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Bulli e vecchi merletti


ilaria

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Avrei dovuto forse fare lo sforzo di scorciare quest'articolo per agevolarne la lettura.

ma oltre all'indolenza, ha prevalso anche l'impressione che sia meglio proporre l'intero svolgersi del ragionamento

di chi ha scritto l'articolo.

Anche se una discussione in merito è stata avviata altrove, penso che non sia male proseguirla a partire da un contributo nuovo

nella sezione dedicata alla scuola.

fonte

Cari colleghi,

intervengo sulla questione di Palermo.

Per prima cosa non capisco perché accettiamo di parlare di una

`attempata signora" e non di una professionista di lunga esperienza[..]

Questa professoressa, potrebbe avere non più di 52-55 anni (30 anni di

carriera fissando a 22-25 l`ingresso in ruolo): si è formata a cavallo degli

anni settanta, in piena e vituperata epoca di contestazione e

libertarismi vari. In più vedo che è intervenuta su un tema

particolarmente scottante, non tanto quello del bullismo quanto quello

dell`omofobia, e lo ha fatto senza mezzi termini e senza far finta di

non capire come purtroppo fanno quelli che con il bullismo e

l`omofobia hanno qualche conto aperto. (non ci dimentichiamo che forme

di "nonnismo" e di derisione omofoba sono all`ordine del giorno anche

tra persone che si ritengono culturalmente evolute e personalmente

mature). Quindi non ho dubbi che non si tratta di una attempata

signora ma di una professionista che ha affrontato seriamente un

problema serio.

Ha dato la punizione giusta o no?

Premessa: lavoro da dieci anni nel Progetto Chance, i cosiddetti

`maestri di strada`; i nostri ragazzi sono solo e soltanto quelli che

hanno lasciato o sono stati indotti a lasciare la scuola a seguito di

episodi in cui la parolaccia o lo sgambetto non era rivolto solo al

compagno, ma reiteratamente al docente o al preside. Da noi succedono

ogni giorno cose molto più pesanti. Noi lavoriamo sistematicamente ad

analizzare questi episodi, a capire i nostri errori, ad elaborare

risposte efficaci. Ci sono due massime che uso con i miei colleghi

(svolgo una sorta di supervisione pedagogica sul lavoro dei gruppi di

docenti):

primo: nel nostro mestiere non tramonta il sole se non abbiamo tradito

almeno tre volte i principi in cui crediamo. La relazione con gli

adolescenti è fatta apposta per far perdere la pazienza ad un santo.

Non possiamo fustigarci più di tanto.

Secondo: qualsiasi scelta hai fatto, poiché sei un professionista

attento, era l`unica possibile in quel momento. Noi lavoriamo non per

stigmatizzare l`errore, ma per capire se la prossima volta possiamo

dare una risposta più adeguata.[..]

Quindi penso che la collega abbia fatto la cosa migliore che potesse

fare in quella situazione, così come ogni giorno centinaia di migliaia

di insegnanti attenti fanno la cosa migliore che possono fare in una

situazione che è il più delle volte di isolamento e di difficoltà.

Quindi nessuno ha da darle lezioni.

Altra cosa sono quelle persone – che non definirei né docenti né

educatori – che vanno a scuola pieni di pregiudizi, che vanno a scuola

per combattere una qualche loro battaglia ideologica, che vanno scuola

a scaricare sui ragazzi frustrazioni raccolte in giro per un mondo che

quanto a frustrazioni non ci fa mancare nulla. Quelli sbagliano anche

quando sembrano nel giusto perché non amano i giovani, non amano il

loro lavoro e mettono fiele in tutto quello che fanno. E i ragazzi li

fiutano e rifiutano a distanza.

Ora, sgomberato il campo dai giudizi e dalle etichette mi chiedo

qualcosa a proposito della punizione adottata.

Primo - Non mi chiedo se sia giusta, non mi chiedo neppure se sia

efficace rispetto a quel comportamento, mi chiedo se sia una risposta

educativa; se sia una risposta che fa crescere la giovane persona e

soprattutto se aiuta questa persona a raggiungere un migliore livello

di integrazione del sé e delle proprie condotte.

Secondo – Mi interrogo sul concetto di punizione. Mi è molto più

chiaro il concetto di repressione, ossia quello di una azione che

impedisce la realizzazione di offese alla legge, alla persona, alla

comunità. Punizione invece ha il sapore di una sorta di espiazione,

che quindi dovrebbe portare ad una interiorizzazione delle dolorose

conseguenze dell`errore. Ma se questo è, non si tratta di una risposta

educativa ossia di un mezzo per far crescere, ma di un mezzo di

contenimento e contenzione che non attiva il soggetto ma tende ad

indurre un suo stato di obbedienza alla regola e soggezione alle

autorità che la impersonano. Ma ha mai funzionato questo? Ha mai

funzionato una legge morale gestita dal padre punitivo e vendicatore

se questa non era ospitata dentro di sé? (il cielo sopra di noi la

legge morale dentro di noi mi pare dicesse un filosofo di un certo

rilievo, peraltro molto mite).

Quando infliggiamo al reo una punizione, una sofferenza che lo

dovrebbe aiutare a ricordare che quella azione non va fatta, in realtà

rischiamo di rafforzare l`odio per la `causa` di quella sofferenza che

è la vittima dell`azione illecita; la lettura è più o meno di questo

tipo: per colpa sua – il gay o preteso tale, il nero, il terrone, …. –

e della "congiura" che lo protegge io sono stato punito. Ciò che rende

possibile la violenza sull`altro è l`incapacità di sentire o vedere la

sofferenza dell`altro e l`essere centrati solo sulla propria

sofferenza. La punizione raggiunge quindi l`effetto opposto a quello

desiderato: rinforza l`isolamento e l`incapacità di entrare in

relazione con l`altro; rinforza l`odio ed il rancore verso il diverso

che diventa progressivamente il rappresentante del Male in assoluto.

Questo tipo di punizione è quindi collusivo, accetta il gioco del reo

e non ne scardina la logica, mentre ci illudiamo di punirlo in realtà

ci alleiamo con i suoi sentimenti regressivi e distruttivi. Il

risultato finale di un processo reiterato di questo tipo è il perfetto

fascismo, o, se vogliamo evitare riferimenti politici, la perfetta

personalità autoritaria: violenta, sessuofoba, omofoba, etnocentrica,

maschilista.

Troppo spesso gli adulti in genere e gli educatori più o meno

improvvisati si lasciano travolgere dai giochi innescati dagli

adolescenti e dalle loro provocazioni, con grande sollazzo di questi

che vedono una intera nazione impegnata a schierarsi sui due fronti

della linea …. del cesso. (ah! Bei tempi quando la retorica era "la

linea del Piave")

In questo ed in altri casi vedo un affannarsi intorno alla sanzione

dei comportamenti ( "schifosa violenza" bulletto, prepotente, autore

di reato ….) come se essi nascessero solo dalla mancata sanzione; e

come sempre ci sono due partiti: la tolleranza e il rigore. E se

provassimo con il partito dell`educazione, se provassimo a capire sul

serio cosa sta succedendo, se provassimo a partire dalla profonda

difficoltà educativa del giovane in questione nonché da quelle del

suo eccellente genitore.

Insomma vedo che, come troppo spesso accade, le ragioni dello

schieramento e le ragioni della militanza, ancorché di una militanza

civile e tollerante, si sovrappongono al problema educativo, la logica

"bellica" della contesa politico-morale ci fa dimenticare l`origine

stessa della questione: la difficoltà del giovane a crescere, la

difficoltà di un docente e di una famiglia a svolgere una azione

educativa efficace.

Come affrontare la situazione.

Innanzi tutto ogni volta che c`è una violazione delle regole

elementari e naturali di convivenza c`è una doppia ferita: una nel

tessuto di relazioni intorno al ragazzo ed un`altra nello sviluppo

della persona. La paura omofoba non deriva da pregiudizi sociali, ma

molti pregiudizi sociali hanno origine nella paura omofoba non

elaborata. La paura omofoba è innanzi tutto un timore ed una

incertezza circa la propria identità, in un certo senso è connaturata

al processo di crescita e all`incertezza propria di quella età. Un

ragazzino o una deputata al parlamento che vogliono impedire

l`ingresso al bagno dei maschi (o delle femmine) di una persona

dall`identità sessuale diversa o incerta - vera o presunta - è una

persona che teme una sorta di "contagio cognitivo"; teme che

dall`incertezza del confine tra i bagni derivi una incertezza nella

linea di separazione tra i sessi e quindi in generale una incertezza

sul confine tra ciò che è di una qualità e ciò che è di un`altra

qualità, tra ciò che è bene e ciò che è male. I giovani adolescenti

vivono ogni giorno una tensione quasi intollerabile tra emozioni

opposte e ancor di più si dibattono in situazioni intricate e

confusive. Il giovane bullo ed omofobo ( non lo sappiamo, ma potremmo

aggiungere al suo repertorio comportamentale l`etnocentrismo e il

maschilismo) vive più di altri questa tensione; probabilmente vive in

un ambiente culturale in cui la certezza dei confini e delle

distinzioni sociali è assunta come principio regolatore di ogni

condotta, e quindi vive con particolare difficoltà la propria

condizione di confusione ed incertezza, al punto di non riuscire ad

elaborarla; quindi la agisce attraverso la violenza: infligge ad altri

la sofferenza che non riesce ad elaborare nel suo animo. Cerca fuori

una risposta che non trova dentro, ed il più delle volte trova

colpevole tolleranza o dannoso rigore, mai risposte.

Dunque se il problema è questo noi abbiamo insieme un problema di

integrazione sociale e di integrazione della persona, di costruzione e

ricostruzione di una identità che sappia affermarsi anche nelle

situazioni confusive e in condizioni di incertezza. Abbiamo dunque un

problema educativo, un problema che riguarda le condotte di vita e non

semplicemente un problema cognitivo. Abbiamo anche un problema

cognitivo ossia la necessità di proporre modelli di pensiero dinamici,

che mettano in grado di gestire situazioni complesse e che non

identifichino le necessarie astrazioni concettuali con la complessità

del reale. Un pensiero lineare, geometricamente perfetto è

intrinsecamente produttore di stereotipi.

Il primo punto è quindi prendere coscienza dell`errore, riuscire ad

esprimere il dolore e la confusione che sono all`origine di un agito

violento. Quando parlo di questo parlo di cose anche più gravi, parlo

di coltelli portati a scuola, parlo di violenze fisiche gravi, parlo

di pistole `giocattolo` che sembrano vere e che come tali possono

essere usate per minacciare; parlo di violenze verbali e molestie

sessuali nei confronti dell`altro sesso (con una netta prevalenza

maschile, ma molte ragazze non sono da meno). Quindi non si tratta di

una discussione accademica ma di eventi veri. Questa presa di

coscienza può essere solo sociale, ci vuole un luogo in cui attraverso

la condivisione ciascuno si renda conto di non vivere in solitudine le

contraddizioni ed il dolore; un luogo dove incontro qualcuno chi mi

guida ad uscire fuori da uno stato in cui emozioni elementari

devastano continuamente le fragili costruzioni razionali, le incerte

relazioni sociali. Il senso morale è innanzi tutto il senso di una

reciprocità, il riconoscere se stessi nell`altro, nel sentire il

dolore dell`altro. Senza una base emozionale condivisa nessuna

comunità vive, nessuna regola è fondata.

Nella nostra scuola sperimentale abbiamo uno spazio di discussione

sistematico con gli allievi secondo un appuntamento fisso settimanale

e talvolta anche ad horas. In questo spazio si discute soprattutto di

come vive la piccola comunità di giovani allievi, docenti,

educatori-tutor; di quali emozioni sono in gioco, di quali lacerazioni

ci siano nelle relazioni e nell`animo di ciascuno. In questo modo

abbiamo messo a confronto la vittima con i carnefici, abbiamo

stroncato sul nascere episodi di bullismo e comportamenti sessuali da

branco. Tuttavia le violazioni e le lacerazioni ci sono e sono

pesanti. Cosa fare? Se noi siamo riusciti a costruire attraverso il

confronto sistematico una piccola comunità, ogni lacerazione nel

tessuto diventa una sorta di `scomunica` (i nostri ragazzini del resto

usano il termine `scompagno` per mettere qualcuno fuori le regole

dell`amicizia): noi sottolineiamo la reciprocità della scomunica: il

singolo non riconosce la comunità come propria e la comunità non

riconosce il singolo come proprio membro. Da un movimento espulsivo

reciproco occorre generare un movimento di ricomposizione, un

appetenza del gruppo a ricostituire la propria unità che diventa anche

spazio interiore di ciascuno a riaffermare una identità più forte

attraverso ciò che il gruppo aiuta ad elaborare. Il lavoro

dell`educatore consiste appunto in questo, nell`accompagnare il gruppo

ed il singolo a ritrovare se stessi ogni volta che ci si perde, ogni

volta che i "mal di pancia" - le emozioni elementari - prendono il

sopravvento sul pensiero e sui legami.

Tutto questo lo chiamiamo "riparazione", ossia un movimento teso a

riparare quanto si è lacerato, Sotto questo aspetto se noi vogliamo

ritornare al termine `punizione` potremmo affermare il "diritto alla

punizione" come diritto a poter essere riammessi nella comunità; anzi

potremmo dire che la comunità istituisce la nozione stessa di diritto

come possibilità di regolare inclusioni ed esclusioni. La riparazione

porta con sé anche gesti concreti tesi a ripristinare `lo stato dei

luoghi`: luoghi fisici, luoghi dell`animo. Quando ci sono danni

materiali i ragazzi possono anche essere chiamati a ripararli

trasformando questo lavoro in una vera e propria unità didattica e non

semplicemente una sanzione da pagare. Oppure, e questo è più

significativo, ci sono formali scuse (non le abbiamo imposte ma ci

vengono offerte spontaneamente dai giovani quando la discussione

sull`errore ha raggiunto il suo scopo) o riconoscimento pubblico

dell`errore. In questo modo, attraverso la rievocazione e la

ricostruzione dell`errore e dei suoi motivi, l`errore stesso può

essere `archiviato` il giovane riprende in mano il processo di

crescita della persona e il suo posto nella crescita del gruppo.

Ancora più interessante è la ricostruzione e la riflessione su tutto

il processo di rielaborazione dell`errore, perché in qualche modo si

prende coscienza che la `sanzione` è in realtà un aiuto a rientrare,

che il gruppo ti offre una possibilità di riparazione. In questo modo

senza che ce ne accorgessimo abbiamo istituito una sorta di `corte di

appello` e di "giuria popolare": quando ci sono violazioni gravi e

ripetute e si verifica la quasi impossibilità a lavorare insieme

diventa necessario che la persona segua un percorso diverso uscendo

fuori dal gruppo e dal nostro lavoro sperimentale, a meno che il

gruppo degli allievi, compreso il `reo` non decida di assumersi

l`onere di aiutare questo a restare in limiti accettabili. In questo

modo siamo usciti fuori dalle secche di scelte o troppo drastiche o

incoerenti, e progressivamente siamo riusciti a riavvicinare giovani

altrimenti irrecuperabili.

In tutto questo lavoro noi svolgiamo una attività didattica

fondamentale: usiamo la parola in modo efficace - in modo

contestualizzato, in cui il referente cui la parola si riferisce è

vivo, presente, pervasivo - impariamo ad affrontare il

contraddittorio e realtà contraddittorie, impariamo vedere le cose da

punti di vista diversi. Il tutto non attraverso l`analisi delle forme

retoriche ma attraverso una accesa pratica di discussione e tutto

questo diventa anche concreta esercitazione di italiano nel momento in

cui si stendono dei verbali, in cui si svolgono riflessioni scritte

oppure si riflette sulle strutture linguistiche usate.

[..]

E` invece interessante un`altra questione: a quale disciplina

scolastica si addice questo lavoro?

Abbiamo esteso questa pratica a percorsi formativi integrati

sperimentati in alcuni istituti professionali e tecnici di Napoli.

L`interrogativo che ci è stato posto è se si trattasse di ore di

italiano oppure no e quindi a quale disciplina attribuire il monte

ore e a quale insegnante affidare il compito.

Alcuni presidi hanno insistito ad ancorare questo lavoro alla

struttura delle discipline: se è italiano deve esserci l`insegnante di

italiano anche se non conosce nulla delle tecniche di ascolto attivo e

della conduzione di gruppi di discussione sulle emozioni.

In altri casi i gruppi di discussione sono stati inseriti in un

"percorso di cittadinanza in cui queste ore sono state considerate una

pratica partecipativa e quindi affidate all`ambito delle conoscenze

socio-antropologiche e gestite da un docente che almeno sulla carta

aveva qualche competenza in merito alla gestione delle emozioni e

delle relazioni.

In altri casi sono state considerate attività extracurriculari e

quindi gestite da educatori-tutor presenti nel progetto in quanto la

sperimentazione lo prevedeva.

In questo problema classificatorio si nasconde un interrogativo molto

più importante: una pratica educativa che intervenga sulle condotte

personali e non si limiti a fornire conoscenze in merito a questioni

generali non contestualizzate, può realizzarsi nel contesto della

scuola così come è oggi organizzata? Le condotte sociali e personali

possono essere oggetto di un `insegnamento` specifico, intenzionale ed

esplicito oppure esse devono restare incapsulate come conoscenze

tacite ed implicite nelle diverse discipline? Il voto di condotta deve

restare di tutti e di nessuno, unica "materia" che non ha un proprio

docente o comunque una propria figura di riferimento?

E ancora più a fondo: lo sviluppo del senso morale, l`adozione di

condotte civili sono una conseguenza univoca e necessaria

dell`attività di istruzione o devono essere sviluppate con mezzi

diversi dalla mera istruzione. Il civismo è solo conoscenza

concettuale o è soprattutto competenza situata?

La prof di Palermo ha usato carta e penna nel tentativo di `educare`

un giovane che si è posto fisicamente davanti al compagno: è come

voler uccidere una tigre con l`immagine di un fucile, dare una

risposta su un piano concettuale che non può incrociarsi col piano

della realtà. Ogni cosa ha i suoi mezzi di apprendimento, gli

strumenti di pensiero si apprendono attraverso il pensiero stesso, gli

strumenti della socialità si apprendono solo attraverso la socialità

agita.

Se il provvedimento della professoressa è inefficace e sbagliato, è

l`intero impianto della scuola, fondato solo sull`istruzione senza

nessun contributo esplicito dell`educazione, ad essere inefficace.

Possibilmente faremmo meglio a porci queste domande piuttosto che

sovrapporci con medaglie o pene carcerarie al dramma della

professoressa, del bullo, dei suoi genitori, del ragazzo offeso, che

non è un dramma privato, ma quello di una intera civiltà incapace di

riscrivere il proprio rapporto con le nuove generazioni.

Cesare Moreno (di anni 60) – Coordinamento Pedagogico del Progetto

Chance – Sezione Aggiunta Sperimentale per il Recupero della

Dispersione Scolastica dell`Istituto Professionale "Davide Sannino" –

Napoli

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:D: Io ho cercato l'antefatto per capire e mi sono pure letta tutto il tuo topic,ma non ho capito :D: SORRY could you explain in few words?
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:D: Io ho cercato l'antefatto per capire e mi sono pure letta tutto il tuo topic,ma non ho capito :D: SORRY could you explain in few words?

L'antefatto è il caso della prof di Palermo che ha fatto scrivere 100 volte "sono un deficiente"al suo alunno.

Moreno,pur non condannando la prof per il suo intervento, riflette sull'adeguatezza della punizione inflitta.

E propone una sua soluzione.

Mi sembra interessante questo passo:

Mi interrogo sul concetto di punizione. Mi è molto più

chiaro il concetto di repressione, ossia quello di una azione che

impedisce la realizzazione di offese alla legge, alla persona, alla

comunità. Punizione invece ha il sapore di una sorta di espiazione,

che quindi dovrebbe portare ad una interiorizzazione delle dolorose

conseguenze dell`errore. Ma se questo è, non si tratta di una risposta

educativa ossia di un mezzo per far crescere, ma di un mezzo di

contenimento e contenzione che non attiva il soggetto ma tende ad

indurre un suo stato di obbedienza alla regola e soggezione alle

autorità che la impersonano. Ma ha mai funzionato questo? Ha mai

funzionato una legge morale gestita dal padre punitivo e vendicatore

se questa non era ospitata dentro di sé? (il cielo sopra di noi la

legge morale dentro di noi mi pare dicesse un filosofo di un certo

rilievo, peraltro molto mite.)

Quando infliggiamo al reo una punizione, una sofferenza che lo

dovrebbe aiutare a ricordare che quella azione non va fatta, in realtà

rischiamo di rafforzare l`odio per la `causa` di quella sofferenza che

è la vittima dell`azione illecita; la lettura è più o meno di questo

tipo: per colpa sua – il gay o preteso tale, il nero, il terrone, …. –

e della "congiura" che lo protegge io sono stato punito. Ciò che rende

possibile la violenza sull`altro è l`incapacità di sentire o vedere la

sofferenza dell`altro e l`essere centrati solo sulla propria

sofferenza. La punizione raggiunge quindi l`effetto opposto a quello

desiderato: rinforza l`isolamento e l`incapacità di entrare in

relazione con l`altro; rinforza l`odio ed il rancore verso il diverso

che diventa progressivamente il rappresentante del Male in assoluto.

Questo tipo di punizione è quindi collusivo, accetta il gioco del reo

e non ne scardina la logica, mentre ci illudiamo di punirlo in realtà

ci alleiamo con i suoi sentimenti regressivi e distruttivi. Il

risultato finale di un processo reiterato di questo tipo è il perfetto

fascismo, o, se vogliamo evitare riferimenti politici, la perfetta

personalità autoritaria: violenta, sessuofoba, omofoba, etnocentrica,

maschilista.

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Compreso! :icon_biggrin: Condivido il passo che hai citato.Anche se è difficile ,a volte applicare sempre questo pensiero nelle classi sovraffollate ,con scarsa o nulla compresenza e un bullismo sempre piu precoce.Questo non ci dovrebbe mai indurre a rinunciare alla nostra professionalità e al nostro target :educare.

Scusa l 'incomprensione...che io abbia problemi di comprensione del testo? :icon_mrgreen:

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Compreso! :icon_mrgreen: Condivido il passo che hai citato.Anche se è difficile ,a volte applicare sempre questo pensiero nelle classi sovraffollate ,con scarsa o nulla compresenza e un bullismo sempre piu precoce.Questo non ci dovrebbe mai indurre a rinunciare alla nostra professionalità e al nostro target :educare.

Scusa l 'incomprensione...che io abbia problemi di comprensione del testo? :icon_mrgreen:

:icon_biggrin:

stavo pensando...:proprio anche perchè le condizioni di lavoro non sono le migliori per essere sempre "pedagogicamente corretti" a noi occorrerebbe una "supervisione" come hanno gli psicoanalisti. Voglio dire che potrebbe essere utilissimo inserire delle ore (da ritagliare in qualche modo dalle 40 o dai progetti o dalle commissioni o chessò) in cui si parli in piccoli gruppi con un esperto delle difficoltà di relazione che si incontrano a scuola con gli alunni ( e tra di noi!!) in modo che non rimangano un mugugno isolato che macera dentro e induce a improvvisate soluzioni ma che divengano oggetto di riflessione e rielaborazione...

noi dovremmo "copiare" molte soluzioni organizzative che hanno gli psicoanalisti a partire dalle associazioni professionali che offrono sostegno e contenimento e formazione alla categoria, ai gruppi di ricerca e di lavoro,ai contatti con enti diversi in modo da non rimanere relegati dentro la scuola,e al sostegno che offre la supervisione.

magari è tutta roba che c'è (penso ad associazioni come il cidi) ma che si vede poco..o forse sono io che non la vedo...

bisogna rompere la solitudine in cui stiamo.

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