Una storia di vita
Dott.ssa Tamara Marchetti
Psicologa, Psicoterapeuta familiare
Avevo 12 anni, ed era una calda mattina d’agosto, quando insieme ad altre amiche ed amichetti, decidemmo di fare una passeggiata sulla spiaggia, avvertimmo le nostre famiglie che avremmo fatto ritorno allo stabilimento balneare da cui partimmo, non molto presto, avevamo intenzione di arrivare alla scogliera e li farci il bagno...
Camminammo a lungo sulla sabbia e sul bagno-asciuga, intanto ridevamo e scherzavamo, cantando canzoni che conoscevamo tutti, poi arrivammo a quella che chiamavamo: “isoletta”, dove finisce la sabbia e iniziano gli scogli, che distribuiti irregolarmente, si inoltrano nel mare formando insenature. Sapevamo che lì ad aspettarci, con la sua canna da pesca, ci sarebbe stato Serafino, arrivava puntualmente ogni anno, nel mese di agosto. Serafino aveva la voce pacata, il suo parlare era quasi una cantilena melodica scandita da pause ben punteggiate, fino ad alternare tonalità alte per scendere nel bisbiglio quando le emozioni prendevano il sopravvento. Quel giorno il suo sguardo era spento e, le rughe sotto gli occhi visibilmente accentuate rispetto all’anno precedente. Quando ci vide sorrise e disse: “eccoli i miei piccoli eroi! Vi ho visto crescere e sono fiero di rivedervi ogni anno, più grandi, più belli e soprattutto sempre uniti”. Dopo i saluti Serafino, non ci raccontò una delle sue leggende che a noi piaceva molto ascoltare e, che avevano il mare come protagonista, ormai a suo parere eravamo sufficientemente grandi per poter ascoltare altro e, quel giorno senza che se ne parlò, avevamo capito che c’era qualcosa che lo turbava e, seduti a cerchio in mezzo agli scogli, eravamo pronti ad ascoltarlo.
“In inverno è morta mia moglie – disse e, aveva sempre il tono pacato, melodico, ma la sofferenza lo imprigionava in un monologo di ostinata rabbia. Per la prima volta incontravamo Serafino, la sua personalità e non la sua fantasia di avventuriero del mare – così sono rimasto solo, in una casa molto grande. Io ho vissuto in quell’unica casa, sono nato lì, in famiglia eravamo otto, tre figli maschi, tre femmine, il babbo e la mamma. Quando i vecchi se ne andarono, rimasi da solo in quella casa di campagna e, la restaurai pian piano, fino a farla rifiorire. Quando mi sono sposato, con mia moglie, avevamo deciso di avere più figli – e lo disse accompagnando le parole ad un sorriso delicato, appena percettibile dalle sue labbra sottili e crepacciate – la casa era così grande che sarebbe stato bello riproporre una famiglia numerosa come era stato con la mia, ma noi abbiamo avuto una sola figlia, Francesca, che a 15 anni si è ammalata di una malattia inguaribile e, in un anno ci ha lasciati. Il dolore come spesso capita nelle coppie, a me e mia moglie, non ci ha allontanati, ma forse al contrario ci siamo chiusi in noi stessi. L’uno per l’altra, eravamo tutto quello che ci rimaneva nella vita, poi ora è finito anche questo.
Sapete ragazzi – ci disse con l’autenticità del vecchio saggio, – ciascuno di noi nasce ed ha già una famiglia. Io ero il quinto figlio, quindi quando sono venuto al mondo c’erano molte persone ad aspettarmi, poi, la selezione naturale della vita, sfoltisce i rami degli alberi e l’albero nel tempo resta spoglio ed infreddolito se non provvede a coprirsi entro la primavera. Se le generazioni non si riproducono come i germogli che rinverdiscono gli alberi, una famiglia pian piano si estingue e, io sto assistendo a questa scena, come un attore passivo che non può più cambiare le sorti della commedia. Intanto intorno a me scorrono immagini di un tempo, raffigurano scene del mio passato, dall’infanzia alla giovinezza, al giorno del mio felice matrimonio, il giorno che sono diventato padre … fino alla scesa del sipario”.
La nostra commozione era forte, sentivamo la profondità e la tristezza di Serafino, le sue parole esprimevano una sofferenza che riuscivamo solo ad ascoltare, ma che non potevamo condividere, perché ancora nella nostra esperienza di vita, le aree della condivisione non avevano ampliato gli argini verso situazioni di separazione e scomparsa. Serafino, ci stava esprimendo una parte di lui che non conoscevamo. Poi uno di noi disse: “Serafino, puoi considerare noi la tua famiglia! Lo dici sempre anche tu, ci hai visti crescere e poi, anche se in alcuni periodi dell’anno non ci vediamo, possiamo sempre sentirci e per le vacanze di Natale, io potrei venire a stare da te.” La nostra preoccupazione, era il problem solving, direi oggi, come via di fuga da ciò che fa star male e crea sofferenza, ma quando si diventa adulti, si rientra su un altro livello, un’altra logica, che fugge dalle scorciatoie per l’esorcizzazione del dolore. Crescendo, s’impara a stare con la sofferenza, a mantenerla viva, per prosciugarne l’essenza e, per assuefarsi agli affetti, come se servisse a cancellare l’evento. Così, spostando per la prima volta lo sguardo perso nel vuoto, verso i nostri occhi, Serafino rispose dicendo: “voi potreste essere i miei nipoti, poi, la famiglia da giovani è un concetto astratto, forse perché scontato, ma tra qualche anno, quando sarete più grandi, farete tante belle esperienze, fuori, lontano dalle vostre famiglie, ma le radici non si estirpano, perché una pianta non può vivere senza di loro. La famiglia dunque, ci accompagna per tutta la vita, attraverso i suoi insegnamenti, culture e tradizioni, che rimangono anche quando, si è soli e vecchi come me!”
Utilizzando il suo linguaggio, Serafino ci fornisce uno spaccato sull’appartenenza dell’individuo alla famiglia e, sui vissuti che si legano alle diverse fasi del ciclo di vita. Sono passati molti anni da quel giorno che ascoltai il racconto di Serafino che è la storia di un uomo che descrive i suoi stati emotivi, immaginando l’assenza di un futuro dopo averlo progettato, la cui sofferenza è travolgente, potente come un vortice e, più forte di questa potenza solo le origini. La sua vecchiaia non è serena, in quanto la mancanza di quell’unica figlia morta prima di lui, lascia spazio alla sofferenza per un’interruzione delle sue origini che sente forti. All’epoca non immaginavo che non avrei dimenticato quest’esperienza, Serafino non era uno psicoterapeuta e, neanche aveva studiato, ma aveva l’esperienza della vita e la sua storia richiama a due grandi temi: “appartenenza ” e “sofferenza”, un tema anche quest’ultimo, centrale nel lavoro con le famiglie e lo stesso Raustang, afferma che dal momento in cui siamo terapeuti, dovremmo chiederci come possiamo porci, affinchè coloro che ci portano le loro sofferenze possano, se non disfarsene almeno trasformarle al fine di trarne qualche vantaggio!