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Comunicare al bambino la diagnosi di cancro pediatrico

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Cancro pediatrico: i buoni motivi per comunicare al bambino la diagnosi e le diverse fasi della malattia

Comunicare al bambino la diagnosi di cancro pediatricoIl cancro è un’esperienza dolorosa tanto più se riguarda un bambino. Associare la parola cancro alla parola bambino suscita emozioni di terrore, rabbia e sfiducia verso il mondo e verso sé stessi.

Il momento della diagnosi diventa il luogo nel quale tutte queste emozioni si affermano e si manifestano, segnando un netto cambiamento delle diverse dimensioni della propria vita (fisica, psicologica, relazionale).

Eppure, il momento della diagnosi che rappresenta per il senso comune l’inizio del calvario, è in realtà quel passo fondamentale dal quale indirettamente può dipendere il successo o meno delle cure su quel male che tanto fa paura.

In effetti, la letteratura scientifica riconosce quanto sia importante una comunicazione della diagnosi chiara, adeguata all’età e al livello culturale del paziente e dei suoi cari, rispettosa e aperta alle domande; ovviamente una comunicazione di tale genere deve riguardare non solo il momento della diagnosi ma l’intero processo di cura.

Gli ostacoli al dialogo: conoscerli per prevenirli

È utile affrontare quali sono gli elementi che possono ostacolare la comunicazione della diagnosi e delle varie fasi del trattamento.

Innanzitutto c’è la convinzione che i bambini (soprattutto di età inferiore ai 10 anni) non riescano a comprendere. Eppure fa riflettere la testimonianza di molti adulti malati da bambini, i quali riferiscono di aver ricevuto poche o nessuna informazione su malattia e cure e che ciò che più avrebbero desiderato in quel momento era quello di sapere cosa stesse succedendo, per poter capire in modo da affrontare e gestire meglio quella situazione.

Il secondo ostacolo è legato al primo. I genitori, in generale, presentano difficoltà nel parlare ai propri figli, specie se piccoli, di argomenti come malattia, prognosi incerta, possibili effetti collaterali del trattamento; queste difficoltà risultano accentuate nel caso in cui queste tematiche riguardino in prima persona la salute di questi bambini. C’è la convinzione che il bambino meno sappia e meglio è per lui; meno entra in contatto con queste informazioni e più sarà preservata la propria salute mentale. In tal caso, questo senso comune non solo è sbagliato ma anche dannoso perché il bambino tenderà a sentirsi un individuo passivo di una vita non sua ma gestita e coordinata da attori esterni a lui.

Non dimentichiamo inoltre come un cancro pediatrico investa questi genitori dal punto di vista psicologico. Vissuti di inutilità e impotenza tendono a imporsi su queste figure, c’è la percezione che la propria funzione genitoriale (ovvero la capacità di prendersi cura e rispondere in modo adeguato ai bisogni dei propri figli) sia commissariata dal personale sanitario: il genitore non sa cosa fare, pensa che qualsiasi cosa farà, sarà sbagliata. Abrogare il dialogo con il piccolo paziente e all’interno della famiglia diventa la strategia maggiormente utilizzata.

Un altro ostacolo può derivare dai medici. In effetti ci si focalizza molto sui meccanismi psicologici della famiglia trascurando quelli che sono i vissuti, le ansie, il senso di impotenza, di sofferenza e i bisogni dei medici che devono affrontare la consegna della diagnosi. Alcuni genitori riportano il ricordo di dottori che hanno effettuato comunicazioni troppo tecniche, frettolose, con inesattezze di vario genere, evitando in maniera chirurgica le domande più spinose; tali atteggiamenti non denotano certo distacco e malafede ma un tentativo di tenere a bada le proprie ansie e un eccessivo coinvolgimento emotivo.

L’adozione di una comunicazione autentica e continua trova difficoltà anche dall’organizzazione tradizionale dell’assistenza medica improntata alla rapidità e alla produttività, caratteristiche che si scontrano con l’elaborazione di emozioni e conflitti: se la componente emotiva viene ignorata, non si risparmiano sofferenze né si rende più obiettiva l’informazione ma la si investe di significati distorcenti ed ambigui (Pérez et al., 2009).

I benefici della comunicazione

Cosa significa <<comunicare>>? Significa dare ma anche ricevere e ascoltare; vuol dire essere pronti ad accogliere le domande, le incertezze, le ansie di chi abbiamo di fronte.

L’assenza di una comunicazione adeguata finisce per distorcere l’esame di realtà del bambino: può in effetti interpretare la realtà in maniera irrealistica sovrastimando la gravità della situazione; può strutturare idee di colpevolezza (<<ho fatto il cattivo e questa è la punizione>>); può sviluppare rabbia verso il tacere dei sanitari che, attraverso la messa in atto degli interventi terapeutici, vengono percepiti come degli invasori aggressivi. È facile intuire come il primo motivo che ci induce a favorire un dialogo chiaro e aperto sia quello di prevenire tutti questi aspetti appena esaminati.

Una comunicazione adeguata permette al bambino un’appropriata e realistica consapevolezza della propria malattia diminuendo l’insicurezza, il disorientamento e il disagio derivanti dall’ospedalizzazione e dal processo di cura. Tutto ciò dà al bambino il senso di una maggior padronanza della situazione: in altri termini, il bambino non sente di subire bensì di partecipare attivamente al processo di cura.

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E poi c’è un altro elemento da tenere in mente. Come è stato detto, i bambini percepiscono che c’è qualcosa che non va nei comportamenti e nelle parole dei genitori. L’atteggiamento del genitore può apparire contraddittorio agli occhi del bambino se verbalmente esprime rassicurazione e, al tempo stesso, comunica tramite il canale non verbale (tono di voce, gestualità, espressione del viso…) paura, malessere, preoccupazione. Tutto questo va ad inficiare la credibilità stessa di questi genitori, e non dimentichiamo che i genitori sono per il proprio figlio il loro punto di riferimento, la certezza e la sicurezza della propria vita. I bambini stentano a comprendere le ragioni che possono motivare omissioni e bugie e quando vengono a conoscenza di una verità che era stata loro nascosta, a quel punto si sentono traditi, traditi proprio da quelle figure di riferimento da cui si aspettano protezione e sicurezza. E a quel punto le reazioni più comuni diventano rabbia e insicurezza, tutti vissuti che impattano negativamente sul bambino, il clima familiare e l’adesione al trattamento.

Si può facilmente affermare che comunicare è positivo per tutti.

Per i medici perché consente loro di percepire un maggior senso di autoefficacia; vivere in un clima maggiormente collaborativo con i familiari e i piccoli pazienti; mantenere la propria figura preservata dall’ombra di quel dottor Google che negli ultimi anni è diventato il rifugio soprattutto per quei pazienti e familiari che reputano le informazioni ricevute dai propri medici come troppo tecniche, contraddittorie o insufficienti (con tutte le conseguenze del caso sui pazienti stessi).

Per i genitori e l’intera famiglia, in quanto permette di preservare la propria capacità genitoriale e contenere il proprio senso di impotenza.

Per i fratellini e sorelline sani del piccolo paziente, perché in tal modo si sentono maggiormente coinvolti e quindi parte integrante dell’intero sistema famiglia.

E lo è ancor più per i piccoli pazienti perché: ci si percepisce come parte attiva dell’intero processo di cura aumentando la qualità di vita; si assiste a una miglior relazione con i curanti e la famiglia; c’è una miglior accettazione dei trattamenti; è presente una miglior capacità di fronteggiare gli eventi critici e quindi un maggiore senso di padronanza della propria vita.

 

(Articolo a cura del Dottor Danilo N. Selvaggio,
autore del libro Psiconcologia pediatrica. Gestire il bambino e la sua famiglia)

 

 


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Tags: tumore cancro pediatrico tumore infantile diagnosi di cancro

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