La precarieta’: una Nuova Nevrosi?
Come bene evidenziato da Michael Benasayang e Gèrard Schmit nel testo “L’epoca delle passioni tristi”, sembra che in questi anni si sia passati da un “futuro-promessa” a un “futuro-minaccia”, eppure “le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle difficoltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà”. Ed è proprio questa “disattenzione istituzionale” che, a mio avviso, rende il precario ancora più vittima della sua precarieta’.
La crisi economica in cui versa il nostro Paese, per quanto terribile ciò possa apparirci, non passerà rapidamente e molto probabilmente trasformerà del tutto il nostro tessuto sociale. E allora che fare? Utile forse sarebbe uscire dal circolo vizioso della sterile lamentela, in cui facile è cadere soprattutto per le giovani generazioni, per cercare di intravedere nella precarieta’ delle possibilità.
Non è questo un invito a un ottimismo insensato e sconclusionato, ma è un appello alla riflessione.
Quando penso all’etichetta di “precario”, penso alle etichette con cui sovente i pazienti si rivolgono a noi psicologi: “depresso", "ansioso", "anoressico", "bulimico", ecc. Questi alcuni degli epiteti con cui i pazienti si presentano al clinico, nella speranza che quell’esemplificativa classificazione funga da viatico per una rapida “guarigione”. Che significa essere un “depresso”? Che significa essere “ansioso”? Non è senz’altro un’etichetta che ci aiuta a comprendere la storia di un individuo, a cogliere la sua unicità, la sua complessità, piuttosto, il suo utilizzo può essere alquanto invalidante perché rischia di appiattire il nostro sguardo non facendoci afferrare, con curiosità, la singolarità di quella persona.
Tratto da: "stateofmind.it" - Prosegui nella lettura dell'articolo
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