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Medea1989

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  1. Infatti è proprio così, lui nega con forza di avere un rapporto non sano con la madre, anzi ritiene giusto che le cose stiano così perchè per lui che la madre si occupi di ogni suo bisogno materiale è dimostrazione di affetto. Quello che mi chiedo spesso è se ciò sia dovuto al rapporto in sé tra madre e figlio maschio primogenito. Una volta abbiamo parlato di educazione dei bambini e quando ho affermato che per me è importante che il bambino apprenda da subito a essere autonomo secondo le sue capacità e che sia responsabilizzato almeno un po', lui mi ha guardata male dicendomi che sono troppo dura. Se insegnare al bambino ad avere cura delle proprie cose, a vestirsi da solo o fare altro in autonomia significa non avere amore materno, non saprei proprio. Di sicuro seguirò il tuo consiglio di dargli una scrollata: cominciando dal non essere più disposta ad assecondarlo nel suo attaccamento familiare. Vedremo come reagirà.
  2. Medea1989

    Disperato

    Grazie per la risposta! Da giorni, infatti, penso a come possa intervenire per mostrare il mio malessere nei confronti del mammismo. Temo di ferire i suoi sentimenti, di apparire egoista, anche perchè giuro che a volte mi viene il dubbio se sia io a pensarla in maniera troppo progressista o se veramente lui sia invischiato in un rapporto patologico. Il confronto con una realtà opposta alla propria è sempre problematico, soprattutto se ognuno è convinto di essere nel giusto. So che non posso pretendere di cambiarlo (il pericolo della sindrome da "io ti salverò" è sempre dietro l'angolo), quindi forse la soluzione è concentrarsi non su di lui ma su di me e sulle adeguate distanze che devo prendere da certe situazioni.
  3. Ciao, ho letto il tuo messaggio, un po' mi ritrovo in alcune cose che hai riportato. Avere alle spalle esperienze lavorative diverse, scarsamente attrattive, accomuna - credo- tante persone della nostra generazione (ho 26 anni), e questo potrebbe essere un motivo di insofferenza e insicurezza personale suscitata dal confronto con chi ha avuto invece la possibilità-fortuna di realizzarsi subito. Io ho investito, fin dal diploma, la mia vita in un percorso di formazione universitaria che mi permettesse di dedicarmi all'insegnamento e questo, nel periodo storico in cui viviamo, è socialmente difficile da far capire perchè se non fai soldi non sei nessuno. Tutte le persone a cui mi è capitato di dire che voglio diventare un'insegnante mi hanno sempre guardata con una faccia di compassione o di perplessità. Suppongo sarebbe stato diverso se avessi detto di voler fare la delinquente. Ho sempre studiato e lavorato nello stesso tempo, buttandomi anch'io in esperienze diverse, alcune delle quali continuo. Quelle che ho intrapreso per necessità, si sono sempre concluse in modo fallimentare perchè ho sperimentato tangibilmente che un lavoro condotto senza alcuna motivazione o gratificazione morale ti fa sentire peggio che in trappola. Almeno per me la necessità di lasciare e passare ad altro non è stata dettata dalla spinta alla competizione o dall'autocritica, ma è sempre nata dal bisogno di sentirmi libera di fare ciò che a me piace veramente. Ho trovato sempre grande soddisfazione nel fare volontariato con i bambini o nel lavorare saltuariamente presso centri educativi (con scarsa remunerazione economica) e, nonostante ciò, le persone a me vicino hanno sempre giudicato le mie scelte come segno di debolezza e quasi di stupidità ("come? Sprechi il tuo tempo ad aiutare gli altri senza prendere un vero stipendio?). I miei stessi genitori o il mio ragazzo disapprovano quando a volte mi trattengo con i bambini oltre l'orario stabilito perchè non me la sento di lasciarli da soli ad aspettare che vengano a prenderli: non riescono a capire che un'educatrice non ha a che fare con un lavoro d'ufficio, per cui all'ora x chiude la baracca e se ne torna a casa. Il concetto che ci sia una responsabilità morale (oltre che penale se succede qualcosa a un minore in assenza di supervisione) che va oltre ogni possibile guadagno economico non viene contemplato. Personalmente, di competere con il resto della società alla gara del successo e del riconoscimento lavorativo non me ne frega nulla. So qual è la dimensione della mia soddisfazione e ritengo di non dover dimostrare nulla agli altri se alla fine del mese guadagno molto o poco. Ho fiducia che non mi mancherà l'opportunità di lavorare a tempo pieno nel campo che mi fa sentire felice. Non è molto meglio seguire le proprie passioni invece che raggiungere a tutti i costi e con tutti i mezzi un sucesso finto che è il buon costume della società a imporre? Quanti sono i medici, avvocati, notai che vantano la propria posizione sociale come un diritto di famiglia? Quanti di essi praticano la propria professione con il cuore? Per come la penso io, non dovresti aver timore di riflettere bene su ciò che desideri fare, anche se poi la tua scelta si rivelasse non definitiva: non dovresti dimostrare potenza e successo a nessuno.
  4. Medea1989

    Disperato

    Ho letto l'intera discussione da nuova utente del forum. Mi sento di dire la mia in quanto vivo problemi di "coppia a tre" (io-lui-la madre di lui), che in confronto quelli esposti dal primo utente sono scaramucce. Approvo la risposta di Tisan, forse l'unica ponderata: mi sembra poi di capire che qui si tratti proprio di una questione di diversità culturale, per cui certe prassi di comportamento non potranno mai essere capite da chi non ne condivide i presupposti. Se si viene da un paese in cui si è abituati a vedere i figli fare la propria vita e andare via di casa a 18 anni, senza sentire il bisogno di vegliare su di loro, di far parte delle loro scelte, giuste o sbagliate che siano, come si possono capire le dinamiche di un rapporto genitoriale in cui un genitore vuol far parte della vita di un figlio fatto e cresciuto? Non penso sia possibile se non con uno sforzo di tolleranza grande. Io sono del sud Italia e nonostante ciò a 14 anni già sognavo di essere indipendente dai miei genitori, pur amandoli e rispettandoli. Oggi che ho, o dovrei avere un compagno, fatico tanto a non urlare di rabbia quando la donna che dovrebbe essere la mia futura suocera mi dice come dovrò cucinare per il suo amato figliolo. Devo trattenermi dal mollare 4 schiaffi quando il mio compagno mi dice che organizza una cena per noi e poi mi ritrovo a casa sua a cenare con lui e sua madre. Non è solo la provenienza geografica a renderci diversi ma il retroterra culturale, i parametri morali e la ragione personale.
  5. Salve a tutti, spero di riuscire a rendere chiaro il mio dilemma per ricevere confronto. Ho 26 anni e sono fidanzata da circa 4 anni con un ragazzo della mia età. Il rapporto non è nato subito, ma ha avuto una fase iniziale di corteggiamento (da parte mia). Quando, dopo un po' di tempo, la frequentazione è diventa assidua e, per così dire, si è ufficializzata, la visione che avevo di lui era di una idealizzazione rosea e perfetta: non potevo chiedere di più alla vita, lui mi amava, io lo amavo e tutto mi sembrava idilliaco. Lui mi ha poi presentato alla sua famiglia: da quel momento per me le cose sono letteralmente "involute". La nostra relazione si è allargata a un rapporto a tre con la madre. A me sembra che lui abbia con sua madre un rapporto patologico perchè dipende materialmente da lei in tutte le faccende di casa e di cura personale e lei è totalmente appagata del suo ruolo di tuttofare per il figlio. Per sua ammissione, la madre ama fare tutto al posto del figlio perchè "le piace comandare", così la sua figura è sempre onnipresente, anche nei discorsi di lui, che dice di aver bisogno di questo attaccamento familiare perchè gli è mancato negli anni di studente fuori sede. La situazione non mi darebbe fastidio se si esaurisse nelle mura domestiche di casa sua, ma purtroppo l'attaccamento per me eccessivo a sua madre si ripercuote nella relazione di coppia: lui vuole che io accetti di stare sempre a casa sua, sere incluse, vuole che io dorma a casa sua, che vada in vacanza con lui e i suoi perchè così può avere tutto il "pacchetto": madre, padre, fratelli e ragazza attorno a lui. Mi sembra di non essere la sua donna ma un'appendice della sua famiglia con cui, occasionalmente, quando lui ha voglia, può fare sesso ed essere coccolato. La madre, per conto suo, dice di considerarmi una figlia, ma dagli unici discorsi che fa con me ho il sospetto che mi ritenga solo un apparato riproduttivo ambulante in grado di darle dei nipoti. Lui mi dice che desidera una vita con me, che vuole sposarmi e avere figli, ma mi chiedo come possa essere un nostro futuro con queste premesse. Non so come affrontare la situazione e fargli capire che sta esagerando; ogni volta che tocco l'argomento lui nega di essere mammone perchè pensa che tutto questo sia normale.
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