LE NASCITE
Mai ricorderemo di essere morto.
Tanta pazienza
per essere abbiamo
annotato
i numeri, i giorni,
gli anni e i mesi,
i capelli, le bocche che baciamo,
e quel minuto di morire
lo lasceremo senza annotazione:
lo consegniamo ad altri di ricordo
o semplicemente all’acqua,
all’acqua, all’aria, al tempo.
Neppure di nascere
abbiamo la memoria,
sebbene importante e sfacciato fu nascere:
e adesso non ricordi un dettaglio,
non hai conservato neppure un ramo
della prima luce.
Si sa che nasciamo.
Si sa che nella sala
o nel bosco
o nel tugurio del quartiere dei pescatori
o nei canneti crepitanti
c’è un silenzio estremamente strano,
un minuto solenne di legno
e una donna si prepara a partorire.
Si sa che nascemmo.
Ma dalla profonda scossa
di non essere a esistere, a avere le mani,
a vedere, ad avere occhi,
a mangiare e piangere e prodigarsi
e amare e amare e soffrire e soffrire,
di quella transizione o brivido
dal contenuto elettrico che assume
un corpo più che una coppa viva,
e da quella donna disabitata,
la madre che lì rimane con il suo sangue
e la sua lacerante pienezza
e la sua fine e principio, e il disordine
che turba il battito, il suolo, le coperte,
finché tutto si mette in ordine e somma
il nodo più il filo della vita,
niente, non rimase niente nella tua memoria
del mare feroce che alzò un’onda
e abbatté dell’albero una mela oscura.
Non hai altro ricordo che la tua vita.