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frncs

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  1. Dal punto di vista statistico non dimostra nulla in verità, perché il campione non è scelto in maniera corretta. Si tratta di tutta gente che ha accettato di partecipare a un reality, non tutti lo farebbero, quindi c'è una parte (più o meno ampia non si sa: ci vorrebbe un'altra statistica) dell'umanità che non è rappresentata. Per esempio tra le persone che conosco io (poche e anch'esse poco rappresentative dell'umanità) nessuno sarebbe disposto a partecipare a un reality. Dunque l'unica conclusione vagamente scientifica che se ne può trarre da questo meraviglioso esperimento (ammesso che sia tutto vero, che i concorrenti veramente non sapessero ecc) è che la maggioranza di quelli che partecipano ai reality pur di apparire in tv è disposta a torturare.
  2. Grazie e buona domenica (ormai è quello che resta del finesettima).

    Del resto per me un giorno vale l'altro. E' lo svantaggio (o il vantaggio) di non avere un lavoro regolare.

    Ciao

  3. frncs

    Bordello!

    E' di questo che stiamo discutendo. Lo stato controlla alcune cose e limita certe libertà in nome di certi principi (l'abbiamo già detto). Il più delle volte la limitazione della libertà ha lo scopo di tutelare la libertà degli altri, ma non sempre. A volte è giustificata anche da principi più astratti come quello della dignità dell'uomo. Già una volta ho fatto un esempio sempre nel mondo del lavoro, ovvero quello del minimo sindacale. La legge vieta di pagare un certo lavoro meno di un tot, anche nel caso in cui il lavoratore e il datore di lavoro sarebbero entrambi d'accordo su uno stipendio inferiore. Magari lo fanno lo stesso al nero (come nel caso della prostituzione, che esiste comunque) ma la legge lo vieta. Quindi in linea di principio si possono mettere dei freni alla libertà di scelta in nome di prncipi astratti che lo stato riconosce come valori imprescindibili. Non dico che sia questo il caso della prostituzione (ne stiamo discutendo), ma solo che potrebbe esserlo. E comunque la discussione è su quello, sul controllo, sulla legge. Perché se invece si parla di moralità individuale, per me il problema non si pone proprio, non ho nulla contro le prostitute, non le giudico (nemmeno quelle che lo fanno per libera scelta), non giudico le loro scelte né la loro morale. (Per questo dicevo che per me il paragone con i matrimoni d'interesse non ha senso).
  4. frncs

    Bordello!

    Quello che intendevo dire non è che una donna che sposa un uomo ricco sia più o meno autonoma o sottomessa di una prostituta. Ma che il problema in questo caso non si pone, perché il fenomeno dei matrimoni di interesse non è controllabile, né regolamentabile, anzi non è neanche oggettivamente riconoscibile (a meno che non si voglia considerare tale qualunque matrimonio tra un vecchio e un giovane). Quindi lo stato non può prendere posizione sull'argomento in un modo ufficiale, cioè attraverso la legge. E di conseguenza il valore simbolico viene a mancare (o almeno è di altro tipo). Nell'approvare una legge, lo stato prende posizione rispetto al fenomeno, ed è questa posizione che ha valore simbolico. La legge che vieta la prostituzione è indice di una certa visione di fondo (la cui interpretazione ovviamente non è univoca: può essere vista come limitazione della libertà rispetto al proprio corpo, come espressione di una morale di un certo tipo, o come tutela del corpo femminile dal potere... ecc), una legge opposta avrebbe a sua volta un significato simbolico (annch'esso controverso). Insomma la differenza è tra il fenomeno in sé (prostituzione, matrimonio di interesse, ecc) e la posizione ufficiale dello stato rispetto a quel fenomeno. Ed è di questo che stiamo parlando, della legge, del nostro parere su un eventuale modifica. Non in generale del fenomeno della prostituzione, che esiste comunque, al di là della legge.
  5. frncs

    Bordello!

    Io la differenza la vedo eccome. Perché non guardo la questione dal punto di vista della moralità/immoralità della donna. Quelli per me sono fatti suoi. Non sono cattolica. E, ribadisco, non ho un parere chiaro sulla legalizzazione della prostituzione. Però se guardi i due fenomeni dal punto di vista generale, sociale, la differenza c'è. Nella prostituzione quelllo che mi crea un problema (e il dubbio, altrimenti sarei apertamente favorevole alla legalizzazione) è l'aspetto simbolico, la visione della donna, del potere economico e maschile. Perché checché ne dica Left e altri, la prostituzione è un fenomeno prettamente femminile o omosessuale. E le donne e gli omosessuali nella nostra società sono categorie deboli. Ora, da quello che ho scritto, può sembrare che io sia contraria, e invece no, non lo so, ma è questo ambito qui che mi crea dubbi. Non la moralità individuale della donna.
  6. frncs

    Bordello!

    Grazie. E' interessante, nonostante le conclusioni discutibili. In fondo riassume un po'i dubbi che sono emersi anche qui. Anche io ho cercato qualcosa in proposito, ma non ho trovato niente di recente o di approfondito. Ma va detto che ho cercato un po' sommariamente. MI pare di capire che anche le femministe siano divise attualmente. Da quanto ho letto, pare che invece negli anni 70 erano in gran parte contrarie. Combattevano con le prostitute per l'affermazione dei loro diritti, ma allo stesso tempo erano contro la prostituzione e in questo si scontravano con le idee delle prostitute stesse. Così almeno mi è parso di capire. Del resto emerge anche dalle allusioni alle femministe presenti nel documento che hai segnalato tu.
  7. frncs

    Bordello!

    E' facile immaginare che ne pensino male, ma ora stiamo parlando di prostutuzione. Io cerco di sentire molti pareri, anche il tuo, ma non solo il tuo. Siccome è evidente che l'argomento ha a che fare in larga misura con le donne, mi è venuta la curiosità di sapere che ne pensano (visto che non lo so proprio e in questo caso la risposta non mi sembra evidente). Non capisco dov'è il problema. Grazie juditta. Ora vado a leggere la pagina che hai segnalato.
  8. frncs

    Bordello!

    Vabbè a me interesserebbe sapere che dicono le femministe della prostituzione.
  9. frncs

    Bordello!

    Ma qualcuno di voi sa qual è la posizione delle femministe (ci sono ancora le femministe?) in merito alla questione? Non che io sia sempre d'accordo con loro, ma mi interesserebbe sapere che ne pensano e quali sono le loro ragioni.
  10. Però se si generalizza e teorizza, la differenza tra chi ha fatto psicoterapia e chi non l'ha fatta finisce per divenare irrilevante. Secondo me nemmeno chi ha fatto l'esperienza dovrebbe mettersi a dire "lo psi dovrebbe fare così, essere così..." oppure "la terapia è controproducente in questo e quell'altro caso"...
  11. Il fatto è che qui (almeno in base al titolo e al primo messaggio dell'autrice) non sarebbe questione di "tesi", ma di esperienze concrete. Però è anche vero che se poi il discorso si allontana sempre di più dall'esperienza e acquista un carattere generale e teorico, è naturale che a qualcuno venga voglia di rispondere con teorie opposte.
  12. Non servono competenze per dire una cosa ovvia. Cioè che ci sono casi in cui la terapia non funziona. Si sa. Ci sono gli studi, le percentuali ecc. Lo dicono anche gli stessi psicoterapeuti. Il punto è (qui come prima): a che servono queste generalizzazioni? Perché a mio parere (faccio anche io una semi-generalizzazione questa volta) le generalizzazioni il più delle volte o sono sbagliate (nel senso che c'è qualcuno che non rientra e quindi le smentisce) o sono ovvie (e quindi inutili). p.s. la mia è "semi-" perché ci ho messo "il più delle volte".
  13. Lo scrivi ma poi torni a generalizzare. E poi anche dire che "ognuno ha il suo percorso unico e irripetibile" è una generalizzazione, che in questo caso mi sembra giusta, condivisibile, anche ovvia, ma cmq generale.
  14. Lo so lo so. Non lo dico per quello che hai scritto tu. E' una cosa che penso da tempo (forse da sempre), ma come vedi poi il più delle volte scrivo lo stesso.
  15. Era ottimista infatti. Almeno un po'. Quanto al confrontarsi non ho mai trovato niente da ridire sull'ottimismo altrui, magari non mi convince, lo smonto, ma è un'altra cosa. Invece le generalizzazioni mi innervosiscono. Sono allergica alle verità di fede. Se uno parla di tutti, mi sento chiamata in causa anche io, che non mi riconosco. E mi viene spontaneo dirlo. Per smontare forse, ma non smontare a vuoto, smontare una generalizzazione scorretta (le generalizzazioni estese a tutti sono scorrette finché c'è uno che non ci rientra). Però, nonostante tutto e indipendentemente da questa discussione, me lo chiedo già spesso "perché scrivo qui" e non mi so rispondere. Cioè mi interessano le vostre esperienze (credo che sia per questo che il topic sulla psicoterapia ha tanto successo, perché è fatto di racconti concreti, non è un mero scambio di opionioni) questo lo so, ma in fondo potrei benissimo limitarmi a leggere, come facevo all'inizio, senza intervenire. (Ora per esempio sarei tentata di rispondere di nuovo a federicaweb ma non lo faccio, perché non ha senso).
  16. Il fatto è che quello che dici spesso non ha molto dell'esperienza, ma sembra una specie di verità apostolica dedotta dall'esperienza ma estesa all'umanità. DIciamo che ha lo stile della verità apostolica. E, come anche la psicanalisi insegna, la forma è sostanza.
  17. Tu hai fatto un'esperienza, la tua, come io la mia. Lascia perdere i "tutti". Dire in generale che non siamo pronti, mi sembra una frase fatta, priva di senso e del tutto fuori luogo nei confronti di gente che magari di momenti dopo quello non ce ne ha più, che è in qualche modo malata, che non sa come andare avanti e che cerca una terapia non miracolosa ma almeno utile. Nei casi in cui non funziona, se non funziona perché non è valido per un certo tipo di persona o meglio per un certo tipo di disturbo, dorebbe esserci un qualcosa di interno alla terapia stessa che aiuta il paziente a rendersene conto e a interrompere, invece di abbandonarlo al dubbio per anni, facendogli sprecare tempo e soldi inutili. Il problema (escludendo la disonestà del terapeuta) è che nemmeno loro lo sanno se una terapia che pare non funzionare in realtà sta ancora in una fase preparatoria e poi dopo un po' (mesi, anni?) decollerà, o se invece è statica e inutile. Non lo sanno, magari le loro ipotesi sono solo più ottimiste perché hanno un generica fiducia (pur riconoscendo che non sempre l'esito è quello sperato) nel loro lavoro. Mi sembra chiaro che il problema non sono le ore (che tra l'altro a me erano il doppio perché ci andavo due volte a settimana) ma la spesa. E poi ammesso che si abbia la possibilità materiale di affrontarla, se la terapia riesce, magari cambia 20-30-40 anni. E allora certo la proporzione risulta vantaggiosa. Ma se non riesce quei 20-30-40 anni restano tali e quali a prima. Per quanto mi riguarda (ma l'ho già detto una volta rispondndo a una tua affermazione simile) per me è molto più facile condividere le parti più profonde di me con gente che non conosco (meglio ancora se si tratta di qualcuno che vedo per la prima volta e che non rivedrò), piuttosto che con gente nota. Con quelli che conosco da anni invece ci prendo al massimo il caffè. DA questo punto di vista per me più passa il tempo e peggio è. Quanto all'affidarsi, non è sempre questione di tempo, forse io non ci riesco né in un anno né in dieci. Anzi col tempo nella terapia la mia fiducia diminuiva, corrosa da dubbi (miei), da piccole contraddizioni (sue), da piccoli avvenimenti apparentemente privi di importanza, ma in cui io trovavo conferme (se ne possono trovare sempre quindi non provano mai nulla né in un senso né nell'altro) alla mia sfiducia o almeno al dubbio di fiducia. Insomma il tempo non sempre gioca a favore. Ho pensato spesso durante la terapia che avrei dovuto approfittare all'inizio, quando tutto non era ancora cristallizzato, quando lui era ancora uno sconosciuto e potevo ancora dirgli qualcosa senza temere chissacché, né prevedere le risposte, ecc.
  18. Capisco il pensiero ossessivo. E' spaventosa una cosa così. Spaventosa e ingiusta. Le dipendenze mi fanno paura. Quelle dalle persone soprattutto. Forse è anche per questo che non ho mai potuto abbandonarmi pienamente alla terapia. Loro (gli psicologi) dicono che li si dovrebbe poter sperimentare una relazione più serena, meno spaventosa, perché si è in un ambiente protetto e senza rischi. Ma io i rischi li vedevo eccome. Forse il motivo del fallimento in parte è propro questo. Ma, per curiosità, lavora nel settore pubblico il tuo ex analista o privato?
  19. i dubbi sì glieli ho espressi fin dall'inizio il fatto è che lui vedeva tutto da un altro punto di vista, li chiamava difese, attacchi alla terapia, svalutazioni, diceva persino che qualche cambiamento lui lo vedeva, anche se limitato all'ambito della terapia stessa, ma che ci voleva tempo (e volontà) perché si estndesse al mondo esterno. Ma io i cambiamenti non li vedevo nemmeno all'interno della terapia, sinceramente, se non in una certa rinuncia, rispetto all'inizio, che mi sembrava più che altro un peggioramento, perché in realtà mi allontanava ancora di più da lui. Insomma in ogni caso il dubbio non veniva mai preso come valido e discusso nel contenuto, ma solo nella forma. Poi a volte concludeva dicendo che se continuavo evidentemente pensavo che a qualcosa servisse. Per cui a un certo punto ho anche smesso (o quasi) di parlarne.
  20. Ecco vedi. Avrei voluto sentirlo anche io. E invece no. I tempi ovvio che ognuno ha i suoi. Ma mi chiedo (e me lo chiedevo soprattutto prima, quando non sapevo se interrompere o no), se non si sente che ne vale la pena, con che criterio, per quanto tempo si continua? COme si fa a decidere? Io avrei potuto interrompere prima, o dopo, non c'è stato un avvenimento o qualcosa. Ho rimandato, rimandato, e poi interrotto. Non sapevo e non so se ho sbagliato o se comunque sarebbe rimasto tutto così lo stesso.
  21. ma la riduzione dei sintomi (solo dei sintomi più eclatanti tra l'altro) secondo me era dovuta solo al fatto che c'era la terapia, non a un effetto reale, duraturo, ma solo contingente. Non so come spiegare. Diciamo che durante la terapia non provavo quella disperazione totale di prima. Perché c'era comunque la terapia, qualcosa nel nulla, anche solo come appuntamento da aspettare, come presenza dell'idea di un altra persona che in qualche modo sapeva, insomma di un'idea a cui appigliarsi. Ne ho avute altre di cose di questo genere (in periodi precedenti) a cui appigliarmi per non precipitare del tutto in certi momenti. Però questo non è un cambiamento. Il mio scopo non è sopravvivere ai momenti di disperazione.
  22. Certo, ma tu dei cambiamenti li hai visti. L'hai scritto prima. Rivoluzionari o meno è già una cosa.
  23. e comunque la terapia l'ho fatta per due anni, mica un mese forse sono pochi ma quanto bisogna aspettare prima di dirsi che non serve a niente? ci sarà pure un tempo dopo il quale fermarsi se niente cambia
  24. Sì ma dipende da quanto quei meccanismi impediscano, quanto intralcino insomma. In me impediscono quasi tutto. E il problema non è certo che non li accetto. Li accetto troppo. E dagli errori non imparo, l'ho già detto, li ripeto. Consapevolmente li ripeto.
  25. Per quanto mi riguarda, nella mia vita concreta, nel modo di vivere (o non vivere) le cose della vita, gli effetti della terapia erano completamente assenti. Tutto immutato. Ed è per questo in fondo che ho interrotto. Qualche volta (a livello di pensiero) la terapia mi offriva degli spunti esterni, questo sì, una visione su alcune cose un po' diversa dalla mia (o dalle mie), che però finiva solo per affiancarsi alle mie come ulteriore possibilità. Anche sulle cause del disturbo, dei meccanismi sbagliati, ecc avanzava ipotesi, anche interessanti a volte, ma comunque sempre possibili, mai definitive. E poi il problema principale per me resta il fatto che la comprensione dei meccanismi non modifica (almeno in me) i meccanismi. Non li modificava prima che iniziassi la terapia, quando li osservavo da sola con uno sguardo molto più spietato di quello del terapeuta, e non li ha modificati con la terapia. Lo so, me lo diceva lui e l'ho letto a volte nei vostri messaggi, che il cambiamento richiede oltre alla consapevolezza teorica la concreta sperimentazione (guidata, facilitata, protetta) di meccanismi dversi all'interno della terapia (dove in teoria non ci sarebbe rischio) che poi si estenderebbero anche all'esterno. Ma nel mio caso così non è stato. NOn mi pare di aver sperimentato meccanismi diversi, ma di aver riprodotto anche lì i soliti meccanismi miei, che conosco (almeno in parte), condanno e riproduco comunque all'infinito.
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