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Come sopravvivere al lutto di aver perso chi, pure, è ancora vivo?


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Quella che sto per raccontare è una storia che inizia ai tempi in cui, da dietro il mio banco di seconda media, arrossivo di niente, e, pure, dall'altra parte della cattedra una persona mi voleva bene sorridendo. Era giovanissimo, parecchio impacciato con noi e per nulla avvezzo ancora al mestiere, ma a me, cui a quel tempo nel sangue scorrevano a fiumi le parole d'incanto dei libri che non avrei più smesso di divorare, la maniera cauta, soppesata, timida con cui, subito di reazione ad un sentore di imbarazzo, soffiva come un gatto, scoccò la prima, purissima, ineluttabile freccia nel cuore. Fu in un qualche gelido giorno del febbraio 2008 che una bambina di soli dodici anni dalla testa fra nuvole cariche di pioggia iniziò a fantasticare su come sarebbe stata la propria vita assieme a quel suo insegnante che, per prima cosa, forse sull'onda di qualche soffiata di altri insegnanti, aveva chiesto: «Chi è Serena?». Ah, sei tu, vieni qui, correggiamo la verifica di grammatica insieme, ti va? Mi innamorai come mai più, e piansi moltissimo quando l'ultima settimana di giugno, precario, lo salutammo. L'anno successivo apparve fra i corridoi dopo che avevo appena consegnato il mio tema d'esame, ed ebbi un tuffo al cuore. Ma la mia vita stava sbocciando, crescevo e con questo credetti di innamorarmi tante volte ancora. D'altro canto lui era impegnato in una relazione seria, e per parecchio tempo non pensai più a lui, pur continuando a nutrire una devozione cristallina al mio affetto. Da pochi giorni dopo quel nostro fugace incrocio per i corridoi, in cui a me mancò l'aria per spiccicare anche solo una parola, iniziammo per caso a sentirci su Facebook: e furono chiacchiere per anni interi, e a volte silenzi per mesi, ma eravamo sempre lì. Io iniziai a confidarmi, la mia situazione famigliare si era scompaginata e le delusioni amorose mi avevano lasciato un sapore di sangue in bocca che solo un amico, quale lui diventò, potrebbe mai edulcorare davvero. Fino ad un anno e mezzo fa: è una sera di dicembre, quando, di punto in bianco, muta completamente i toni sino a giungere all'offesa personale, immotivatamente, e mi elimina dagli amici. Io risposi di rimando, scioccata, che quel suo comportamento mi feriva profondamente e che avrei gradito per lo meno una argomentazione valida, giacchè, lo sapevo bene, non ve n'era neanche l'ombra di una. Iniziò quindi a dirmi che quello che aveva appena fatto sarebbe stato imperdonabile a venire, che era imperdonabile il modo in cui mi aveva trattata, e, costretto ad una motivazione, mi confessò che l'improvviso sbalzo d'umore era stato innescato dall'astinenza da medicinali antidepressivi. Venni così a sapere della sua depressione («Sono uno schifoso depresso con i medicinali sul comodino, ora lo sai»), ed il tutto si concluse con una commozione da parte mia ed un augurio di buonanotte. Il giorno seguente, domenica, ricevetti, mentre mi stavo preparando per una verifica di filosofia, un messaggio con cui mi chiedeva se per caso potessi, quel giorno, andare in stazione verso le quattro. Chiesi perchè. Mi rispose che quello che aveva fatto il giorno prima era imperdonabile, e che prima di andarsene per sempre avrebbe voluto rivedere i miei occhi almeno un'ultima volta. Io, presa dal panico, non potendo lasciare mio fratello minore solo in casa, mi gettai fuori casa e lo attesi all'atrio piangendo, disperata, sola. Aveva smesso di rispondermi e pensavo al peggio, tremavo, stavo quasi andandomene, quando improvvisamente mi girai e lo scorsi sulla porta. Trascorremmo il pomeriggio a chiacchierare, tentai come potei di convincerlo a non uccidersi, quella è la prima reazione che ha chi riceve un annuncio di suicidio, immagino. Io gli volevo tanto bene, anche se secondo lui «Non si vive per fare un piacere a chi ti ama». Lo abbracciai, mi abbracciò, piangeva. Non so come, non lo so, ma arrivammo a baciarci, e mi cullò tanto prima, mi disse parole dolcissime che ora non ricordo più, come tanti dettagli di questa tragica storia. Da quel giorno diventai la sua amante, anche se non mi definì mai in questi termini: diceva di essere confuso, di provare per me una passione mai sentita, di avere paura, di essere terrorizzato, di essere comunque legato profondamente a lei, di non sapere cosa fare. Dopo le vacanze di Natale, tempo di neanche un mese, mi liquidò dicendo di avere sbagliato tutto. Non ci siamo più sentiti fino a maggio, pochi giorni dopo il terremoto, infatti, gli scrissi per sapere se stesse bene. E ricominciammo a sentirci. Nel mentre, convintami ormai di essere non solo stata presa in giro ma essermi a mia volta presa in giro dell'impossibile, avevo stretto da poco una relazione con un mio coetaneo. Tranquilla sul fatto che la cosa non lo avrebbe disturbato, glielo riferii, aspettandomi una sua risposta positiva, un incoraggiamento. Al contrario, si scatenò l'inferno, inferno che io non compresi, contro cui mi scagliai maledicendolo: quale diritto mai aveva più di rivendicare una mia fedeltà? Il due giugno mi scrisse per dirmi che mi aveva sempre amata, in tutto questo tempo, che non aveva mai smesso di pensarmi, che di notte si girava dalla parte opposta alla sua compagna e pensava a me, che mi avrebbe voluta felice. Io piombo nella confusione più totale: una settimana dopo circa, ci rivediamo di persona, per chiarire, non sapremmo dire, nè io nè lui, precisamente che cosa. Decido di mollare, di chiudere i rapporti, lui da una parte ed io dall'altra. Ricevo un messaggio: «Ho sperato fino all'ultimo che tornassi indietro a baciarmi». Risposta: «Anche io». E torniamo indietro, e torniamo a baciarci, e torniamo alla giostra. Ma io sono impegnata, mi sento in colpa doppiamente, non so cosa realmente voglio, e lui è puramente felice con me, lo vedo, ogni traccia di depressione è scomparsa. Il quindici giugno lascia la fidanzata. Cosa che, forse a ragione, credeva sottintendesse per scontato che ci saremmo messi insieme io e lui. Ma io sono spaventata, lo illudo per ben due volte, confusa dall'essere traditrice e soffocata dalle sue continue minacce si suicidio, che si trasformavano in ricatti quando mi vedeva traballare. E' arrivato a dirmi di aver raccolto dell'oleandro e di starselo mangiando, mi ha chiamato fingendo probabilmente dei capogiri a causa del veleno. Un giorno mi disse d'essersi comprato una corda, e mi costrinse, dall'orlo dello svenimento in cui causa mestruazioni ad agosto ero, a correre sotto il sole rovente per fermarlo. Nonostante questo, a me manca tantissimo. Sono sempre triste, è una ferita che non posso sanare. Per il mio diciottesimo compleanno, tre mesi fa, mi ha scritto che mi ama ancora, che mi amerà sempre. Mi ha scritto poesie. E io lo so che mi ama come forse nessun altro mi amerà mai più. Mi manca tantissimo. Da qualche giorno mi è stata diagnosticata una depressione. Ma non posso cercarlo, per tutta una serie di ragione la cui principale è che se qualcuno ti ama non potrà mai più esserti amico. Lui era il mio amico. Il mio amicone. Era tanto bello quando mi lasciava parlare per mezz'ora, tutta convinta, e poi con una frase sentenziosa mi smontava ridendo, e poi mi abbracciava forte. Era tanto bello quando ridevamo. Io non so come sopravvivere.

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