Comportamento suicida e sistema immunitario
Il ruolo del sistema immunitario è quello di rispondere e combattere agenti patogeni come le infezioni, e alcune infezioni del cervello sembrano essere associate ad un aumento dei comportamenti suicidari.
All’interno della medicina, il sistema immunitario è rappresentato da un insieme di organi, tessuti e cellule, distribuiti in tutto il corpo e in comunicazione tra loro, in grado di intervenire in difesa di un organismo in presenza di infezioni prodotte da virus, batteri, parassiti e molecole da loro prodotte, i cosiddetti antigeni.
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Le cellule deputate alla difesa immunitaria prendono il nome di linfociti, e a questi si aggiungono gli APC, ossia l’antigen presenting cell, dette anche macrofagi.
Dopo questa breve premessa teorica, si andrà ora ad analizzare il ruolo che il sistema immunitario svolge rispetto al comportamento suicida.
Il suicidio è il risultato devastante di interazioni complesse che coinvolgono diversi fattori contemporaneamente.
Gli individui che avvertono costantemente un senso di afflizione tendono ad esperire un dolore psicologico che a lungo andare diviene intollerabile, e il pensare alla morte sembra divenire l’unica opzione per sfuggire a tale dolore.
I cambiamenti biologici specifici nel cervello che producono questi sentimenti travolgenti non sono ad oggi del tutto chiari.
Le ricerche attuali stanno cercando di indagare il ruolo che il sistema immunitario possa svolgere all’interno di tali situazioni specifiche.
La depressione clinica è il disturbo psichiatrico più comunemente associato con il suicidio; è probabile che le aree del cervello, funzionando in maniera anomala durante la depressione, possano predisporre una persona ad avere pensieri suicidi.
Alcuni tratti di personalità, come ad esempio l’impulsività, possono anche aumentare il rischio di suicidio; questo potrebbe risultare particolarmente vero soprattutto nei soggetti più giovani.
In aggiunta a questo, anche le avversità sociali e ambientali possono contribuire all’ideazione suicidaria, nonché ai tentativi reali di suicidio.
Recentemente, la Dottoressa Lena Brundin e il suo team, hanno pubblicato sulla rivista “Neuropsychopharmacology” un articolo intitolato “Role of Inflammation in Suicide: From Mechanism to Treatment” (Il ruolo dell’infiammazione nel suicidio: dal meccanismo al trattamento), all’interno del quale viene sottolineato come il sistema immunitario sia significativamente coinvolto nel funzionamento cerebrale.
La Brundin e i suoi collaboratori attraverso una revisione di diversi articoli, hanno sottolineato come i meccanismi coinvolti nei processi immunitari possano contribuire al suicidio.
La presente evidenza appare ovviamente multideterminata. Per esempio, alcuni tipi di farmaci utilizzati per il trattamento delle neoplasie, migliorando le risposte immunitarie aumentano però il rischio di depressione e i pensieri suicidari.
La malattie autoimmuni specifiche che attaccano il cervello sono inoltre associate ad un aumento dei comportamenti suicidari; esempi di tali disturbi sono la sclerosi multipla e il lupus.
Per un chiarezza espositiva, il lupus, o meglio conosciuto come Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia autoimmune, in cui il sistema immunitario viene attivato in modo incontrollato e determina un’infiammazione dei tessuti sani, che può interessare diversi organi e apparati.
Il ruolo del sistema immunitario è quello di rispondere e combattere agenti patogeni come le infezioni, e alcune infezioni del cervello sembrano essere associate ad un aumento dei comportamenti suicidari.
I disturbi cerebrali dovuti a dei traumi sono anche associati con le risposte infiammatorie nel cervello che, a loro volta, possono determinare cambiamenti comportamentali, tra cui l’instaurarsi di pensieri suicidari.
Gli investigatori hanno scoperto che specifiche componenti chimiche immuno-correlate che mediano le risposte cerebrali infiammatorie sono elevate nelle persone che adottano comportamenti suicidari.
Allo stesso modo, si è osservato che i livelli di queste sostanze chimiche sembrano essere aumentate nel cervello di persone che sono morte a causa del suicidio.
Da un punto di vista farmacologico, esistono dei farmaci che possono diminuire il pensiero suicidario. Per esempio, il litio, usato per il trattamento del disturbo bipolare, diminuisce il rischio di suicidio.
Una delle azioni biochimiche del litio è quello di diminuire i livelli delle sostanze chimiche immuno-correlate.
Un farmaco molto diverso, la ketamina, è stata recentemente presentata per aver dimostrato di ridurre rapidamente i sintomi depressivi e i pensieri suicidi.
La ketamina produce diversi effetti; uno di questi è la capacità di bloccare alcune delle sostanze chimiche coinvolte nella risposta immunitaria.
Brundin e colleghi hanno quindi presentato argomenti convincenti a sostegno del fatto che i meccanismi immuno-correlati possono influenzare i comportamenti suicidari, soprattutto nel caso di un incremento del pensiero depressivo.
La stimolazione della produzione di sostanze chimiche pro-infiammatorie nel cervello è associata ad un aumento dei sintomi depressivi, in particolare un aumento dei cosiddetti “comportamenti di malattia”, come la disforia, alterazioni del ciclo sonno-veglia, alterazioni dell’appetito, fatica, nonché i pensieri suicidi.
Un decremento dei livelli delle sostanze chimiche immunitarie nel cervello possono quindi essere associate con una diminuzione del pensiero depressivo e soprattutto del pensiero suicida.
Gli autori si sono quindi chiesti se i farmaci che bloccano l’azione di alcune sostanze chimiche immuno-correlate possano avere anche proprietà anti-suicidio e anti-depressive.
Tali farmaci sono attualmente studiati, ma i risultati prodotti, per quanto incoraggianti, sono ancora ad uno stadio preliminare.
Il comportamento suicidario è un fenomeno complesso che certamente non può essere ridotto o ricondotto esclusivamente a delle spiegazioni biochimiche.
Allo stesso tempo, dovrebbe risultare interessante constatare come alcuni percorsi chimici nel cervello siano coinvolti in questo comportamento complesso.
I farmaci che interagiscono con questi percorsi possono avere la capacità di ridurre tali comportamenti e determinare anche una maggiore possibilità di partecipare più attivamente alla terapia.
Pertanto, una strategia di trattamento integrata potrebbe rivelarsi un potenziale per salvare delle vite umane.
Tratto da PsychologyToday
(Traduzione e adattamento a cura della Dottoressa Giorgia Lauro)
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