando lui verrà qui per le settimane delle vacanze per provare una convivenza e vedere se funziona". Crollo. Non capisco più nulla. La prospettiva di passare altri due mesi in quel limbo mi devasta, mi mette paura. Mi sento chiuso in gabbia. Non voglio, non voglio rimanere prigioniero di questa indecisione. Pensavo che la situazione si stesse finalmente per risolvere. La rabbia mi sottomette, e la minaccio: "O mandi tu un messaggio al tuo ragazzo raccontandogli tutta la verità, o lo faccio io". Litighiamo per tutta la notte (poveri vicini) lei minaccia il suicidio più volte e arriva anche ad alzarmi le mani addosso. Io insisto che deve parlargli perché ho raggiunto la capienza massima della sofferenza e della pazienza che potevo sopportare, lei insiste che lo ama e che non vuole perderlo. Le chiedo se ho mai davvero avuto una speranza di stare con lei, e lei mi risponde "Non ora, non finché amo lui". Vuole aspettare ancora, vuole provare quest'ultima opzione della convivenza durante le vacanze per capire se c'è modo di restaurare la loro relazione. Ma non vuole lasciare andare me. Io continuo a minacciarla, scrivo addirittura la bozza del messaggio da inviargli. Lei impazzisce del tutto: è incontrollabile, non fa altro che piangere, urlare, dire di volersi suicidare, non riesce più ad articolare le parole, mi tira pugni addosso, prende oggetti contundenti e cerca di ferirsi. Ho paura, non riesco a calmarla. La porto dalla sua migliore amica, e non mi faccio sentire. L'amica mi convince a non mandare il messaggio, riesce a calmarmi, mi assicura di prendersi cura di lei - lei è sul suo letto singhiozzante, le guance ferite dai propri stessi graffi, a urlare di voler morire. Il giorno dopo l’amica mi dice che ha finalmente parlato col ragazzo - sia perché convinta, sia per paura che lo facessi prima io - e che è stata lasciata. Non ho provato alcuna gioia nel sentirlo, ve lo assicuro. Dopo circa una settimana mi contatta dicendomi di aver raccolto tutte le mie cose in un pacco e di passare a prenderle, altrimenti me le avrebbe spedite. Le dico di non poter passare proprio quel giorno, e approfitto per chiamarla e per chiederle come sta, per parlare, per risolvere. Sua reazione: mi blocca ovunque, su tutti i social, su tutte le app di messaggistica, mi blocca le chiamate, mi cancella dalla sua vita. Da allora sto male, sto male perché - al di là dell’ovvia mancanza nella mia vita di una persona che era diventata molto importante - sento la necessità di chiudere in maniera sana la questione, con un dialogo pacifico in cui entrambi espongono le proprie prospettive. Ma lei non me lo permette. Ha detto ai nostri amici in comune che ha paura di me, che sono un mostro per averla minacciata con quel messaggio, che pretende che io non sia mai esistito. Non vuole essere contattata, in alcun modo. Ho provato a inviarle un'email, ma non ho ricevuto risposta - e sono venuto a sapere da un amico in comune che ha reagito male. Negli ultimi due mesi ho avuto paura di andare all’università, luogo che era ormai la mia seconda casa, per paura di incontrarla. Una volta è successo: mi sono avvicinato per salutarla, lei è sbiancata ed è quasi svenuta prima di essere "portata via" da un collega. Capiterà di incontrarla nuovamente, di dover lavorare insieme anche a stretto contatto, di partecipare ad altri convegni. Per ora ci siamo evitati: sappiamo quando uno dei due va all'università, e facciamo in modo di non esserci. Vorrei solo non ci fosse quest’atmosfera tossica. Ho perso da tempo le speranze di ristabilire un legame, ma vorrei quantomeno un rapporto cordiale. Ho provato a contattarla, e la sua reazione è stata pessima. Ditemi voi: cosa dovrei fare? Pretendo troppo? Non voglio ferirla, so che se ha percorso questa strada è perché il contatto con me le fa male. Ma davvero ci dev’essere un obbligatorio aut aut? Il suo benessere deve causare la mia sofferenza, e viceversa? Non ci può essere un compromesso? Sbaglio nello scorgere in questo suo atteggiamento anche una fuga immatura dalle responsabilità? Per favore, voglio che mi diciate dove ho sbagliato - al di là dell'ovvio errore della minaccia del messaggio - anche usando toni ruvidi se lo ritenete necessario. Da quando se n'è andata la mia solitudine è divenuta insopportabile. Vorrei tanto un parere esterno: su di me, su di lei, su di noi.
×
×
  • Crea nuovo/a...

Informazione importante

Navigando questo sito accetti le nostre politiche di Politica sulla Privacy.