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Ancora a proposito di Ale. di Eli e di "Vivere a colori"

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alessandra amoroso vivere a colori“Vivere a colori” è la canzone che dà il titolo all’album musicale, pubblicato in gennaio 2016, che contiene “Comunque andare”, il cui testo è stato analizzato e decodificato in un precedente articolo, destando un buon interesse presso gli internauti. 

Ancora a proposito delle nostre valenti e fascinose cantautrici, Alessandra Amoroso ed Elisa, ho voluto tradurre la canzone “Vivere a colori” per valutare il corredo dei fantasmi e delle psicodinamiche inscritte anche in questo prodotto psico-culturale, un testo molto significativo di musica popolare.

Ribadisco che un “prodotto psichico” di qualsiasi tipo e qualità ha una sua natura profonda, si basa sui “processi primari”, denota chi siamo e cosa immettiamo di nostro senza averne piena coscienza in quello che tiriamo fuori dal nostro “Profondo psichico”.

Qualche notizia non guasta. “Comunque andare” ha avuto un immediato riscontro, mentre “Vivere a colori” riceve adesso il meritato riconoscimento. Le cifre parlano chiaro: al 13 agosto 2016 le visualizzazioni in “internet” sono notevolmente a favore di “Comunque andare”. Il motivo si può trovare nel fascino suggestivo del “registro verbale e musicale”, ma “Vivere a colori” non è da meno. E’ anche vero che il primo era di scuola poetica prevalentemente “ermetica”, mentre il secondo viaggia tra “l’ermetico e il simbolico” non trascurando per niente “il gusto della parola”. Entrambe le canzoni sono ricchissime di suggestioni musicali ben architettate  ed efficaci.

Ma quale psicodinamica si cela tra le parole di “Vivere a colori”?  Quale psicodramma si svolge nel contesto? Quali fantasmi si agitano all’interno del testo?
Procedo di vero gusto.

Baci pensati e mai spesi”: investimenti di “libido orale” immaginati e mai realizzati. Si legge pari pari così questo primo verso: fusioni affettive allucinate e sublimate nel desiderio. Si tratta di “libido orale” offerta in due registri, il fantasma e la realtà; nel primo caso è realizzata, mentre nel secondo caso è frustrata. La “libido orale” è sentita ma non consumata, vissuta ma non agita ed evoca un’intimità repressa fatta di sensi infiammati e delusi. Questa è la condensazione simbolica del “bacio”. Non bisogna dimenticare la valenza affettiva: il “bacio” eccita i sensi, ma comunica sentimenti, forti sentimenti. Quando la parola manca, il bacio grida e ripara. “Pensati” condensa le fantasie erotiche di cui siamo tutti indistintamente ricchi soprattutto da bambini. “Spesi” rappresenta l’investimento concreto e caldo della “libido e la traduzione in fatto della fantasia intima e del desiderio fusionale. Si profila l’infanzia sin da questo primo verso, il mondo incantato di quand’eravamo con poche parole logiche e con tante pulsioni desideranti.  

sguardi volti ad orologi appesi”: il pensiero è rivolto verso la morte. La consapevolezza e l’attesa della morte, della fine, del distacco affettivo è dentro lo “sguardo” o meglio gli “sguardi”: la riflessione razionale e consapevole dell’adulto, colui che non è più bambino. Gli “orologi” sono la misura del tempo, uno strumento freddo, impietoso e crudele che scandisce le ore che trascorrono e che offendono. L’orologio è simbolo dell’ineluttabilità e condensa un “fantasma di morte” con tutto il suo carico emotivo di dolore che degenera facilmente nell’angoscia, specialmente se è collegato alla possibilità del “nulla eterno” e non è sublimato in fedi speciali e opportune. Un ulteriore aggravamento emotivo si attesta nel termine ”appeso”, il quale impone il senso del disuso e dell’abbandono. Letteralmente “appendere” si traduce “dipendere da qualcuno”, una mancata autonomia psicofisica e un’angoscia di morte legata alla possibilità che questo qualcuno, di solito la figura materna, non si prenda più cura di lui o di lei. Il verso, “sguardi volti ad orologi appesi”, evidenzia una simbologia globale funesta, consapevolmente triste ma non angosciata, dal momento che è presente un buon grado di consapevolezza: il brutto è passato, si può procedere verso tempi migliori.  

alla stazione”: si conferma ancora, come se non bastasse, il “fantasma di morte”, il distacco, la separazione, l’abbandono, la solitudine. La “stazione” condensa distacco e morte, l’istanza depressiva della perdita in riferimento alle figure genitoriali e in particolare alla madre, fantasmi che si formano e si agitano nella primissima infanzia, il primo anno di vita, secondo la delicata e specifica modalità di pensiero del “processo primario” e il meccanismo di difesa dello “splitting”, scissione. Il primo produce le primissime conoscenze rudimentali, sensazioni e fantasmi, il secondo opera una scissione nel “fantasma “distinguendo una “parte buona” e una “parte cattiva”, una gratificante e una persecutoria, una vitale e una mortifera. In sogno qualsiasi “stazione” condensa angoscia da solitudine e porta alla morte.   

un’emozione alla vita che si fa sognare”: ecco la conferma dello psicodramma che si sta recitando e consumando in questo brano altamente poetico e di scuola “ermetica-simbolica” e con riferimenti eruditi. “Emozione” è sempre un fatto individuale e personale, equivale a un movimento psichico provocato da se stesso o da un qualcuno o da un qualcosa, un oggetto interno o un oggetto esterno. L’emozione comporta il concorso del senso e del sentimento. L’emozione si definisce come astrazione di una serie di sensazioni, la prima rudimentale consapevolezza della “libido” e del suo esercizio. Ricordo che non è possibile un’emozione legata a una singola sensazione. L’emozione coinvolge almeno tre sensi. Ma cos’è la “vita che si fa sognare”? Quale marchingegno retorico hanno istruito l’Ale e l’Eli? Una figura retorica, la “metonimia” in un contesto ermetico di “significato” e “significante”. “La vita è sogno e i sogni esistono”. Così recitava nel suo dramma omonimo Pedro Calderon de La Barca esternando nel diciassettesimo secolo un “pessimismo” in riguardo all’uomo e all’esistenza da far invidia al migliore esistenzialista nichilista dell’Ottocento e del Novecento. La “vita che si fa sognare” induce al “comunque andare”, la vita che non si vive e si allucina in un desiderio o in un appagamento traslato induce al “comunque andare”, al darsi da fare, al prendersi cura di se stessi e del proprio destino, quello “amor fati” che ha contraddistinto il prodotto poetico-musicale di cui abbastanza è stato detto nel precedente studio.
Se la vita si fa sognare vuol dire che si affronta con i “fantasmi” e con il “processo primario”, la “fantasia” del bambino in primo luogo o meglio della bambina, visto che di due donne si tratta. E che donne! Se la vita ancora non s’inquadra con la consapevolezza del “processo logico secondario”, vuol dire che si vive il bambino dentro, si “vive a colori”. I conti cominciano a tornare. Il testo procede verso la soluzione del conflitto e la strategia di vita più adeguata alla circostanza esistenziale. “Sognare” equivale simbolicamente a fuga dalla realtà, a disimpegno psicofisico, a stato suggestivo e desiderante, a soluzione difensiva dall’angoscia del “materiale psichico rimosso”. In attesa di “vivere il sogno” o di “sognare la vita” bisogna trovare l’ago della bilancia psichica, l’equilibrio e la strategia migliore per continuare a vivere. E’ stato reperito il senso e il significato possibilmente consequenziale, anche se  ermetico e simbolico con il suo uso di “significati” e di “significanti”. Il testo mantiene una logica profonda senza cadere nel paradosso e tanto meno nell’assurdo. Tutt’altro signori! Qui si soffre e si ricerca la panacea del male di vivere.

sento il suono del metallo che stride”: degna di nota la freddezza affettiva legata al “fantasma di morte”, la solitudine, la coscienza di un’aridità sensoriale e di un distacco sentimentale. Lo stridore attesta l’intensità del dolore e della sofferenza. Questo verso è il degno rafforzamento di un’acuta “cenestesi”, complesso di sensazioni, a conferma di un pesante “fantasma di morte” e in preparazione di un riscatto affettivo e di una risoluzione psicofisica: il “vivere a colori” con tutto quel che significa. Intanto abbiamo un treno che corre sulle rotaie con consapevole dolore e in attesa di una stazione atta al disimpegno emotivo e al giusto modo di rivivere l’infanzia. Siamo in attesa del giusto riscatto.

mentre passo qualcuno sorride”: comincia il recupero psichico, la soluzione emotiva, il risanamento benefico nel cammino della vita. In questa storia di dolore si profila la solidarietà di un “qualcuno” o di tanti anonimi, un salutare emergere di quella parte di noi che vuole essere consolata, accudita, compresa e curata. Il “sorride” è una partecipazione affettuosa, una trasparenza d’armonia, un equilibrio dinamico ed economico tra le istanze dell’Io, dll’Es e del Super-Io, una dialettica tra pulsione, ragione e limite: una cospirazione d’amorosi sensi.

frena il treno e mi sposta un po’ ”: un’esperienza negativa vissuta che si sublima in strategia esistenziale, in soluzione del male di vivere, in risoluzione dell’angoscia. Il “fantasma di morte” in parte mi tocca, m’investe, mi riguarda, mi commuove, mi addolora, “mi sposta un po’”. Esiste un chiaro riferimento a esperienze dolorose e significative con se stessa, con figure importanti, un lutto subito e da rielaborare e da razionalizzare. Cari internauti, ma pensate che in una canzone ci sia dentro tutto questo? “Eppur si muove”, disse qualcuno di fronte all’evidenza scientifica.   

adesso lo so, sto arrivando da te”: “adesso lo so”. Ecco il salutare “sapere di sé”, il gusto di se stessi! Ecco la salvifica consapevolezza legata alla razionalizzazione del trauma doloroso o del tragico lutto! ”Ecco la soluzione psichica legata alla relazione con un qualcuno rasserenante e risolutivo oppure con quella parte di sé sofferente che, interpellata, ha dato la soluzione al trauma. “Sto arrivando da te” sembra l’incontro con il perduto amore, con l’innamorato-amante o con la persona importante o ancora con se stessa, con quella “parte di sé” che ancora non è nata e non ha visto la luce. Si tratta, in ogni caso, di fantasmi interiorizzati di un “se stesso” ritrovato, di un qualcuno importante, di un altro salvifico che hanno aiutato la presa di coscienza secondo le linee di una soluzione temporanea e contingente come le umane cose: “sto arrivando da te”. L’arrivare è simbolo di un disimpegno salvifico, di un benefico orgasmo psicofisico, di un investimento di “libido” andato a buon fine, di un’allettante rinascita. Si deve propendere sempre per il soggetto che vive e proietta il suo vissuto; di poi vengono gli altri, tutti gli altri, quelli che hanno popolato nel bene e nel male la nostra interiorità, i nostri sogni e i nostri desideri.

niente di più semplice”: come tutte le soluzioni cercate e trovate dopo tanta macerazione del corpo e dopo tanto tormento della mente. “Semplice” equivale alla consapevolezza essenziale e alla risoluzione analitica del “fantasma” e della “psicodinamica” sottesa, all’operazione analitica di smembrare nelle minime parti il vissuto fino all’evidenza per avere una migliore “coscienza di sé” e del conflitto in atto. Richiama la prima e la seconda operazione filosofica della metodologia di Renato Cartesio: l’evidenza delle idee e la riduzione delle idee complesse nelle idee semplici costitutive.   

niente più da chiedere: tutto si è risolto e tutto si è composto. Il caso doloroso è chiuso, adesso è tutto da vivere. Niente chiede di continuare a soffrire, a vivere nel tormento. La partita si conclude con l’autosufficienza e l’autonomia, con il bastare a se stessi. “Io so di me” e allora non ho bisogno d’altro, faccio “legge a me stessa” con la semplicità analitica operata dalla presa di coscienza. In tal modo evito le dipendenze dai fantasmi miei e altrui. “Chiedere” simbolicamente equivale a un disagio psichico, a un’inferiorità, a una minorità legata alla ricerca di una direzione e di una soluzione, ricerca che si evolve in “autonomia” psichica e in “coscienza di sé”.    

rimanderò tutto a domani”: i processi di crescita e d’indipendenza hanno bisogno di una giusta riflessione, per cui al presente godrò delle conquiste fatte. Si ripresenta il “fantasma depressivo del tempo” nell’enigmatico e tremendo “domani”, l’ansia dell’indefinito e la possibile degenerazione nell’angoscia. “Del doman non v’è certezza”, “chi vuol essere lieto” lo sia oggi, nel presente e nell’attualità. Benedetto sia il “rimanderò” iniziale che tutto lenisce e tutto assolve. Ci sarà tempo per soffrire, ma intanto voglio godere. Adesso coltivo la realtà in atto, adesso godo delle conquiste fatte grazie alle mie prese di coscienza. Si esibisce il disimpegno dalle responsabilità degli adulti e arriva la bambina e il gioco, una donna-bambina  “quam minima credula postero”, come diceva Orazio nel suo “Carpe diem”

sono di carta tutti gli aeroplani”: questo è un verso fondamentale. Dopo aver fermato lo scorrere inesorabile del tempo e nella ritrovata e benefica attualità psichica cominciano a profilarsi le verità delle psicodinamiche e dei fantasmi. L’aeroplano è simbolo della “madre”, la parte oppressiva e fagocitante del “fantasma della madre”, una madre non certo riconosciuta e tanto meno “sublimata”, dal momento che viene aggredita con il ridimensionamento nell’inconsistente carta: ”sono di carta tutti gli aeroplani”. Come dire: le mamme sono vuote, inconsistenti, fatue, di carta come gli aeroplanini che escono fuori dalle mani abili dei loro bambini. La “posizione edipica” ritorna con tutto il peso di una mancata risoluzione, ma, del resto, si tratta di conflittualità destinata a riproporsi nel “cammin di nostra vita”. La bambina rievocata dalla donna sta liberando la strada per uno spazio tutto suo nei confronti del padre. Ripeto in sintesi: le madri-aeroplani di carta non hanno carne e ossa, le madri non sono un conflitto serio, sospendiamo la realtà delle madri per realizzare i sogni e i desideri della bambina ricominciando a vivere secondo il “principio del piacere” e assecondando e realizzando le pulsioni edipiche. Sbarazziamoci delle madri in maniera indolore e simpatica, quelle donne che sembrano di ferro e che invece sono di carta, e andiamo direttamente all’oggetto del desiderio, il padre.

sei tu il mio re”: questa è la classica frase che la bambina pensa in riferimento al padre durante la macerante dialettica triangolare della “posizione edipica”, frase che poi immancabilmente rievoca e finalmente dice  all’uomo investito di “libido genitale”, l’uomo da amare. Quest’ultimo è sempre quello prossimo al padre o totalmente diverso da lui, a testimonianza che c’è poco da scegliere o da svicolare perché l’essere umano è un prodotto
psico-culturale condizionato e con libertà vigilata. La donna esprime il suo innamoramento fusionale nei confronti del suo “re” come da bambina nella sua fervida fantasia l’aveva immaginato. Non dimentichiamo che tanto investimento e tanto trasporto emotivo maturano nel tomento dell’evoluzione e dell’identità psichica proprio attraverso il conflitto con la madre. Il simbolo del “re” è il seguente: sublimazione e carisma della figura paterna, istanza psichica del “Super-Io”, introiezione e identificazione. Credo sia sufficiente.

io la tua regina”: l’intesa è perfetta nelle fantasie della figlia sul padre. La sostituzione alla madre si è adempiuta come le profezie delle sacre Scritture. La coppia edipica è allucinata dalla “Fantasia” e ha trovato la sua realtà. Spesso i padri usano chiamare le figlie in termini nobiliari: principessa o regina e mai baronessa o marchesina. L’usurpazione di ruolo è compiuta, il conflitto è consumato, la fusionalità e l’empatia con il padre sono una cosa seria. Adesso c’è bisogno d’inserire il bellissimo quadro di Edipo nella cornice più degna.

in un’eterna Roma”: eccola! A questo punto noi tutti in coro ci chiediamo: ma cosa c’entra mai Roma in questo splendido contesto d’intimità trasgressiva familiare? Questa “eterna Roma” sembra un “non senso”, un assurdo manifesto secondo i rigidi e rigorosi dettami della “Logica”, ma non lo è secondo gli ampi ed elastici cordoni della “Fantasia” . “Eterna” è la giusta connotazione temporale del “ritorno al passato” a recuperare il desiderio sopito e mai spento di “cotanto padre” per riattualizzarlo e realizzarlo in barba alla madre. Ribadisco che la Piche esula da categorie temporali nel suo essere un “breve eterno” con le sue distensioni all’indietro e in avanti. Roma è il “caput mundi”, il simbolo del potere, della bellezza, dell’immortalità, della gloria. Roma attesta la ripetizione costante e immarcescibile della “dimensione edipica” nella sua universalità e nella formazione materiale e psichica del Vivente. Roma è il luogo migliore per celebrare il romanticismo carismatico di un amore culturalmente interdetto, la monarchia del padre, la repubblica della famiglia, l’impero carismatico del capo. La “posizione edipica” è come Roma e Roma è il luogo giusto dove celebrarla.

eh all’aria tutti i piani”: la “Fantasia” non ragiona e manda “all’aria” tutti i piani della “Ragione”, i ragionamenti e i progetti, le deliberazioni e le decisioni. E’ tempo di affidarsi all’inventiva e alla creatività dei “processi primari”, dell’essere stato bambino, contro le costrizioni logiche. Evviva la pulsione! Evviva l’emozione! Evviva l’inventiva e la creatività! Al bando la freddezza logica degli adulti! Recuperiamo e tiriamo fuori il nostro “bambino dentro”! Questa è la rivoluzione di Giamburrasca, perché aizza a sconvolgere le costrizioni stabilite dagli adulti, le convenzioni sociali e culturali a favore di un mondo allucinato dai colori della “Fantasia”. Quante volte riemerge nel corso della vita il nostro salutare bambino? Speriamo più di quanto si possa immaginare, perché è proprio lui che fa restare giovani e mentalmente fertili.

riavviciniamo i sogni più lontani”: recuperiamo l’infanzia e cerchiamo di rivisitarla quando la “Fantasia” dominava e i “processi primari” erano la nostra modalità di pensiero. Recuperiamo i desideri e i sogni di allora. Ridiamo vitalità al bambino che eravamo con le precipue caratteristiche di allora che sono rimaste dentro insieme ai contenuti: il papà, la mamma, io e tutto quello che sta dentro il triangolo. Una tale riattualizzazione non comporta il meccanismo di difesa dall’angoscia della “regressione”, perché si tratta di un volontario “ritorno al passato” per rivivere e realizzare i “sogni a occhi aperti” di allora e le fantasticherie, per guidare i sogni da svegli. Si tratta di un consapevole recupero del passato al puro fine del godimento di realizzare quello che allora era tabù: l’amore evoluto verso il padre.

e tu lo sai che non c’è segreto per vivere a colori”: la consapevolezza dell’essere bambini è evidente e vivere secondo fantasia e desiderio è alla luce del sole, è la verità che non si nasconde: vivere tutto quello che si è  allucinato nel desiderio. La seduzione è rivolta al padre, ”e tu lo sai”, e la figlia bambina chiede di realizzare da adulta la storia che da bambina ha intessuto e vissuto per anni con lui: la “posizione edipica”. La complicità con il padre, “che non c’è segreto”, allora in funzione antimaterna e adesso in funzione adulta e matura, si snoda nel simbolismo dell’assenza di segreto. Quest’ultimo simbolicamente si attesta nell’incarcerare materiale psichico che non riesce a vedere la luce della coscienza e non affiora alla consapevolezza e alla valutazione dell’Io. Inoltre, il simbolo “segreto” equivale alla coscienza e alla colpa, all’occultamento di parti psichiche di sé e alla loro “introiezione”, alla chiusura relazionale e al meccanismo di difesa della “rimozione”. Questo è tutto il travaglio psichico della “posizione edipica”: non poter dire, soffrire, il senso di colpa, l’isolamento, la tristezza, il dimenticare. Tutto questo buio è stato vissuto e appartiene al passato; l’oggi è totalmente diverso, l’oggi è colorato: una vita a colori.        

per vivere, vivere a colori e, vivere, vivere a colori e, vivere, vivere a colori e vivere.”: la reiterazione è legata al registro musicale, ma è anche un rafforzamento della verità ritrovata e della riscoperta dell’essere stata bambina in funzione del padre. La madre è un aeroplano di carta ed è esclusa da questa nuova avventura: il ritorno dal padre. La donna rivive Ia bambina, “la tua regina”, e l’amore verso il padre, “il mio re”, senza alcun segreto, senza rimuovere le sensazioni e senza incarcerare i sentimenti, ma alla luce del sole, da donna adulta ma con la testa della bambina, senza colpa e senza ragione ma con senso e sentimento, con desiderio e amore. Il “vivere a colori” condensa simbolicamente la variopinta gamma delle modalità di sentire e di pensare dell’infanzia, le mille sfaccettature della fantasia e del carattere, i mille modi di agguantare la vita come psiche comanda. “Vivere a colori” è vivere secondo il vangelo dell’infanzia, realizzando i desideri di allora anche i più imbarazzanti, padre compreso: una figlia che stabilisce da adulta una relazione bellissima con il padre riesumando l’infanzia e il suo corredo variopinto di modi di pensare e di essere.   

E penso tu sia un fiore di un raro colore”: la seduzione continua in maniera chiara dal momento che si sono scoperti giochi e giocatori. Il “fiore” rappresenta qualcosa d’intimamente prezioso, il prezioso vissuto di una figlia che nobilita la delicatezza dell’attrazione verso il padre. Il padre è un “fiore di un raro colore” nel vissuto di lei. Quale simbologia nasconde il fiore?  Eccola: giovinezza e fecondità, valore estetico della “libido” e della vitalità sessuale, organo sessuale femminile, cultura della vita e investimenti evolutivi della “libido”, amor proprio e vitalità, sentimento della bellezza, seduzione e piacere. In questo quadro sta bene anche la simbologia di “Roma eterna”: la bellezza e la seduzione insieme all’archetipo “Padre” e alla psicodinamica di “Edipo”. La “proiezione” del fiore di figlia nel padre è evidente. La figlia parla di sé, della sua unicità, dei colorati vissuti psichici della sua infanzia, del suo essere in fiore “di allora” che rivisitato e rivissuto al presente la trova donna innamorata del padre come “allora” ma diversamente di “allora”. Tutto questo viaggio, il rivisitare e il rivivere, è possibile grazie alla “Fantasia” che elabora e riproduce un “sogno a occhi aperti” dentro un suadente e incalzante ritmo musicale. E nella realtà reale? Nella realtà reale si è verificato il recupero di una relazione bellissima tra figlia e padre, in presenza e in assenza di quest’ultimo. Non posso che rilevare la bellissima profondità di questo verso. Ma la bellezza non finisce mai perché è eterna come l’essenza della Psiche.  

Che riesce a stare fermo con lo sguardo altrove”: ecco la conferma. Il sentimento d’amore verso il padre è rimasto identico, “fermo”, in un contesto evolutivo e adeguatamente camuffato, “lo sguardo altrove”, nella consapevolezza della figlia. Lo “sguardo” rappresenta una coscienza di sé specifica, l’essere figlia, l’essere stata una bambina che è cresciuta con questo amore speciale dentro e tutto intero. Si rileva ancora la “proiezione” difensiva, da parte della figlia nei confronti del padre, del complesso delle sensazioni eccitanti e dei sentimenti struggenti, unici ed eccezionali, che l’hanno formata a livello psicologico. Il verso è cenestetico ossia induce la sensazione della sospensione del tempo e dello spazio, ”fermo”, nella piena consapevolezza e padronanza della vertigine emotiva. La giusta metafora può essere quella di una libellula sospesa nell’aria ma presente in se stessa nell’apparente indifferenza del paesaggio. La figlia è cresciuta e la donna non riesce a dimenticare il primo amore della sua vita e lo tiene intatto dentro e lo rivive in questo giorno eccezionale sospendendo le regole e in barba alla madre, “l’aeroplano di carta”. In effetti, la Psiche conserva intatti i ricordi più significativi e le esperienze più forti, magari rimuovendoli per continuare a vivere, ma con la capacità di rievocarli al momento opportuno.    

e oltre che tu riesci a vedere”: bisogna andare al di là delle apparenze e delle convenzioni per capire la riedizione gioiosa di questa relazione
padre- figlia. Bisogna squarciare il velo di Maia, secondo il dettame di Schopenhauer, per contemplare la verità. Viene introdotto il concetto dell’ “oltre” o meglio dell’ “Oltrità”, un concetto classico della “Psicoanalisi” che definisce la dimensione “Inconscio” e in parte l’istanza dell’ “Es”. La prima teoria di Freud esigeva l’Inconscio per giustificare il meccanismo di difesa della “rimozione” e viceversa, la seconda teoria allargò il concetto includendo al materiale psichico inconsapevole le rappresentazioni degli istinti e delle pulsioni. Si attribuisce al padre la capacità di capire e di assimilare la posizione edipica della figlia per stabilire un gioco che porta all’infanzia e a “vivere a colori”. Ci vuole un “padre a colori” e complice, non un “padre in bianco e nero” e bigotto. Non serve un padre che ha sepolto nel suo dimenticatoio il suo “bambino dentro”, ci vuole un padre che sa “vivere a colori” anche per un attimo, per un “breve eterno” insieme alla figlia. Queste qualità si chiamano di diritto complicità e simpatia, nel senso di viviamo il “pathos” insieme. E in questa ritrovata intesa perfetta di sensi e di sentimenti, in questo rinnovato trasporto di amorosi sensi, la ragione consente di andare “oltre”: “oltre che tu riesci a vedere”. “Tu riesci” equivale a “tu hai potere”, tu sei capace. La figlia attribuisce al padre quel potere che in effetti da adulta possiede e che le consente di stabilire e rivivere un meraviglioso e composto vissuto edipico.         

e oltre che tu sai sentire”: al di là delle sensazioni pure e semplici, ma nella consapevolezza delle sensazioni. Si può rivivere la “posizione edipica” con tutti gli struggimenti annessi e connessi, con la piena coscienza dell’innamoramento e di tutto il trasporto emotivo che ha comportato. Si conferma il concetto di “Oltrità” come di una dimensione psichica praticabile nell’età adulta senza turbamenti sensoriali. La figlia attribuisce al padre, “meccanismo di difesa della “proiezione”, la sua conquistata autonomia dalla dipendenza edipica e la sua acquisita capacità di “sentire” in piena armonia con la coscienza.

Amo te, niente di più semplice”: cosa è cambiato tra “l’amo te” della figlia bambina e “l’amo te” della figlia adulta? La consapevolezza di oggi in tutte le sfaccettature emotive e sentimentali ! Niente di più semplice: idea chiara e distinta, evidenza cartesiana, un principio primo, un assioma, una tautologia. L’amore della figlia verso il padre e del padre verso la figlia non possiede sovrastrutture ideologiche o condizionamenti culturali, è la base su cui si costruisce l’affettività, la sfera psichica della “libido genitale”. Adesso è più semplice e, se lo si rivive per un giorno, si tratta di un “giorno a colori” specialmente perché è volutamente scelto e costruito senza il meccanismo di difesa infausto della “regressione”. E’ tutta salute psicofisica!

Amo te, niente in più da chiedere”: lo psico-senso amoroso, “l’investimento di libido genitale” si esaurisce in se stesso, non ha bisogno di fronzoli e di suppellettili, si pasce e si appaga di sé. Si tratta di un dono, quindi di un dare che non chiede un ricevere, un dono disinteressato senza fine e senza scopo, ma con il solo intento di essere realizzato nel sentimento maturo della figlia verso il padre e possibilmente viceversa. Intesa, empatia, simpatia, comunione d’amorosi sensi, chiamatela come volete questa psicodinamica amorosa, ma si tratta del vissuto edipico di una figlia che ha preso coscienza del sentimento d’amore verso il padre, investimento iniziato a suo tempo da bambina e portato avanti con struggimento fino alla riedizione da adulta del suo modo in atto di amare e specialmente se è diventata mamma: “niente in più da chiedere”. “Ho bisogno di te per amarti”, avrebbe detto Fromm. “Quest’amore cosi vero. Questo amore così bello. Cosi felice. Cosi gaio..” avrebbe riscritto Prevert in elogio all’amore maturo. “Questo piccolo grande amore” avrebbe cantato Claudio Baglioni.

“Rimanderò tutto a domani.
Sono di carta tutti gli aeroplani.
Sei tu il mio re,
io la tua regina
in un’eterna Roma…”:

Amo te, niente più d’aggiungere.” La conclusione è degna di una vera psicodinamica vissuta come un “sogno a occhi aperti”. L’amore non ha postille, note, correzioni. L’amore è tutto intero. L’amore non ha nulla “d’aggiungere”.

Mi piace concludere questa straordinaria poesia ermetica con i versi di un poeta vate, Giosuè Carducci, tratti da Jaufrè Rudel e adattati al caso.

“Papà,
che è mai la vita?
E’ l’ombra di un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
il vero immortale è l’amor.”

Nel congedare il presente lavoro, invito il mio lettore a  riascoltare la canzone nella versione cantata e ballata nell’eterna Roma.

 

 


Articolo a cura del Dottor Salvatore Vallone

 


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Tags: alessandra amoroso canzone psicodinamica

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