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[...] Le ferite mortali hanno questo in particolare,si nascondono,ma non si chiudono;sempre dolorose,sempre pronte a spremere sangue quando si toccano,rimangono vive e sensibili nel cuore [...]

Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo.

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  • 1 month later...

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Si chiese, come aveva fatto parecchie volte in passato, se per caso non fosse pazzo. Forse, a ben

pensarci, un pazzo non era che una minoranza formata da una sola persona. Un tempo era segno di

follia credere che la terra girasse intorno al sole, oggi lo era il ritenere che il passato fosse

immutabile. Poteva darsi che lui fosse il solo ad avere una simile convinzione, ed essendo il solo

doveva per forza di cose essere pazzo. Tuttavia non lo disturbava granché il pensiero di essere

pazzo: più orribile ancora era la possibilità che non lo fosse.

Prese il libro di storia per bambini e guardò il ritratto del Grande Fratello che campeggiava sul

frontespizio. I suoi occhi lo fissarono, ipnotici. Era come se una qualche forza immensa vi

schiacciasse, qualcosa che vi penetrava nel cranio e vi martellava il cervello, inculcandovi la paura

di avere opinioni personali e quasi persuadendovi a negare l'evidenza di quanto vi trasmettevano i sensi.

Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci.

Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava

il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità

dell'esperienza, ma l'esistenza stessa della realtà esterna.

Il senso comune costituiva l'eresia delle eresie. Ma la cosa terribile non era tanto il fatto

che vi avrebbero uccisi se l'aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione loro.

In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità

esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno

esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?

Ma no! Dentro di lui il coraggio parve riprendere spontaneamente vigore. Nella sua mente si era

insinuato, non richiamato da alcuna particolare associazione, il volto di O'Brien. Era sicuro, più

di prima, che O'Brien fosse dalla sua parte. Stava scrivendo il diario per O'Brien, anzi era a lui

che si rivolgeva: era come una lettera senza fine, che nessuno avrebbe mai letto, ma che era

indirizzata a una persona specifica, dalla quale prendeva e contenuti e stile.

Il Partito vi diceva che non dovevate credere né ai vostri occhi né alle vostre orecchie. Era, questa,

l'ingiunzione essenziale e definitiva. Winston si sentì assalire dallo sconforto al pensiero dell'enorme

potere dispiegato contro di lui, alla facilità con cui un qualsiasi intellettuale del Partito avrebbe

demolito le sue tesi in un eventuale dibattito, le sottigliezze argomentative che lui non sarebbe neanche

riuscito a capire, figuriamoci a contrastare. Eppure era lui a essere nel giusto! Lui aveva ragione e

loro avevano torto. Bisognava difendere tutto ciò che era ovvio, sciocco e vero. I truismi sono veri,

era una cosa da tenere per fermo! Il mondo reale esiste e le sue leggi sono immutabili. Le pietre sono

dure, l'acqua è bagnata e gli oggetti lasciati senza sostegno cadono verso il centro della Terra. Con

l'impressione di rivolgersi a O'Brien e con la convinzione di formulare un importante assioma, scrisse:

Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente.

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Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: - Franti, tu uccidi tua madre! - Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.

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L'istruzione, come la ricchezza, può essere sorgente di bene e di male a seconda delle intenzioni colle quali s'adopra: consacrata al progresso di tutti, è mezzo di incivilimento e di libertà; rivolta all'utile proprio, diventa mezzo di tirannide e di corruttela.

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  • 2 weeks later...

Il gioco

Milo Manara

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“Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti : vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate“.

"Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole [..] è una storia esemplare che racconta di come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione».

da Jean Giono, L'uomo che piantava gli alberi.

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Amare è un verbo non un sostantivo

A.D'avenia

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  • 2 months later...

Sbobinatura, più che sottolineatura... ma non sottilizziamo...

Sembra che per natura, per nascita, gli uomini si dividano in due categorie, cioè quelli che vanno in su

e quelli che vanno in giù. E' una cosa estremamente disgustosa, questa, e contraddice a tutto quello che

noi pensiamo in fatto di morale o di sociologia o di politica, ma sembrava che fosse così allora, cioè che

ci fossero proprio i 'sopra' e i 'sotto', i sommersi e i salvati, quelli che vincono e quelli che perdono.

Sono cose che tutti quanti abbiamo intravisto nella vita di tutti i giorni. Nella vita cosiddetta 'civile'

ci sono dei correttivi, più o meno forti, tanto più forti quanto più è effettivamente civile la società.

Sono tanti, sono la famiglia, sono gli amici, sono i quattrini che uno ha in banca, sono l'eredità materiale

o morale o spirituale che ha ricevuto. Tutte cose che aiutano. E' difficile che nella vita comune uno naufraghi

senza che nessuno gli tenda una mano. Almeno simbolicamente.

E invece era la regola, là. Chi cadeva, cadeva, andava fino in fondo. Non c'era più nulla che lo arrestasse,

nessun ramo che lo arrestasse. E chi andava in su, non trovava nessun correttivo alla sua ascesa, come è o

dovrebbe essere la legge nella vita civile, per cui uno non acquista potenza indefinitamente, o non dovrebbe,

perlomeno. In una società civile non dev'essere così; la marcia all'insù come quella all'ingiù sono frenate.

Là non erano frenate, come un pallone che va in su e un blocco di piombo che va in giù. Era una selezione

'innaturale', se vogliamo dire così. Avveniva in un ambiente violentato, spaventosamente violentato dall'alto,

in cui tutto era capovolto, in cui si acquistava merito nei modi più abominevoli. In cui il furto era premiato,

addirittura. In cui la stessa violenza era premiata, in molti casi veniva gratificata.

(Primo Levi)

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  • 2 weeks later...

Ho gli occhi chiusi, e non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i

rumori: questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla locomotiva sognata, è risuonato

oggettivamente: è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga

nota ferma, poi un’altra più bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca.

Questo fischio è una cosa importante, e in qualche modo essenziale: così sovente l’abbiamo udito,

associato alla sofferenza del lavoro e del campo, che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente

la rappresentazione, come accade per certe musiche e certi odori.

Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando,

e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei

spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra

fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi

perché sanguinavo.

È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante

cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del

tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda,

si alza e se ne va senza far parola.

Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo

stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli

per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro

deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio.

Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora

mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte

volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari.

Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato,

con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo

avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena sempre

ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?

(Primo Levi - Se questo è un uomo)

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  • 4 months later...

Vale la pena notare la complessità del compito della sintesi. Il suono irradiato da una tipica nota di una

chitarra classica mostra picchi chiari nello spettro fino ad almeno 5 kHz. Questo fornisce un utile intervallo

di frequenza su cui indirizzare la sintesi. Corrisponde più o meno alla 60esima armonica della nota più bassa

su una chitarra normale (82 Hz). Ognuna di queste singole “armoniche” della corda può apparire in due

polarizzazioni. La struttura di un tipico corpo di chitarra ha qualcosa nell'ordine di 250 modi di vibrazione

in questo intervallo (con l'aggiunta di un numero pressapoco paragonabile di modi della cavità d'aria [11]).

Mettendo assieme questi numeri, è chiaro che un metodo di sintesi accurato deve tener conto correttamente di

diverse centinaia di gradi di libertà. Può essere una sorpresa apprendere che di predizioni di vibrazioni con

questo grado di complessità, che siano mai state confermate nel dettaglio attraverso esperimenti, ce ne sono

veramente poche. Nonostante siano comunemente in uso, per predizioni di vibrazioni di strutture industriali di

vario tipo, modelli agli elementi finiti molto grandi, quando questi vengono confrontati con misure sperimentali

danno di rado una piena coincidenza oltre i primi pochi modi (anche se aspetti statistici e qualitativi delle

predizioni possono essere validi a frequenze più alte). Non è la prima volta che l'acustica musicale

“preme sui confini” dell'analisi delle vibrazioni.

(J. Woodhouse "On the Synthesis of Guitar Plucks")

Ah... ecco! :Whew:

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"A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. [...] È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave". Ci rimasi secco. Fran."

Alessandro Baricco - Novecento

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Napoleon, seguito dai cani, montò ora su quella specie di palco da cui il Vecchio Maggiore aveva un tempo pronunciato il suo discorso.

Annunciò che da quel momento le sedute della domenica mattina sarebbero state sospese. Esse non erano necessarie e non costituivano

che una perdita di tempo. In avvenire tutte le questioni relative al lavoro della fattoria sarebbero state definite da uno speciale comitato

di maiali presieduto da lui stesso. Questo comitato si sarebbe riunito privatamente e le sue decisioni sarebbero poi state comunicate agli

altri animali. Gli animali si sarebbero ancora riuniti la domenica mattina per il saluto alla bandiera, per cantare Animali d'Inghilterra

e ricevere gli ordini per la settimana; non vi sarebbero state più discussioni. Nonostante l'emozione provocata dall'espulsione di Palla

di Neve, gli animali furono costernati da questo annuncio. Molti di loro avrebbero protestato se fossero riusciti a trovare le giuste

ragioni. Persino Gondrano si sentiva vagamente turbato. Abbassò le orecchie, scosse il ciuffo sulla fronte e fece un grande sforzo per

raccogliere i suoi pensieri; ma infine non trovo nulla da dire. Alcuni maiali invece riuscirono un poco ad esprimersi. Quattro giovani

porci in prima fila emisero acute strida di disapprovazione e tutti e quattro si alzarono e cominciarono a parlare assieme. Ma ecco che

i cani accovacciati attorno a Napoleon fecero udire un profondo e minaccioso brontolio, e i porci tacquero e tornarono a sedere.

Allora le pecore uscirono in un altissimo belato: «Quattro gambe, buono; due gambe, cattivo!» che andò avanti per circa un quarto d'ora e

mise fine a ogni possibilità di discussione. Poi Clarinetto fu mandato in giro per la fattoria a spiegare agli altri la nuova sistemazione.

«Compagni» disse «io confido che ogni animale saprà qui apprezzare il sacrificio che il compagno Napoleon ha fatto prendendo sopra di sé

questo maggior lavoro. Non pensate, compagni, che la direzione sia un piacere! Al contrario, essa è una grande e pesante responsabilità.

Nessuno più del compagno Napoleon crede che tutti gli animali sono uguali. Troppo felice egli sarebbe di lasciarvi prendere da voi stessi

le decisioni. Ma potrebbe accadere che prendeste decisioni errate, e che avverrebbe allora? Supponete che voi aveste deciso di seguire

Palla di Neve col suo mulino campato nella luna, Palla di Neve che, come ora sappiamo, altro non era che un criminale!».

«Ha combattuto valorosamente alla Battaglia del Chiuso delle Vacche» osservò qualcuno.

«Il valore non basta» disse Clarinetto. «La lealtà e l'obbedienza sono assai più importanti. E quanto alla Battaglia del Chiuso delle Vacche,

credo che verrà un giorno in cui troveremo che la parte avuta da Palla di Neve fu molto esagerata. Disciplina, compagni, disciplina ferrea!

Questa è oggi la parola d'ordine. Un passo falso, e i nostri nemici ci sopraffaranno. Certo, compagni, voi non volete il ritorno di Jones!».

Ancora una volta a questo argomento nulla si poteva opporre. Gli animali non volevano certamente il ritorno di Jones; se i dibattiti della

domenica mattina potevano esporli a quel pericolo, i dibattiti dovevano cessare. Gondrano, che ora aveva avuto tempo di pensare, si fece

portavoce del sentimento generale dicendo: «Se il compagno Napoleon lo dice, bisogna che sia così». E da quel momento fece sua la massima:

«Napoleon ha sempre ragione» in aggiunta al suo motto personale: «Lavorerò di più».

Intanto la stagione avanzava ed era cominciata l'aratura di primavera. La baracca ove Palla di Neve aveva disegnato il suo progetto di mulino

a vento era stata chiusa e si supponeva che il progetto stesso fosse stato cancellato dal pavimento. Tutte le domeniche mattina, alle dieci,

gli animali si radunavano nel grande granaio per ricevere gli ordini della settimana. Il teschio del Vecchio Maggiore, ora ripulito di tutta

la carne, era stato dissotterrato dal frutteto e posto su un ceppo ai piedi dell'asta della bandiera, accanto al fucile. Dopo l'alzabandiera,

gli animali dovevano sfilare davanti al teschio in atto reverente prima di entrare nel granaio. Ora non sedevano tutti assieme come usavano

fare nel passato. Napoleon con Clarinetto e un altro maiale chiamato Minimus, che aveva il notevole dono di comporre inni e poesie, sedevano

sul fronte della piattaforma rialzata; i nove cani formavano un semicerchio attorno a loro e dietro si accomodavano gli altri maiali. Tutti

gli altri animali sedevano loro dinanzi nel corpo principale del granaio. Napoleon leggeva gli ordini per la settimana con rude stile

soldatesco e, dopo aver cantato per una sola volta in coro Animali d'Inghilterra, l'adunata veniva sciolta.

La terza domenica dopo l'espulsione di Palla di Neve gli animali furono sorpresi nell'udire Napoleon annunciare che, dopo tutto, il mulino a

vento sarebbe stato costruito. Non diede alcuna ragione di quel mutamento di pensiero, ma solo avvertì gli animali che tale opera li avrebbe

costretti a un ben duro lavoro; sarebbe stato anche necessario ridurre le loro razioni. Il progetto, tuttavia, era stato preparato fino

all'ultimo particolare. Uno speciale comitato di maiali vi aveva lavorato nelle ultime tre settimane. Si prevedeva che la costruzione del

mulino e di altre migliorie avrebbe preso due anni.

Quella sera Clarinetto, in via privata, spiegò agli altri animali che in realtà Napoleon non era mai stato avverso al mulino a vento, anzi,

sua era stata la prima idea, e il progetto che Palla di Neve aveva disegnato sull'impiantito della baracca era stato effettivamente rubato

dalle carte di Napoleon. Il mulino era, infatti, una creazione di Napoleon. Perché allora, chiese qualcuno, egli vi si era opposto con tanta

veemenza? Quella, disse Clarinetto, era stata un'astuzia del compagno Napoleon. La sua opposizione al mulino non era stata che una finta, una

manovra per sbarazzarsi di Palla di Neve il quale aveva un carattere pericoloso e una cattiva influenza. Ora che Palla di Neve non c'era più,

il progetto poteva venire eseguito senza la sua interferenza. Questo, disse Clarinetto, è ciò che si chiama tattica. E ripeté molte volte:

«Tattica, compagni, tattica!» saltellando qua e là e dimenando la coda con un'allegra risata. Gli animali non erano sicuri del significato

della parola, ma Clarinetto si esprimeva in modo tanto convincente, e i tre cani che per caso erano con lui ringhiavano in modo così minaccioso

che essi accettarono la spiegazione senza chiedere altro.

("La Fattoria degli Animali", George Orwell)

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UN PROCESSO

- Si aprano le porte ed entrino gli imputati,

quali sono i reati a loro contestati? -

- Signor Giudice, sono rei d’assassinio d’innocenti,

difensori di pensiero libero e sentimenti,

nel corso di una lunga guerra di Potere,

che affratellava camicie rosse, bianche e nere.

In quel tempo, un silente messaggio persuasivo

costoro lanciarono in modo subdolo, ma invasivo:

Distruggi il diverso, è un tuo nemico,

solo con lo stesso pensiero può esserti amico.

E se zitto e buono con noi starai

ed alle nostre regole tu obbedirai,

prerogative e vantaggi potrai avere,

e successo e denaro potrai ottenere.”

Gli imputati ben conoscevano l’animo umano,

facilmente disposto a diventar mercenario.

Un esercito di venduti si pose al loro fianco,

piegandosi e applicando le regole del branco,

rinunciando, allegramente, alla propria libertà,

e adeguandosi ad una disumana mentalità.

La discordia germogliava da mattino a sera,

frutto del principio del dividi et impera,

menzogne e raggiri alimentavano un caos quotidiano

e avere fiducia nell’altro era ingenuo e vano.

L’insegnamento del Principe Machiavellico

fu il principale strumento bellico,

il famoso motto avrebbe, infatti, giustificato,

ogni sporca infamia e male arrecato.

Sull’altare del Potere i sentimenti furono sacrificati,

se d’intralcio ad esso, gli affetti andavano immolati,

senza rimorso, venne calpestata l’umana dignità,

e nessuno mostrava alcun cenno di pietà.

Questa guerra gli uomini in bestie trasformava

e custodire la propria umanità ai margini condannava.

I valori universali dell’uomo, sempre eterni,

non si confacevano più a quei tempi moderni:

gli ideali che illuminano il terreno cammino,

ritenuti inutili, erano stati buttati nel cestino.

Coloro che si opponevano a questo regime

erano condannati ad una disgraziata fine,

fatalmente perdevano casa, figli o lavoro,

stroncati dalla mancanza del proprio tesoro.

Il loro triste e perdente modello dimostrava

cosa sarebbe accaduto a chi non si adeguava,

e capacità di una faticosa e logorante resistenza

era possibile solo con una ben radicata coscienza.

Risorgere da umane macerie pareva una chimera,

e, per l’omertoso muro d’indifferenza che c’era,

inutilmente veniva cercata d’aiuto una mano,

restando privati, anche, del salubre calore umano.

A brama di suicidio gli oppositori furono istigati,

dopo essere stati torturati ed emarginati,

e la morte fu considerata unica via di salvezza,

per porre fine a così tanta tristezza.

Solo una caparbia ricerca di Giustizia li ha salvati

e dalle proprie ceneri i sopravvissuti sono risuscitati. –

- Ma vostro Onore, replicano gli imputati,

si tratta d’accuse da parte di poveri malati,

neanche un solo proiettile in questa guerra fu sparato

e un cadavere a terra non si è mai contato.

Come possiamo essere ritenuti assassini,

senza macchiarci di sangue di morti lontani o vicini?

Un sistema sociale già corrotto era tutto da cambiare

e per raggiungere tale fine dovevamo comandare.

Ingiustizie e corruzioni c’erano sempre state

e noi le abbiamo vistosamente moltiplicate,

per provocare, prima o poi, una sociale reazione

da cui far nascere una nuova Nazione.

E’ vero, abbiamo fatto la prima mossa

ma tanta gente aveva bisogno di una grande scossa,

un popolo di dormienti andava risvegliato

ed usando astuti mezzi e con l’inganno, abbiamo osato.

La religione è un efficace strumento di potere

e come Dei in terra ci dovevano temere,

dirigendo, con mistero, dalle nuvole celati

sudditi docili e obbedienti, da noi ben addestrati.

Per essere temibili stroncavamo ogni opposizione,

neanche un santo era esentato da carota e bastone,

e se un grave peccato noi scoprivamo,

a causa delle loro stesse colpe, li ricattavamo.

Il nostro continuo spargere dolori e sofferenze

serviva, anche, al risveglio delle coscienze,

e con la promessa di un terreno paradiso,

a chi si sottometteva schiarivamo il viso.

Bastava dare pancia piena e divertimenti,

non chiedevano altro per essere contenti.

Tanta gente non si curava di Giustizia e Libertà

e accettava soprusi e prepotenze come normalità,

era sempre pronta a tradire il proprio amico

pur di avere un banale e possibile beneficio

e la scelta di diventar nostri schiavi

fu conveniente per una pavida massa d’ignavi.

Tutti con un prezzo maggiore o minore

pronti ad osannare un qualsiasi dittatore,

anche un demonio avrebbero servito

pur di sfamare il loro terreno appetito.

Le loro colpe e debolezze abbiamo sfruttato

per avere il comando di un gregge omologato,

poiché un branco di persone è più facile da guidare

quando nessuno in modo libero riesce a pensare,

idolatrando, più di tutto, noi Dei in terra

che azionavamo il meccanismo di questa guerra. -

La parola, infine, passa al Magistrato,

che così riassume ciò che è stato argomentato:

- Con delirio di onnipotenza e presunzione

voi imputati, torturaste il galantuomo e il mascalzone,

trasformando gli uomini in legnosi burattini,

pronti ad ubbidire unicamente ai vostri fini

Il perseguimento dei dichiarati scopi, seppur nobili,

non può mai giustificar l’uso di mezzi ignobili

e violare la psiche umana e bandire i sentimenti

non vi rende, al mio cospetto, innocenti.

Saranno i posteri a giudicare la Storia,

poiché di questi fatti rimarrà scritta memoria,

ma, oggi, dalle vittime Giustizia è reclamata

e la Legge della Vita va sempre rispettata.

Pertanto - sentenzia il Giudice, con un amaro sorriso -

siete colpevoli perché agli uomini l’anima avete ucciso,

con perversa strategia annientaste mente e cuore

ed è per questo che vi dichiaro assassini del Dio Amore. –

_

A tal punto lo scrittore esce di scena,

richiamato dalla melodia di una sirena,

non cerca applausi, caro e paziente lettore,

poiché, della Giustizia, è solo un sognatore.

http://blog.libero.i...sonc=2066731174

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  • 2 weeks later...

Come prima, vi furono calorosi applausi e i bicchieri vennero vuotati fino al fondo. Ma mentre gli animali

di fuori fissavano la scena, sembrò loro che qualcosa di strano stesse accadendo. Che cosa c'era di mutato

nei visi dei porci? Gli occhi stanchi di Berta andavano dall'uno all'altro grugno.

Alcuni avevano cinque menti, altri quattro, altri tre. Ma che cos'era che sembrava dissolversi e trasformarsi?

Poi, finiti gli applausi, la compagnia riprese le carte e continuò la partita interrotta, e gli animali silenziosamente

si ritirarono. Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla

casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio.

Vi erano grida, colpi vibrati sulla tavola, acuti sguardi di sospetto, proteste furiose. Lo scompiglio pareva

esser stato provocato dal fatto che Napoleon e il signor Pilkington avevano ciascuno e simultaneamente giocato

un asso di spade.

Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c'era da chiedersi ora che cosa fosse successo al

viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale

all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.

("La Fattoria degli Animali", George Orwell)

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  • 1 month later...

Io che racconto questa storia sono Suor Teodora, religiosa dell’ordine di San Colombano.

Scrivo in convento, desumendo da vecchie carte, da chiacchiere sentite in parlatorio e da

qualche rara testimonianza di gente che c’era. Noi monache, occasioni per conversare coi

soldati, se ne ha poche: quel che non so cerco d’immaginarmelo, dunque; se no come farei?

E non tutto della storia mi è chiaro. Dovete compatire: si è ragazze di campagna, ancorché

nobili, vissute sempre ritirate, in sperduti castelli e poi in conventi; fuor che funzioni

religiose, tridui, novene, lavori dei campi, trebbiature, vendemmie, fustigazioni di servi,

incesti, incendi, impiccagioni, invasioni d’eserciti, saccheggi, stupri, pestilenze, noi

non si è visto niente. Cosa può sapere del mondo una povera suora?

C'aveva ragione Nello, su Calvino... era proprio un grande. :LOL:

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Io che racconto questa storia sono Suor Teodora, religiosa dell'ordine di San Colombano.

Scrivo in convento, desumendo da vecchie carte, da chiacchiere sentite in parlatorio e da

qualche rara testimonianza di gente che c'era. Noi monache, occasioni per conversare coi

soldati, se ne ha poche: quel che non so cerco d'immaginarmelo, dunque; se no come farei?

E non tutto della storia mi è chiaro. Dovete compatire: si è ragazze di campagna, ancorché

nobili, vissute sempre ritirate, in sperduti castelli e poi in conventi; fuor che funzioni

religiose, tridui, novene, lavori dei campi, trebbiature, vendemmie, fustigazioni di servi,

incesti, incendi, impiccagioni, invasioni d'eserciti, saccheggi, stupri, pestilenze, noi

non si è visto niente. Cosa può sapere del mondo una povera suora?

C'aveva ragione Nello, su Calvino... era proprio un grande. :LOL:

:LOL: mi dici per favore di quale suo libro si tratta?

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ops... dimenticommi il riferimento... :blush: è "Il cavaliere inesistente".

(se vai in "audiolibri" e segui il link ci trovi anche la gustosa riduzione radiofonica)

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ops... dimenticommi il riferimento... :blush: è "Il cavaliere inesistente".

(se vai in "audiolibri" e segui il link ci trovi anche la gustosa riduzione radiofonica)

Grazie!

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  • 3 weeks later...

Solo in un punto pare che Lutero fosse diverso da altri giovani del suo tempo: cioè, nella sua straordinaria

sensibilità e nell'essere soggetto a un periodico alternarsi di esaltazione e abbattimento. Queste variazioni

di umore lo afflissero durante tutta la sua vita. Egli afferma che cominciarono in gioventù e che i sei mesi

precedenti l'entrata in convento erano stati un periodo di acuta depressione. Non si può liquidare questo

fenomeno attribuendolo semplicemente alla crisi dell'adolescenza, dato che a quel momento aveva già

ventun anni e dato anche il perdurare di quei fatti fino all'età adulta. E non è neppur possibile definire

questo caso come un esempio di depressione psicopatica, poiché il paziente si dimostrò capace di una

prodigiosa e continua attività di alto livello.

La spiegazione si trova piuttosto nella tensione che la religiosità medievale creava deliberatamente, facendo

vibrare di volta in volta le corde della paura e della speranza. Si attizzava l'inferno non già perché gli

uomini ne avevano un continuo terrore, ma appunto perché non l'avevano, e per ispirar loro una paura

sufficiente a condurli ai sacramenti della Chiesa. Se erano impietriti dal terrore, si introduceva, per mitigarlo, il

purgatorio: un lungo intermedio nel quale chi non era abbastanza malvagio per l'inferno né abbastanza buono

per il cielo potesse continuare a espiare. Se questo minor rigore ispirava troppa tranquillità si elevava la

temperatura del purgatorio; quindi, si abbassava nuovamente la pressione per mezzo delle indulgenze.

I membri della gerarchia divina, poi, oscillavano tra l'ira e la grazia in un modo che risultava ancora più

sconcertante di quanto non lo fossero le variazioni di temperatura dell'aldilà. Dio veniva raffigurato ora come

Padre, ora come signore del tuono; lo si poteva rabbonire mediante l'intercessione del Figlio, che era più mite

di lui, ma che a sua volta veniva raffigurato come un giudice implacabile, salvo che non venisse addolcito da

sua Madre, che, come donna, non si asteneva dal raggirare sia Dio sia il diavolo a favore dei suoi devoti;

se poi essa era troppo distante si poteva cercare l'appoggio di sant'Anna, sua madre.

Il modo con cui questi argomenti erano presentati è illustrato graficamente da manuali che erano popolarissimi

proprio nel secolo del Rinascimento.

("Lutero", Roland H. Bainton, Einaudi - 1960)

500 anni dopo, abbiamo una "mano invisibile" che ora tutto conduce verso un mondo migliore se ci si affida ad

essa, ora è una "bestia feroce" alla quale bisogna fare dei sacrif, sac... scrff, ueh, grunf grunf.

Bisogna farne di strada...

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  • 1 month later...

TRE UOMINI IN BARCA

Eravamo in quattro, George, William Samuel Harris, io, e Montmorency. Seduti nella mia stanza fumavamo e commentavamo come fossimo mal ridotti - ridotti male, si capisce, dal punto di vista medico, questo intendo dire.

Ci sentivamo tutti e quattro tristanzuoli e ciò ci innervosiva.

Harris diceva che di tanto in tanto sentiva tremendi attacchi di vertigini da non sapere più quel che faceva; e allora anche George disse che aveva attacchi di vertigini e non sapeva più quel che faceva. In quanto a me, si trattava del fegato in disordine.

Sapevo benissimo che si trattava del fegato in disordine perché avevo letto proprio allora un foglietto propagandistico di certe pillole per il fegato nel quale erano elencati tutti i vari sintomi per cui uno può affermare che il proprio fegato è in disordine. E io, quei sintomi, li avevo tutti.

Sarà una cosa straordinaria, ma io non ho mai letto un foglio di propaganda farmaceutica senza arrivare alla conclusione che soffro di quella particolare malattia, descritta dal volantino nella sua forma più virulenta. In ogni singolo caso la diagnosi sembra corrispondere esattamente a tutti i sintomi ch'io abbia mai avvertito. Ricordo che un giorno andai al Museo Britannico per leggere la cura di una lieve indisposizione di cui avevo cominciato a soffrire - febbre da fieno, mi pare. Presi giù il libro e lessi tutto quello ch'ero venuto a leggere; e poi, soprappensiero per un momento, sfogliai le pagine pigramente, e con indolenza mi misi a esaminare le malattie in generale.

Dimentico, ora, quale fu la prima infermità in cui mi ingolfai certo un flagello distruttore - e prima ancora che avessi dato un'occhiata alla metà dell'elenco dei "sintomi premonitori" c'era in me la certezza assoluta che, ovviamente, avevo quella malattia.

Rimasi per un momento agghiacciato dall'orrore, poi con l'indifferenza della disperazione, continuai a sfogliare le pagine. Arrivai alla febbre tifoidea - ne lessi i sintomi scoprii che avevo la febbre tifoidea, che dovevo portarmela addosso da mesi senza accorgermene - mi chiesi che altro ancora avessi; mi capitò sott'occhio il Ballo di San Vito - scoprii, come previsto, d'avere anche quello - e cominciando a interessarmi al mio caso decisi di scrutarmi fino in fondo e quindi ripresi la lettura in ordine alfabetico. Lessi: brividi di febbre intermittente, e seppi che ne soffrivo e che la crisi acuta sarebbe cominciata tra una quindicina di giorni. In quanto a Bright e alla sua malattia del rene, rimasi consolato scoprendo che l'avevo solo in una forma di sottospecie e che, quanto a lei, mi avrebbe fatto vivere per anni.

Il colera ce lo avevo e con gravi complicazioni; con la difterite sembrava che ci fossi nato. Mi sprofondai coscienziosamente in tutte e ventisei le lettere e arrivai alla conclusione che l'unica malattia da cui ero esente era il ginocchio della lavandaia.

Questa scoperta al primo momento mi lasciò piuttosto deluso, mi parve quasi un affronto. Perché mai non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché questa invidiosa eccezione? Ma dopo un po', grazie a Dio, prevalsero sentimenti meno avidi. Ebbi così la possibilità di riflettere che avevo tutte le altre malattie conosciute dalla farmacologia e così mi sentii meno egoista e decisi di fare a meno del ginocchio della lavandaia. La gotta, sembrava che mi avesse ghermito nella forma più maligna senza che ne avessi coscienza; in quanto alle fermentazioni per zimosi evidentemente ne soffrivo dalla fanciullezza. Dopo la zimosi non c'erano altre malattie e così conclusi che non avevo altro.

Rimasi lì seduto a meditare. Pensai... che caso interessante devo essere io dal punto di vista clinico; che pacchia per una scuola!

Gli studenti, avendo me, non avevano più bisogno di fare il giro per gli ospedali. L'ospedale ero io; sarebbe bastato fare un giro intorno a me e poi potevano prendersi la laurea.

Pensai a quanto tempo ancora mi rimanesse da vivere. Tentai di esaminarmi. Mi tastai il polso. In principio non lo trovai, ma poi sembrò che cominciasse a battere tutto di un colpo. Tirai fuori l'orologio e contai. Andava a cento e quarantacinque pulsazioni al minuto. Cercai di sentirmi il cuore. Ma il mio cuore non lo trovai. Non batteva più. Ero sempre stato d'opinione che doveva esserci, e aver pulsato; quindi non mi potevo render conto di che cosa era accaduto. Mi palpai dappertutto sul davanti, da quella che io chiamo la mia vita fino alla testa, e un po' attorno da ciascun lato e un po' sulle spalle. Ma non riuscivo a sentire né udire nulla. Cercai di guardarmi la lingua. La cacciai fuori per quanto fu possibile, chiusi un occhio e cercai di esaminarla con l'altro. Non riuscivo a vedere che la punta e l'unica cosa che ci guadagnai fu di esser certo più di prima che avevo la scarlattina.

Quando ero entrato in quella sala di lettura ero un uomo sano e felice. Quando mi trascinai fuori di lì ero un decrepito relitto umano.

E mi recai dal mio medico. E' un vecchio amicone e tutte le volte che vado da lui perché credo di essere ammalato, egli mi tasta il polso, mi guarda la lingua, parla del tempo che fa, tutto ciò gratis; e pensai che, andandoci ora, gli avrei reso un bel servizio. Mi dicevo: "I medici hanno bisogno di pratica. Egli avrà me. Farà più pratica con il mio corpo che con quelli di mille e settecento di quegli ammalati comuni, trascurabili, che non hanno che una o due malattie ciascuno". Andai dritto dritto da lui, lo trovai in casa e lui disse:

- Be'! Che cos'hai?

Io dissi:

- Caro mio, non starò a rubare il tuo tempo con la narrazione di tutto quello che ho. La vita è breve e, probabilmente, prima che io finissi tu saresti già all'altro mondo. Ma ti dirò quello che non ho. Non ho il ginocchio della lavandaia. Perché proprio non abbia anche il ginocchio della lavandaia non lo capisco, ma il fatto è che non ce l'ho. Però, qualsiasi altra cosa, io ce l'ho.

E gli raccontai come ero arrivato a scoprire il vero.

Ed allora egli mi sbottonò e si mise ad osservarmi, mi afferrò il polso e mi colpì il petto mentre non me lo aspettavo - una cosa veramente da vigliacco, dico io - e subito dopo cominciò a darmi testate col viso per appoggiare l'orecchio al mio petto. Dopo di che si accomodò e scrisse una ricetta, la piegò e me la porse. Io me la misi in tasca e uscii.

Non la lessi. Andai dal primo farmacista e gliela diedi. Il buon uomo la lesse e me la porse indietro.

Disse che non poteva servirmi.

Io dissi:

- Ma non è un farmacista, lei?

Lui disse:

- Sono un farmacista. Se fossi una combinazione di una cooperativa di consumo con un albergo familiare potrei servirla. Ma il fatto di essere soltanto un farmacista me lo rende impossibile.

Lessi la ricetta: Diceva:

1 libbra di bistecca, con 1 bottiglia di birra, ogni 6 ore.

1 passeggiata di dieci miglia ogni mattina.

Andare a letto alle 11 in punto tutte le sere.

E non ti riempire la testa con cose che non capisci.

Seguii la prescrizione col risultato (felice risultato, per quanto mi riguarda) di aver salva la vita, che ancora continua.

Jerome K. Jerome

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  • 4 weeks later...

scrittore:Addornia Sulaiman , libro: la conseguenza dell'amore.

E' il più bel libro che abbia letto in vita mia.

Parla di una storia d'amore pulita e fresca,malgrado il paese e la sua cultura , in cui la storia è ambientata. Mi sono commossa, ho pianto, ho sorriso e ho combattuto con i protagonisti. Ho maledetto il padre, ho amato il coraggio e la freshcezza della ragazza. Ho ammirato l'innamoramento e l'amore puro che di solito non vedo negli uomini.

E l'unico libro che non presto mai, per paura di non riaverlo.Rimane sul tavolo del salotto sempre , affinché si veda .

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LA RINASCITA DELLE DONNE

di Diego Cugìa

Più dei tramonti, più del volo di un airone, la cosa meravigliosa

in assoluto è una donna in rinascita.

Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.

Che uno dice: è finita. No, finita mai, per una donna.

Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede,

anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo

che ti fa la morte o la malattia.

Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai

giocando l’esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina

è un esame, peggio che a scuola.

Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderàdeciderai se sei all’altezza o se ti devi condannare.

Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.

E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci,con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l’aria,che nonflirti con nessuno perché hai il terrore che qualcunos’infiltri nella tua vita.

Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.

Sei stanca: c’è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare,

che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.

Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.

Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre:”Io sto bene così”.

“Sto bene così”, “Sto meglio così”. E il cielo si abbassa di un altro palmo.

Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato

Natali e Pasque.

In quell’uomo ci hai buttato dentro l’anima; ed è passato

tanto tempo, e ce ne hai buttata talmente tanta

di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.

Comunque sia andata, ora sei qui e so che c’è stato un momento

che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.

Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo

lavoro, nella tua solitudine. Ed è stata crisi. E hai pianto.

Dio quanto piangete!

Avete una sorgente d’acqua nello stomaco. Hai pianto mentre

camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro,

sul motorino.

Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.

E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore,

perché l’aria buia ti asciugasse le guance? E poi hai scavato, hai parlato.

Quanto parlate, ragazze!

Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga

sei metri che dia un senso al tuo dolore.”Perché faccio così?

Com’è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?”Se lo sono chiesto tutte.

E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due,

a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli.

Un puzzle inestricabile. Ecco, è qui che inizia tutto.

Non lo sapevi? È da quel grande fegato che ti ci vuole

per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.

Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto

che la trascinerà sempre avanti.

Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma

per la tua nuova te.

Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti

a te stessa.

Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.

Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.

Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta,

è come un diesel.

Parte piano, bisogna insistere. Ma quando va, va in corsa.

E’ un’avventura, ricostruire se stesse. La più grande.

Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore

delle tende o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo

meraviglioso modo di gridare al mondo “sono nuova”,

con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.

Perché tutti devono vedere e capire: “Attenti: il cantiere

è aperto. Stiamo lavorando anche per voi. Ma soprattutto

per noi stesse”.

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita

è la più grande meraviglia. Per chi la incontra e per se stessa.

”È la primavera a novembre. Quando meno te l’aspetti.”

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  • 1 month later...

Anziché dirti di Berenice, città ingiusta, che incorona con triglifi abachi metope gli ingranaggi dei suoi macchinari

tritacarne (gli addetti al servizio di lucidatura quando alzano il mento sopra le balaustre e contemplano gli altri,

le scalee, i pronai si sentono ancora più prigionieri e bassi di statura), dovrei parlarti della Berenice nascosta,

la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell'ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando una

rete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappesi che s'infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruote

dentate (quando queste s'incepperanno, un ticchettio sommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo governa la città);

anziché rappresentarti le vasche profumate delle terme sdraiati sul cui bordo gli ingiusti di Berenice intessono con

rotonda eloquenza i loro intrighi e osservano con occhio proprietario le rotonde carni delle odalische che si bagnano,

dovrei dirti come i giusti, sempre guardinghi per sottrarsi alle spiate dei sicofanti e alle retate dei giannizzeri, si

riconoscano dal modo di parlare, specialmente dalla pronuncia delle virgole e delle parentesi; dai costumi che serbano

austeri e innocenti eludendo gli stati d'animo complicati e ombrosi; dalla cucina sobria ma saporita, che rievoca

un'antica età dell'oro: minestrone di riso e sedano, fave bollite, fiori di zucchino fritti.

Da questi dati è possibile dedurre un'immagine della Berenice futura, che ti avvicinerà alla conoscenza del vero più

d'ogni notizia sulla città quale oggi si mostra. Sempre che tu tenga conto di ciò che sto per dirti: nel seme della

città dei giusti sta nascosta a sua volta una semenza maligna; la certezza e l'orgoglio d'essere nel giusto - e d'esserlo

più di tanti altri che si dicono giusti più del giusto - fermentano in rancori rivalità ripicchi, e il naturale desiderio

di rivalsa sugli ingiusti si tinge della smania d'essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un'altra città ingiusta,

pur sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio involucro delle Berenici ingiusta e giusta.

Detto questo, se non voglio che il tuo sguardo colga un'immagine deformata, devo attrarre la tua attenzione su una qualità

intrinseca di questa città ingiusta che germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio - come

un concitato aprirsi di finestre - d'un latente amore per il giusto, non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una

città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell'ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell'interno

di questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che

è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe d'un'immensa metropoli...

Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente

giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un'altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante,

avvolte l'una dentro l'altra, strette pigiate indistricabili.

(Italo Calvino, "Le città invisibili")

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.............

(Italo Calvino, "Le città invisibili")

:rolleyes: Finalmente sei arrivato anche a questo libro. Il finale è potente, diamogli spazio.

Ciao

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