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Contemporaneamente - Luci ed ombre del Millennio

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La memoria dell'amore. I Caregiver e la cura della relazione

MIRELLA la memoria dellamoreC’è qualcuno - così alcuni affezionati lettori mi hanno detto - che si è commosso nel leggere l’articolo che ho scritto nel mese di giugno, quello sul tema “innamoramento” tra persone ricoverate in RSA. Avevo promesso una seconda puntata, un capitolo sui caregiver e le relazioni affettive di lunga data, ed eccomi dunque pronta a raccontarvi altri paesaggi della faccenda “amore ai tempi della demenza” - sindrome che riguarda davvero tutta la famiglia anche se colpisce una persona sola.

Premessa quasi poetica (ma non è una favola)

Ci sono storie che non possiamo dimenticare, anche se non le ricordiamo più. Un paradosso? Forse, ma è ciò che accade concretamente adesso, mentre una mano segnata dal tempo ne stringe forte un’altra nello spazio che collega il letto alla sedia; qui, dentro la stanza avvolta nell’abbraccio della penombra; qui, in fondo al corridoio di una struttura per anziani.

Il gesto reitera migliaia di altri gesti uguali a questo - il dare e il ricevere, il prendersi per mano - ed è un incrocio di mani quello che avviene in questo preciso momento tra Mario e Lina. Lui la guarda spalancando gli occhi e lei gli sussurra di stare tranquillo. Che lei c’è. Che c’è, Lina, anche se Mario non ne rammenta più il nome e spesso la chiama Lorenza, che era il nome di sua madre (quella stessa madre che lui cerca di notte, quando grida, e di giorno, vagando senza meta apparente).

Mario la voleva trovare già prima del ricovero, quella mamma che lui immaginava ancora occupata a cucinare per tutti nella vecchia casa di famiglia. Era ieri, vero? O forse era solo questa mattina che lui era uscito per andare a scuola ma non è poi più tornato? Ma dov’era andato? E adesso dov’è?

Quella sera non poteva più fare a meno di Lorenza: l’uomo aveva imboccato la provinciale a piedi e poi, attraversando le vie meno illuminate, sotto un cielo di stelle circondato dalle sagome delle montagne, aveva percorso a passo veloce il tratto di strada che dal paese porta al borgo in cui sorge ancora la cascina avita, ormai ridotta a rudere. La madre, la casa, le cose del passato.

La moglie e i carabinieri lo avrebbero trovato lì, più tardi, verso l’alba. Gli avrebbero sorriso, come se fossero stati già sicuri di recuperarlo così, seduto per terra, tra i mattoni e i cocci di vetro nel locale che - ma quando? non era ieri? non era oggi? - un tempo fu il regno di Lorenza.

Ci sono storie che scorrono in noi come linfa - vitale o mortifera - a seconda dei casi e, anche quando la malattia cancella ogni traccia, riaffiorano in trame familiari come a dirci quello che siamo stati. Storie che raccontano di nonni e di bisnonni, sprazzi di un segreto mai confessato, ferite che non si sono chiuse mai del tutto e adesso - nonostante il buco nero creato dalla demenza nel campo dei ricordi - emergono e non trovano una collocazione. Chi può aiutare queste storie a farsi ancora narrazioni dicibili?

Nella demenza è l’intera famiglia a essere coinvolta nella cura dei fili che vanno a comporre il disegno transgenerazionale. Tocca ai figli. Ai mariti e alle mogli. A loro il dolore, lo spiazzamento, la rabbia verso l’altro e contro la malattia. Ci vuole tempo (sembra banale ma è un concetto assai concreto): è necessario, il tempo, per prendere coscienza della malattia che è diventata una nuova parente, che ha preso spazio in famiglia e un posto a tavola. Il tempo è necessario a lenire questo furto di anima che lascia in vita soltanto un corpo che non contiene più - parrebbe, e forse è così, la persona amata. La storia è finita? Per niente: durerà ancora parecchio tempo, appunto. Conviene dunque cercare di comprendere quel che sta accadendo e trovare un modo per stare in relazione, nonostante tutto.

La tessitura di trame è un’arte che si  può imparare. Mi piace lavorare anche attraverso le fotografie: chiedo a ogni familiare che frequenta il gruppo (un appuntamento mensile nella struttura per anziani con demenza in cui conduco anche supervisioni d’équipe) di condividere con gli altri partecipanti immagini significative, figure che illustrino a tutti le tappe più importanti della vita del loro caro, che rendano l’idea del legame che ha unito i membri della famiglia e di raccontare attraverso le fotografie come stia cambiando il modo di relazionarsi.

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Anche per i caregiver familiari il gruppo è un contenitore che si presta a riavvolgrere i molti fili che la malattia di uno solo ha scombinato. Utile per ricapitolare, per revisionare, per rimettere ordine nell’album delle memorie, che sono come gomitoli di tanti colori.

Grazie al dialogo e alla condivisione di storie, può emergere un disegno ancora più articolato di quello che si era pensato fino ad ora, e ogni caregiver può fare tesoro di relazioni che si muovono adesso su nuovi livelli, diversi dalla parola, dal nome, dal riconoscimento cosciente.

In gruppo, i mariti e le mogli, i figli e le figlie (in alcuni rari casi anche i genitori) dei pazienti con demenza ricoverati in struttura o afferenti al Centro Diurno Alzheimer mettono in gioco narrazioni, si fanno portatori sani della trama comune, tessitori delle narrazioni tramandate.

I parenti stretti intorno al malato sono coloro che recuperano le lettere nascoste sotto la polvere.

Così Lina, per esempio, ricorda la propria suocera e riallaccia paradossalmente il rapporto con lei oggi nei momenti in cui il marito la chiama con il nome della madre. Spesso accade che le mogli diventino improvvisamente madri agli occhi dei mariti compromessi da un disturbo neurocognitivo. Prendendosi cura di loro, i caregiver riattivano nei propri cari antiche memorie corporee. Paolo, per esempio, che soffre di una demenza vascolare, chiama Sandra con il nome di sua madre soprattutto quando lei gli fa la doccia. Non se ne cruccia, lei, perché l’uomo quasi sempre la riconosce e lei, oggi più di ieri (non è stato tutto rose e fiori il matrimonio di Paolo e Sandra), può in qualche modo soddisfare i propri bisogni affettivi che sono diventati condivisione dolce, amorevole, di abbracci e strette di mano.

In struttura ho conosciuto il progetto “Mirella”, di Fausto Podavini. Si tratta di un percorso fotografico bellissimo, un’opera vincitrice del World Press Photo 2013, sezione Daily Life.

La signora Mirella, moglie di Luigi, è stata seguita nel tempo dall’artista che l’ha immortalata in momenti quotidiani di cura e di sostegno quotidiano, di accompagnamento dell’uomo derubato di se stesso, depredato di ogni cosa dall’Alzheimer - fino all’epilogo che ha reso a Mirella la libertà del vuoto e della memoria.

Le immagini in bianco e nero, bellissime, mostrano un intreccio di corpi che hanno vissuto l’amore. Uno sguardo che non sa dove posarsi, quello di Luigi, e il sorriso dolce di Mirella. Abbracci. Mani che non sanno come muoversi e dita amorevoli che accolgono, leniscono, puliscono, stanno, operano, cercano.

Una storia che racconta le storie di ogni giorno, quelle che in ogni palazzo, negli appartamenti di città e nelle campagne, in tutto il mondo contemporaneo tante famiglie vivono - in maniera simile o leggermente differente. A volte il ricovero è la scelta migliore per permettere anche ai caregiver di non soccombere, di alleggerire il carico facendo sì che la persona con demenza venga seguita e accompagnata al meglio nel decorso della malattia.

In altri casi no: si resta a casa, si tenta fino all’ultimo la cura del proprio caro.

Oggi in gruppo Oscar ricorda la famiglia della propria moglie. Non aveva mai fatto caso a lei in questi termini; non aveva mai pensato ai genitori di Mimì. Da qualche tempo lui prova solo frustrazione e non sa cosa fare di fronte all’armadio pieno di vestiti. Ormai lei indossa gli abiti a caso, la camicetta sopra il maglione. Lui, così elegante sempre, non tollera la sporcizia, l’incuria, le cose fuori posto. Lui, così discreto e pudico, ora deve lavare a Mimì le parti intime: tenerezza e imbarazzo. L’ha tradita tante volte ma adesso gli appare solo come una bambina. Al mattino, quando lui la prepara - colazione, bagno, vestizione - Mimì lo guarda e crede di avere di fronte uno sconosciuto; spesso gli chiede: “Dov’è mia mamma?”.  

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Oscar in gruppo si rende conto di come Mimì patisse la distanza anaffettiva della propria genitrice. Il tradimento del padre, la madre che pensava troppo al figlio abortito mentre trascurava quella che le era rimasta viva. Gliele aveva raccontate, Mimì, queste storie. Storie di sangue chiuse in soffitta, la soffitta dell'anima, tornano a farsi narrazione attuale risvegliandosi da un luogo fatto di oggetti smarriti come riverberi, echi lontani. I giardinieri dell’albero della famiglia sono oggi le mogli, i mariti, i figli e le figlie.

Se un parente che ci è caro perde la memoria ma conserva barlumi di passato che mette in atto attraverso comportamenti che sembrano sorgere dal nulla e riattualizza persone e cose vissute tanto tempo prima, questi racconti ci permettono di ricostruire a volte le connessioni familiari e, altre volte, ci fanno conoscere aspetti che prima non avevamo preso in considerazione.

Link:

Che si tratti di Alzheimer o di un’altra forma di demenza, i familiari sono stati e sono ancora coinvolti nel processo degenerativo che ha colpito un congiunto appropriandosi piano piano della sua personalità, delle sue memorie, delle sue abitudini, della sua intera vita. Anche se il parente malato è ricoverato in struttura, i membri di ogni famiglia continuano a portare avanti quella che mi piace chiamare la “memoria dell’albero”, poiché ravviso in questa metafora la cura della genealogia in tutti i suoi aspetti, a partire dalla tessitura di significati che fanno di un gruppo una storia che è arazzo di generazioni, narrazione speciale e specifica. I familiari di una persona demente attraverso la cura quotidiana si occupano di quel ‘filo rosso’ affettivo e simbolico che attraversa le epoche e le connette conservando il passato per guardare verso il futuro.

 

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