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Entrare in una Terapia Intensiva Ospedaliera - Dott.ssa Maristella Copia


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La sola parola Rianimazione nella rappresentazione mentale collettiva richiama l’immagine di un reparto ospedaliero dove un paziente viene ricoverato in fin di vita o comunque in situazione clinica gravissima.

Solitamente questo è parzialmente vero in quanto la Rianimazione non ha lo scopo di curare le malattie ma di mantenere l’organismo in vita mediante l’utilizzo di manovre, presidi e farmaci intesi a recuperare o spesso supplire una o più funzioni deficitarie come ad esempio complicazioni cardiocircolatorie o respiratorie importanti. Altre volte un paziente viene ricoverato in Rianimazione in seguito ad un trauma cranico da incidente stradale o dopo un intervento chirurgico che necessita di un’osservazione accurata degli esiti nelle prime 24/48 ore.

Di norma il paziente è sedato, quindi inerte ed immerso in un sonno continuo, spesso però capita, che il prolungarsi della situazione critica porta a proseguire la permanenza per lunghi periodi in condizioni vigili.

Ed è proprio quando il paziente è vigile che la Rianimazione è spesso vissuta come “una sala di tortura”: l’ambiente impersonale dove le stanze non sono separate da pareti murarie ma da vetrate che permettono al personale il monitoraggio costante della situazione anche quando ci si sta occupando di un altro paziente, l’invasività degli interventi, il rumore costante prodotto dal sibilo delle macchine che rilevano di scostamenti dai range di normalità dei parametri vitali portano a non sopportare a lungo la permanenza. C’è da sottolineare inoltre che l’illuminazione artificiale costante e l’infusione delle terapie nelle 24 ore non permettono un riposo tranquillo al paziente che non riesce ad orientarsi in maniera temporale e rivela una vera e propria “sindrome da Rianimazione” con un malessere psicologico generalizzato.

Difficile quindi per il paziente adattarsi a tale ambiente, doloroso per il familiare che si trova improvvisamente catapultato in una realtà dove può avere informazioni sullo stato di salute del proprio congiunto in un ristretto arco temporale e visitarlo quotidianamente per pochissimo tempo tra l’altro in una situazione che riaccende le paure e le fantasie di morte: il corpo traforato da cavi in entrata e tubi di uscita, intubato attraverso il cavo orale per permettere una respirazione supportata dal ventilatore artificiale oppure tracheotomizzato*, pertanto in ogni caso, non in condizione di comunicare verbalmente, attaccato a macchine di cui non si conosce la funzione ed il cui sibilo allarma anche quando segnala dati senza grossa importanza clinica.

Il familiare appare spaesato, frastornato dagli eventi, stanco delle frequenti attese dovute ai ritardi nelle visite al proprio caro a causa del sopravvenire di complicazioni in un altro degente o all’arrivo di un nuovo ricovero.

Da una ricerca effettuata (Zoppellari R., Arienti P., Cardelli R.,Turati A., 1990) sui familiari dei pazienti ricoverati in una Terapia Intensiva appare evidente la loro soddisfazione sulle informazioni cliniche ricevute, ma è evidente anche la necessità di confidarsi con figure quali lo psicologo o l’assistente sociale e/o spirituale per attenuare il disagio emotivo. Purtroppo molto rara la figura dello psicologo in Italia anche in grosse realtà ospedaliere.

Rilevante la presenza del familiare seppur sofferta; importante perché la pur breve permanenza fa sì che il paziente continui a stabilire un contatto con la realtà: le notizie di coloro che appartengono alla sua vita, la visione dei loro volti con i quali basta anche solo un’occhiata per capirsi diventa un punto fisso per coloro che trascorrono il tempo nel disorientamento totale.

Il rapporto tra il medico e parente è molto delicato perché spesso viene a lui attribuito il ruolo dello “stregone”, colui che possiede tutto lo scibile che conduce alla guarigione.

A volte, però, durante il decorso della malattia questo discorso decade e il parente stesso si accorge del peggioramento del suo caro. Il medico che fornisce le informazioni utilizza spesso un linguaggio incomprensibile per l’alto contenuto specialistico della terminologia usata e alla domanda che in molti vorrebbero fare ma che è difficile pronunciare“Al di là degli aspetti tecnici ….ce la farà a sopravvivere?”non c’è mai una risposta.

Il motivo è che su pazienti così complicati è difficile fare una prognosi precisa pertanto lo specialista si barrica dietro l’utilizzo di tecnicismi per non dare risposte a volte scomode o che facciano trapelare la limitazione della medicina che non può sempre assicurare una guarigione ma al limite un prendersi cura della persona nella sua totalità. La compassione per il nostro essere umani, l’ascolto partecipato dell’altro, la capacità di empatia diventano caratteristiche fondamentali dell’operatore sanitario.

L’operatore (medico ed infermiere) porta nel suo lavoro un carico di emozionalità tale che diventa parte integrante dello stesso, e se così non fosse si ridurrebbe solo ad un fare più o meno frenetico. Escludere l’aspetto umano produrrebbe l’effetto ultimo di essere più ingranaggi meccanici che...

http://www.psiconline.it/article.php?sid=6532

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Ho provato cosa vuol dire far visita in terapia intensiva per ben 2 volte.

Mio fratello in coma c'è rimasto per ben 2 settimane!!! So perfettamente cosa si prova e cosa si sente ad essere vicino a un letto "contornato" da macchinari, posso dire che in base alla mia esperienza il personale è gentilissimo, sempre disponibile a venire incontro ai parenti del paziente, ho sempre fatto domande e ho sempre ottenuto risposte. Questo non so se succede in tutti gli ospedali, ma in quelli che ho frequentato io mi sono sempre sentita a mio "agio".

Per quanto riguarda la figura dello psicologo condivido pienamente il fatto che ci dovrebbe essere, io non ne ho mai visti ma penso che sarebbero molto utili. Soprattutto nelle salette dove si attende il turno per poter entrare e dove tutti sono terrorizzati e angosciati.

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Io ho provato a trascorrere lunghe giornate accanto al mio piccolo in terapia intensiva neonatale, nn sapevo se sarebbe sopravvissuto e come sarebbe sopravvissuto.

La paura, l'angoscia, il terrore di toccarlo per nn fargli del male.

Ero in un periodo al quanto delicato, subito dopo il parto, mi dicono ke il bambino nn sta bene ed è in terapia intensiva, ho avuto un crollo, nn un'assistenza psicologica ke mi aiutasse a capire, le infermiere della neanatologia sono carine, premurose, ma per il resto, i medici ke ti danno le informazioni a stillicidio, ke ti dicono di stare calma sennò il latte nn arriva, come se fosse una mia colpa.

Lui, piccolo, indifeso ke urla da quella scatola di vetro ke è l'incubatrice, ke nn ti fanno entrare finkè nn arriva l'ora. Poi te lo dimettono con una prognosi ke ti dice tutto e niente, infezione celebrale.

Ora, sono passati 12 anni e il mio bimbo è un bel ragazzino sano e intelligente e quello ke ho passato all'ora è stato solo un brutto incubo.

Però, secondo me, dove ci sono le terapie intensive neonatali o nn ci dovrebbe essere un' assistenza psicologica, per sorreggere i parenti dei pazienti, e in neanatologia per sorreggere soprattutto le madri ke si vedono crollare tutto addosso.

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