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Articolo 25 - il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentato

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Prosegue su Psiconline.it, con il commento all'art.25 (uso degli strumenti di diagnosi e di valutazione), il lavoro a cura di Catello Parmentola e di Elena Leardini che settimana dopo settimana spiega ed approfondisce gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani

Articolo 25 il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentatoArticolo 25

Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone.

Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio.

Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti.

Tutti gli articoli di questo Capo – Rapporti con l’utenza e la committenza contestualizzano e specificano gli argomenti degli articoli, già commentati, del Capo – Principi generali.

Andrebbero, quindi, riprese anche considerazioni già svolte ma vorremmo evitare ridondanze ed essere quanto più essenziali.

Ci limiteremo a sollecitare particolare attenzione verso questo articolo che, contrariamente ad altri che nei diversi commi non fanno altro che meglio declinare un unico richiamo, contiene tre richiami diversi, connessi se vogliamo, ma ognuno dotato di una propria specifica portata.

Il primo: lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Per il (semplice?) motivo che tali strumenti sono in dotazione per scopi di cura, per il benessere psicologico di ogni individuo. E potenzialmente tanto efficaci, quanto manipolabili.

Fuori da un contesto di Cura, nel senso anche più lato del termine, diventa complicato vigilarne il buon utilizzo

Fuori da tale contesto, la dotazione professionale può essere utilizzata come arma impropria e finisce, quando non produce danni peggiori, per svalutarsi.

Nelle relazioni private, lo psicologo potrebbe, per transazioni di potere, condizionamenti, svalutazioni dell’Altro, maneggiare la diagnosi come strumento d’offesa, facendosi forte della riconosciuta qualificazione formale.

Nella dimensione pubblica, ancora, potrebbe farlo per svalutare un avversario politico, leggendo in chiave clinica le sue opinioni ecc.

Abbiamo visto di recente addirittura asservire il proprio sapere tecnico professionale alla promozione di una parte politica, in una prosaica logica di comizio su un palco.  

In questi, come in altri casi, si configura un modo di perdita della preziosità degli strumenti psicologici e una drastica riduzione dell’immagine e del decoro della professione.

Una professione che dovrebbe promuovere benessere e curare le mischie improprie e generative di conflitto e disagio, non farsi coinvolgere e alimentarle.

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Ma il punto più grave, dal punto di vista etico, è il punto di slealtà: non è giusto convocare, nelle nostre transazioni di vita d’ogni giorno, strumenti che noi possediamo e l’altro no. Non è un confronto alla pari: l’altro è nel merito della comunicazione, noi ci facciamo forti del possesso di un altro livello cognitivo e ci sottraiamo al merito, spostandoci sul soggetto e instaurando una meta comunicazione, che contiene e domina i livelli precedenti e ‘palesi’ dello scambio.

L’altro potrebbe difendersi nel merito, disponendo di argomenti e strumenti dialettici come noi: ma come potrebbe difendersi da una diagnosi?

Quanto diverrebbero innaturali ed insane, una vita e delle relazioni che non si svolgono più nella dirittezza del loro svolgimento ma nella circospezione del loro livello interpretativo?

Innumerevoli diventerebbero le occasioni equivoche e disfunzionali.

Nel privato, laddove così come un professore non è il professore della moglie, ma il marito e un giudice non è il giudice dei figli, ma il padre, allo stesso modo lo psicologo a casa è padre e marito, auspicabilmente dotato di una certa propensione al dato psicologico, ma mai l’etichettatore diagnostico: sono altre le ‘ragioni sociali’ delle relazioni interpersonali.

Ma altresì nel pubblico, allorquando l’insegnante psicologo ritiene di poter trarre da colloqui didattici dati clinici, o struttura adeguatamente un setting per un colloquio clinico, ma non chiede il consenso in quanto già forte di un affidamento altrui in quanto, appunto, insegnante; o il datore di lavoro psicologo azzarda giudizi di personalità approfittando di un’occasione di confronto con il dipendente come se fosse un’osservazione partecipante.

L’art. 25 C.D. difende gli strumenti di diagnosi e di valutazione da qualsiasi uso non autenticamente orientato in una visione deontologica: sia quando il loro utilizzo seppur corretto, persegue fini impropri, sia quando lo psicologo, pur perseguendo in buona fede un fine anche meritevole, agisce i propri strumenti senza rispettandone la correttezza metodologica. 

Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio.

La ricorrenza di una relazione triadica psicologo/destinatario della prestazione/ committente terzo è uno degli elementi che tende ad aumentare il larga misura il rischio che lo psicologo ‘ceda’ ad un utilizzo improprio dei propri strumenti.

Questo comma è un ‘invito’ a non dimenticare che il mandato da parte di un committente terzo non sospende assolutamente la tenuta degli standard clinici e deontologici nei confronti del destinatario dell’intervento, la sua tutela e la tutela della parte più debole.

Si accetta e si svolge il mandato solo a condizione che si possano garantire tale tenuta e tale tutela.

Si deve informare chiaramente il soggetto circa la natura dell’intervento senza slealtà e senza livelli opachi nella transazione con il committente e nel mandato assunto.

E, al netto del mandato e dell’utilizzo commisurato e coerente al fine (buono) del mandato, restano tutti gli obblighi di riservatezza riguardo alla relazione professionale col diretto destinatario della prestazione.

Le notizie apprese possono essere spese solo nell’ambito del mandato.

Ed in una misura tanto più vigilata quanto più è prefigurabile l’arrecamento di un pregiudizio.

Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti.

La cautela evocata nel secondo comma e nel commento ad esso relativo è estesa dal terzo comma alla comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi.

Nel report finale (al committente) che evade il mandato bisogna continuare a tenere ben presente la tutela psicologica del soggetto paziente/utente.

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Bisogna negoziare una bilanciata regolazione tra tale tutela e il dovere di espletare comunque il mandato assunto.

Come spesso accade (quasi sempre) non è eludibile nessuno dei punti e spesso bisogna ricercare un prudente equilibrio tra l’utile, funzionale e produttivo espletamento del mandato, la tutela della riservatezza della relazione (al secondo comma) e la tutela psicologica del soggetto (questo terzo comma).

La complessità è data dal dovere, quando è esposto maggiormente un punto, di tenere sempre presente l’esistenza anche degli altri punti meno esposti, in modo da non rischiare errori deontologici.

 

Settimana dopo settimana prosegue il nostro commento di tutti gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. L'appuntamento è per la prossima settimana con il commento all'Articolo 26. Non mancate.

In questa pagina trovate tutti i commenti finora pubblicati!

(a cura del Dottor Catello Parmentola e dell'Avvocato Elena Leardini)

 

 

 


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