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Natura e Cultura: integrazione e disintegrazione

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I discorsi sulla non necessità di "padre" e "madre" biologici; le manipolazioni genetiche; la terra distrutta; la preparazione del viaggio su Marte... discutiamone insieme.

Dottor Leonardo Seidita

cultura seidita

"Sviluppo della personalità [...] significa 'fedeltà'
(pistis: fiduciosa lealtà) alla propria legge."
(C. G. Jung, 1934)

Cantava il Poeta:

«Non sono Gilgamesh e nemmeno Ulisse,
non dall’Oriente dove il tempo è la miniera di polvere,
né dall’Occidente dove il tempo è ferro arrugginito, 

ma dove vado e cosa farò, è come se dicessi: 
“La poesia è il mio paese e l’amore è il mio cammino”.
Così risiedo viaggiando, scolpendo la mia geografia con lo scalpello dello smarrimento; 
ed ecco che la luce non corre più nei passi dei bambini, allorché il Sole ripeta il suo volto. 
Non scenderai tu Pioggia per lavare questa volta l’utero della Terra? 
La notte, lampi, i tessuti del tempo bruciano, la verità si vela, e dal Mare giunsi alla Terra. 
Sognami e dì: “Ovunque io vada vedrò una poesia abbracciarmi”. 
Sognami, veramente, sognami e dì allora:

“In ogni poesia vedrò una dimora per me.”»

(Nabil Salameh)

Eppure la clinica del sociale, in merito alle questioni relative ai flussi migratori, ha mostrato negli ultimi anni come ogni viaggio migrante in terra straniera è anzitutto un viaggio “disidentitario”.

In viaggio dalle coste nordafricane all'isola di Lampedusa o dalla Sicilia, ci si è già smarriti, dissolti, slegati, dispersi, nel fetore urico e salmastro d'un sonno incappucciato e gelido; in quei barconi vissuti e narrati, dove il corpo dell'altro diviene appiglio per inerzia, per non crollare il corpo e la testa in avanti o per recare agli occhi un punto focale neutro d'osservazione che non sia quello del vicino; quegli gli occhi che inesorabilmente si fanno “bianchi” e perdono l'immagine e la memoria. 

Quegli occhi li ho scorti, li ho accolti e li ho ascoltati da clinico, così come si ascolta una parola mai ascoltata prima, come si legge uno scritto antico ed oscuro per idioma e senso. Tali considerazioni, che scaturiscono dall’empiria dell’esperienza e che non vogliono in alcun modo rappresentare esaustive e generalizzabili letture dell’esperienza migrante e delle dinamiche connesse al complesso tema del rapporto tra natura, cultura ed immigrazione, sono frutto di un intenso lavoro che concerne gli anni che vanno dal 2011 al 2016. Erano gli anni della cosiddetta ‘emergenza Nord Africa’ (con connotazioni e caratteristiche differenti dagli attuali flussi migratori) che hanno visto un numero considerevole di Minori stranieri non accompagnati giungere in Italia per mare, soprattutto dal porto di Zarzis in Tunisia, ma anche dall’Egitto e, per altre vie, da paesi magrebini o asiatici come il Bangladesh.

Il lavoro clinico di cui parlo è stato svolto prevalentemente presso Comunità alloggio per minori (ospitanti minori italiani e stranieri, prima ancora che venissero istituiti i Centri di accoglienza di secondo livello esclusivi per minori stranieri) collocate nel territorio palermitano, o all’interno di Progetti promossi dal Ministero dell’Interno o dalla Comunità europea, finalizzati all’accoglienza e all’integrazione (reale) dei Minori stranieri non accompagnati. Palermo è territorio che condensa miriadi di Genius loci e si fa Anima esperta, per l'identità storico-culturale e per le occorse condizioni sociali, per via dei flussi migratori, dei processi di integrazione. I mercati del Ballarò gridano le voci dei popoli.

Dalle storie narrate emergerebbe come, sin dagli ultimi giorni antecedenti la partenza, ogni azione, ogni gesto, ogni saluto sfuggente e muto, ogni sguardo lucido a quei luoghi che furono familiari, ogni atto automatico prodotto, è un lento ed inesorabile “orizzonte sul Sé”. I giorni che anticipano la partenza sono connotati spesso da un graduale allentamento dei legami e del sentimento dell’appartenenza.

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È un po’ come prepararsi al sonno, un sonno lungo tanto quanto lunga sarà la traversata sul Mediterraneo. Quel mare onnivoro e messianico d'una stessa folle e insensata intensità, che rivivevo sempre sulla "pelle storia" d'un minore straniero non accompagnato. Un sonno depersonalizzante e de-realizzante che allontana l’individuo dal suo centro e da quei nuclei affettivi interni che costituiscono l’identità personale. Natura senza cultura, il Pleroma senza la Creatura, un ritorno ad un indifferenziato che ha perduto internamente la Voce del Genio dei propri luoghi, in chi si appresta inesorabilmente ad un Nuovo, che è allo stesso tempo ignoto e terrifico.

Tale infermità, da “pelle psichica” scuoiata e viva ‘a sangue’, è l’oggetto prioritario di qualsiasi primo intervento clinico sul minore in arrivo sulle coste italiane. Si staglia nella mente immaginale del clinico un magma, una mistura tra paura e disincanto, tra la diffidenza del cerbiatto sulle prime gambe ed il bianco d’un foglio mai scritto.

Suggestioni fenomenologiche che aprono seri ed attuali interrogativi sui processi psichici individuali, gruppali e comunitari, nonché sulle rilevanze ‘polisanalitiche’, in merito all’immigrazione, all’accoglienza e all’integrazione, e le inevitabili implicazioni circa il rapporto tra Natura e Cultura, fondante ogni sviluppo dell’identità personale e sociale. È un rapporto ibridato anzitutto tra la propria natura, la propria cultura di appartenenza e la nuova cultura che si predispone ad accogliere ed includere presso nuovi territori, non solo fisici ma anzi tutto psichici.

Suggestioni da cui scaturiscono interrogativi ancora validi, poiché non sempre sono seguite risposte esaustive. Come risanare quel processo disidentitario a cui sono sottoposti i minori stranieri non accompagnati? Quale valore dare al loro sentimento dell’appartenenza verso culture fortemente differenti dalle nostre? Ovvero cosa significa psichicamente “inclusione”? Rinuncia al proprio sistema di significanti primari per la smania di un eventuale processo di “occidentalizzazione”? Ovvero ricostruzione delle proprie radici in terra straniera ove sostanzialmente diverse sono le radici ancestrali fondanti la risposta ai quesiti “Chi sono? Da vengo? A chi appartengo? Verso dove vado?”. Quali gli esiti possibili dall’incontro tra nature e culture differenti? Quali isomorfismi tra culture apparentemente così distanti e differenti?

A tal proposito scriveva già Jung (1917/1931) in "Anima e terra". La tesi fondamentale di Jung è che la terra, quella terra, quel luogo particolare, finisce col forgiare il carattere, l'indole, persino le fattezze dell'individuo che la abita o sceglie di abitarvi provenendo da altrove. Il luogo in cui si è vissuto a lungo, ha un valore fondamentale per la psiche dell'individuo e una forza che lo accompagna, anche inconsciamente, per il resto dell'esistenza. Scriveva in riferimento al popolo americano, esempio di commistioni tra natura, cultura e terra tra gli europei conquistatori e gli autoctoni:

"L'americano ci offre quindi uno strano quadro: un europeo con maniere di africano e con anima di indiano. Divide la sorte di tutti gli usurpatori di terre straniere: certi primitivi australiani ritengono che non ci si possa appropriare del suolo altrui, perché qui abitano gli spiriti degli antenati dello straniero, e questi spiriti potrebbero incarnarsi nei figli dell'invasore nati nel paese conquistato.

C'è qui una grande verità psicologica. La terra straniera assimila i conquistatori. Diversamente dai conquistatori latini dell'America centrale e meridionale, i nordamericani hanno mantenuto con rigorosissimo puritanesimo il livello europeo, ma non hanno potuto impedire che le anime dei loro nemici indiani divenissero le loro anime. La terra vergine ha dappertutto la proprietà di far scendere almeno l'inconscio del conquistatore al livello dell'abitante autoctono. Così nell’americano esiste una distanza fra coscienza e inconscio quale non si riscontra nell'europeo, una tensione tra un alto livello culturale cosciente e un'immediata primitività inconscia.

Ma questa tensione è un potenziale psichico che conferisce all'americano uno spirito di intraprendenza non ostacolato da nulla, e un entusiasmo veramente invidiabile, ignoto a noi europei. Appunto perché siamo ancora in possesso degli spiriti dei nostri antenati, cioè perché tutto in noi è storicamente condizionato, noi siamo bensì in contatto col nostro inconscio, ma siamo prigionieri proprio di questo contatto e talmente impigliati nella nostra condizionatezza storica, che occorrono gravissime catastrofi perché ci decidiamo, per esempio, a non comportarci più in politica come cinquecento anni fa. Il contatto con l'inconscio ci avvince alla nostra terra e ci rende duri da smuovere, il che certamente non è un vantaggio nei riguardi della capacità di progredire e di ogni altra forma di desiderabile mobilità. Ma non vorrei dir troppo male del nostro rapporto con la buona Madre Terra. Plurimi pertransibunt, ma chi rimane attaccato alla sua terra ha durata. Esser lontani dall'inconscio e quindi dalla condizionatezza storica significa mancare di radici. Questo è il pericolo che minaccia il conquistatore di un suolo straniero; ma è anche un pericolo per il singolo se, identificandosi unilateralmente con qualche "-ismo", perde il nesso con l'oscuro fondo originario materno della terra da cui è cresciuto."

I luoghi virtuali per antonomasia, dove tali fenomenologie si sono rese tangibili, in cui la cultura di appartenenza si ibrida e si contamina per analogie e differenze, sono stati per me le esperienze di conduzione di gruppi gruppoanalitici e di psicodramma analitico junghiano presso una Comunità alloggio per Minori che accoglieva adolescenti palermitani e minori stranieri non accompagnati, provenienti dalla Tunisia, Egitto e Bangladesh, all'interno di una villa confiscata alla mafia.

Pensare ed istituire gruppi multietnici e multi-identitari, è stato per me ed i colleghi una grande sfida. Il luogo che ospita i Minori, possedeva già significati che rimandano all'organizzazione mafiosa, ai crimini, alla cultura del silenzio omertoso (in stato originario molte stanze della villa erano rese insonorizzate e nell'architettura si districava la funzione della famiglia mafiosa che la abitava: pontile privato al mare da dove arrivavano le barche piene di "merce", stanze private per innumerevoli ospiti, giardini fitti che garantivano l'inaccessibilità dello sguardo estraneo, e così via) nonché al riscatto sociale, lo sviluppo, la sostenibilità, la conferma della possibilità del cambiamento: da luogo del crimine a luogo dell'accoglienza e della cura.

Tali significati risuonavano forte nei gruppi già dalla loro fondazione, e si connettevano intersecandosi con i significati portati dai ragazzi italiani provenienti da culture mafiose e con i significati portati dai Minori stranieri non accompagnati con la loro cultura araba e musulmana.

Con grande mia meraviglia, i temi in gruppo si addensavano sempre attorno ad alcuni motivi ricorrenti ed avevano a che fare col senso del silenzio relazionale (omertoso per i palermitani, di rispetto per l'altro nel bengalese, necessario e modale nella cultura tunisina), il senso del "dono" (sacrificale e riconoscente nella cultura bengalese, vincolante e fondante patti affiliativi nei ragazzi palermitani e tunisini) ed infine la visione prospettica, trasformativa e progettuale (il "nulla può cambiare" della cultura mafiosa si confondeva col "el maktoob" [“tutto è scritto”] della religione musulmana, aprendo baratri sull'inesorabilità di sviluppo personale e sui processi di deresponsabilizazione del siciliano che vive all'Ombra della Grande Madre). Con grande mia meraviglia, i livelli di differenziazione delle relative appartenenze si assestavano attorno a determinanti comuni; queste permettevano da un lato di riconoscersi nell’Altro da sé, anche se straniero, dall’altro di creare una matrice gruppale che aveva il gusto di “nuova comunità”, in cui ci si poteva incontrare, vivere sentimenti di reciprocità, esperirsi vicini pur nella distanza delle lingue, delle tradizioni e delle radici. Erano determinanti che riconnettevano il seme al proprio albero, nel paradosso di una Babele d’appartenenze.

Durante una sessione di Psicodramma analitico junghiano, a cui arrivai con una certa disillusa preoccupazione, per l'empasse che il gruppo stava attraversando e per le elevate quote caotiche dei processi osservabili nella matrice gruppale, un diciassettenne tunisino, ospite in comunità sin dalla ristrutturazione del bene confiscato e l'avvio delle attività, donò al gruppo un sogno, che rivestì proprio per quel gruppo la funzione di Genius loci.

Mentre gli altri ospiti della struttura, erano intenti ad accavallarsi negli interventi, il clima del gruppo altalenava tra aggressiva contenzione degli spazi, nel bisogno di chiarire in gruppo dinamiche e accadimenti del quotidiano vivere in comunità, a timidi o agiti tentativi di fuga emotiva dal setting gruppale e dai processi comunicativi di condivisione dell'esperienza.

“Pece" - così lo chiamavano i pari, per via del colore della pelle- osservava in silenzio l'avvio convulso e caotico del gruppo, quando poi inaspettatamente esordì dicendo: "Io 'sta notte ho fatto un sogno e ve lo voglio dire! Così capite finalmente la mia natura!!!". Tra risolini, schiamazzi a picchi e disordine motorio, quelle parole condensarono l'attenzione del gruppo. "Eravamo tutti noi nel barcone partito da Zarzis la notte. C'era chi vomitava a destra e a sinistra, chi beveva "bira", chi fumava un "sigàru" a bordo della barca. Io avevo paura di morire e guardavo "al qamar" (la luna) e mi coprivo la testa perché la luna piena fa impazzire le persone. L'uomo che guidava la barca ci disse che il motore si era rotto e noi dovevamo nuotare ché la barca stava affondando. Ci siamo tuffati nel mare e tutti dispersi nelle onde forti, chi sottoacqua, chi attaccato al legno, chi chiedeva aiuto e gridava. Poi ho preso una corda nell'acqua e tirando tutti erano attaccati a questa corda come un cerchio ed eravamo salvi, e anche se l'acqua del mare era fredda e c'erano pescecani noi eravamo insieme, come qui in Comunità."

Il gruppo in silenzio ascoltò. Poi invitai "Pece" a rappresentare quel sogno attraverso la tecnica dello psicodramma analitico junghiano. Quel sogno, oltre ad avere le ovvie connotazioni dell'inconscio personale del sognatore, era riuscito attraverso le sue potenti immagini evocative a raccontare la matrice attuale del gruppo, che fu da allora potenziata nelle sue maglie e nei suoi significati relazionali. Da quella narrazione e rappresentazione psicodrammatica del Genius loci di quel gruppo, esso ne trasse l'evoluzione e l'uscita dall'empasse caotica in cui si trovava, e gli incontri successivi "sentirono" ancora l'eco di quel potente messaggio trasformativo.

Ed ecco che la nuova cultura di cui è portatore lo straniero riesce, in questo caso attraverso il tema del viaggio, a generare evoluzione e trasformazione all’interno della matrice culturale satura dell’autoctono. Integrazioni possibili.

Ma anche disintegrazioni possibili, quando le nuove identità si forgiano su quel Nuovo, negando non solo la propria natura, ma anche quel sentimento di appartenenze alle proprie origini. Ed in Ombra il pensiero di chi scrive va a lui, a “Le Lion”, così lo chiamerò. Poiché non tutte le storie sono a lieto evento. E la perdita inesorabile delle proprie appartenenze lo mostra con dolore.

"Le Lion" è un ragazzo senegalese, in Italia da parecchi anni. Ha lasciato il suo paese per sfuggire alla morte, quella che ha preso suo padre e parte della sua famiglia. "Le Lion" è cresciuto, ha ottenuto una protezione sussidiaria, ha studiato, si è fatto amare e rispettare, si è lasciato accogliere ed integrare, sino a diventare punto di riferimento all'interno di un Centro di accoglienza di secondo livello, per il gruppo degli ospiti richiedenti asilo e protezione internazionale, che per l'équipe e l'ente gestore.

Un punto fermo, un pilastro, fedele, disponibile e partecipe nella gestione e risoluzione di conflitti interni, un mediatore culturale vero. "Le Lion" è stato assunto, ha fatto il salto, ha assunto il suo ruolo e l'ha portato avanti con dignità, impegno e dedizione. "Le Lion" disintegrato, ha lentamente costruito una nuova identità, fondata sul riconoscimento di ruolo e funzione, sul riconoscimento soprattutto di valori etici e morali, di senso di responsabilità e grande passione per l'Altro bisognoso di aiuto. "Le Lion" ha lo sguardo di una belva fiera e giusta, da solo sa condurre un intero gruppo di immigrati, placare anime e crisi esplosive, mediare e significare ogni esperienza di percorso. Ha costruito una fragile identità su ciò che gli è stato riconosciuto, a tratti usato, a tratti utilizzato, a tratti ricollocato a ciò che egli è veramente: un migrante.

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"Le Lion" è musulmano, vive la sua religione e la segue. Ma trema e tentenna nel nuovo mondo, sente la necessità di poterne far parte pienamente, anche a rischio di disconoscere se stesso e ciò che egli è: la sua cultura, le sue appartenenze, i suoi rituali, la sua religione, la sua famiglia perduta. Trema e tentenna tanto da avere un dubbio di conversione al cristianesimo: un ulteriore riconoscimento “identitario”, per lui! Inizia a chiedere di poter leggere i Vangeli. È curioso, ha amici italiani, vive una vita italiana. Lavora, si allena in palestra, vive una nuova vita senza la sua appartenenza. "Le Lion" cederà: un delirio mistico che ha per tema San Giorgio ed il Drago. Prenderà il suo zainetto e si recherà in città a bloccare la processione del Santo. Andrà dal sindaco, dai preti, ovunque a testimoniare il suo delirio emergente.

Verrà bloccato, braccato e individuato come possibile minaccia per sé e per la comunità in cui vive. Griderà di profezie, fine del mondo e conversioni... "Le Lion" si è smarrito, ha smarrito se stesso e la sua identità in un TSO con conseguente ricovero in psichiatria. "Le Lion" non comprende i nostri sistemi di cura, non comprende cosa possa arrecare un farmaco psichiatrico ai processi di guarigione. “Le Lion" è impazzito, è stato legato ad un letto e curato con forza. "Le Lion" ha smarrito se stesso, o forse non si è mai individuato in Italia. La guarigione del suo lento percorso disidentitario è stata complessa, come complesso è per lui poter nuovamente appartenere.

 


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Tags: natura integrazione disintegrazione

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