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Gli “UOMINI SOLI” secondo i “POOH”

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Una elaborazione psicodinamica della canzone "Uomini Soli", scritta e cantata dai Pooh, vincitrice del Festival di Sanremo 1999.

canzone uomini soli poohE’ una canzone densamente significativa, elaborata da Facchinetti e Negrini con una sintesi profonda. Ha vinto il festival di Sanremo nel 1990.

Il testo è di scuola “neorealista” in sintonia con una delicata musica che avvolge di gradevole tristezza l’impianto globale. I versi hanno una pensosità e fanno netto riferimento alla poesia più famosa di Salvatore Quasimodo, poeta siciliano e premio Nobel, intitolata “Ed è subito sera”, la seguente poesia di scuola simbolica ed ermetica.

“Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.”

L’approccio al brano dei Pooh merita la giusta riflessione perché di verso in verso si evidenziano pensieri e suggestioni pregne di umanità.

“Uomini soli”

Il titolo condensa il programma: la solitudine dell’uomo. Sembra un tema obsoleto e scontato, strappalacrime e accorato, ma non è così perché il modo in cui viene elaborato è in sintonia con i dettami di un “neorealismo” comprensibile che consente di cogliere immediatamente il “significato”, ma non trascura la possibilità per il lettore di immettere i propri significati, il “significante” per l’appunto. Nel testo non c’è “ermetismo”, c’è realtà e chiarezza insieme al dolore soffuso e alle problematiche conflittuali. Il tutto è servito in una pregevole e delicata sintesi.
Una questione si pone: esistono uomini soli? La risposta è affermativa nel versante esistenziale e relazionale, nonostante l’assioma di Aristotele che vuole l’uomo “animale politico” e quindi necessariamente sociale, ma è negativa nel versante psichico perché l’uomo è sempre in collegamento con i suoi oggetti, pensieri e vissuti, prima che con i soggetti, i suoi consimili. Accettiamo l’accezione di solitudine evocata dagli abili autori Facchinetti e Negrini.   

“Li incontri dove la gente viaggia e va a telefonare”

Gli uomini girano e s’incontrano anonimamente in una stazione ferroviaria o tramviaria, alla fermata di un bus o dove erano ubicate le cabine telefoniche prima dell’era dei telefonini. La stazione, il tram, il treno conchiudono un “fantasma depressivo di perdita”, un simbolo di distacco affettivo e di profonda solitudine, mentre la cabina telefonica attesta di un bisogno di relazione e di comunicazione. L’esordio è soffusamente triste e lascia respirare l’aria pesante delle stazioni e l’anelito di un contatto gratificante.

“col dopobarba che sa di pioggia e la ventiquattro ore”

Il dopobarba è un simbolo maschile e, del resto, sono uomini prima di essere soli. Il profumo individua il genere e il tipo di persona, il dopobarba obsoleto di una qualsiasi marca comprato in un supermercato di periferia. Non è di certo il profumo dell’”uomo che non deve chiedere mai”, l’uomo per antonomasia o per iperbole, come recitava la pubblicità di un dopobarba negli anni ottanta. Questi sono uomini senza nome e senza identità, sono uomini soli. Pur tuttavia, sono uomini che hanno la “ventiquattrore”, la valigetta dal poco contenuto e dal tanto significato. Ogni contenitore evoca una simbologia psichica femminile. Sono uomini che non hanno una donna e la desiderano o che hanno una loro vulnerabilità e delicatezza, una loro debolezza e tenerezza. 

“perduti nel Corriere della Sera”

Il termine “perduti” è una “metonimia”, una figura retorica che attesta mirabilmente una relazione concettuale, “perduti” al posto di “immersi”, ma acquista una valenza pessimistica d’isolamento. La lettura del giornale è una passione funzionale alla solitudine, a non comunicare. Ognuno è solo con il suo giornale più o meno intelligente e impegnato. Il giornale rappresenta la ricerca fittizia e traslata di un contatto con il mondo degli uomini e con i loro fatti.

“nel va e vieni di una cameriera”

Sono uomini perduti veramente nella loro solitudine anche se si muovono in contesti affollati e dinamici. Il moto lavorativo della cameriera, “va e vieni”, viaggia per contrasto con la stasi interiore e lo stallo psichico dei nostri protagonisti. Il simbolismo del “va e vieni” è di qualità sessuale, così come la “cameriera” nell’Immaginario collettivo condensa l’oggetto di una seduzione e di una conquista facile: il “va e vieni” di una donna che è al servizio degli avventori e che si può conoscere con maggiore facilità.

“Ma perché ogni giorno viene sera?”

Dietro una verità astronomica, la sera dopo il dì, il buio dopo la luce, si nasconde il simbolismo della vita e della morte: “ma perché arriva sempre la morte dopo la vita.” La solitudine, del resto, è una variante della “morte in vita”. Si recupera il senso della poesia di Quasimodo: una variante di “trafitto da un raggio di sole ed è subito sera”.  

“A volte un uomo è da solo”

Comincia la gamma delle solitudini esistenziali, la serie dei conflitti intrapsichici e relazionali che porta inevitabilmente ai mancati investimenti di “libido”, a non essere generosi con se stessi e con gli altri, a una forma di “misantropia” che immancabilmente viene proiettata sull’altro: “è l’altro che non mi vuole e non mi accetta, non io che non mi coinvolgo e non investo i miei talenti psichici.” La solitudine si attesta nella prima infanzia e nell’attesa di essere scoperto dall’altro, dal papà e dalla mamma che non si accorgono di me. Trattasi di questione affettiva. Il bambino non sa farsi avanti e afferrare al volo quello che passa il convento e, di conseguenza, attende che il mondo degli adulti si apra verso di lui. L’origine della solitudine è nell’interiorità e si annida durante la prima infanzia quando si attende quel “deus ex machina” che non arriva o che non sappiamo cogliere e riconoscere. Spesso questa solitudine odora di povertà psichica: il bambino non riceve gli strumenti relazionali per investire la sua “libido”. 

“perché ha in testa strani tarli”

Inizia l’elenco della psicopatologia nella versione realistica e puntuale di una canzone, un prodotto culturale di grande valore alla luce della sua diffusione e del suo consenso. La solitudine nasce dalle ossessioni mentali, dai pensieri persecutori, dalle idee deliranti, dalle convinzioni fallaci e ricorrenti che impediscono il salto verso l’altro, gli investimenti sociali, la condivisione, l’estroversione. 

“perché ha paura del sesso”

La solitudine è collegata alla vita sessuale o meglio alla paura della propria dimensione vitalistica, pulsionale e affettiva. Le fobie sessuali maschili nascondono l’impotenza dell’uomo e la potenza della donna. La “paura del sesso” non consente d’investire “libido” e impedisce la maturazione psichica “genitale”, blocca la pulsione a relazionarsi con generosità. La “paura del sesso” blocca la “libido” alla “posizione fallico-narcisistica”, all’età solipsistica dello splendido isolamento. La mancata evoluzione psicofisica giustifica la misoginia, la misantropia e il conseguente isolamento. 

“o per la smania di successo”

Questa è la “posizione fallico-narcisistica” di cui si diceva prima. L’autoesaltazione non contempla la presenza dell’altro, si appaga di una tensione all’infinito verso un irraggiungibile ideale del proprio “Io”. Il “narcisismo” comporta l’amore verso se stesso a costo della vita. Si tratta di una pericolosa sindrome che traligna nell’angoscia depressiva di perdita. La ricerca del successo si attesta nell’individualismo e nella negazione di qualsiasi rete relazionale protettiva. La “smania” è un eccesso di “mania”, un tralignare di una pulsione “anale” in malattia, una delicata psicopatologia. Se la mania è un eccesso di vitalità, un vitalismo fine a se stesso, un movimento isterico dispersivo, la “smania” traligna nella prevaricazione e nella crudeltà.  
“per scrivere il romanzo che ha di dentro”

Tutti abbiamo una storia personale che ha formato la nostra “organizzazione reattiva”, il nostro carattere, la nostra personalità. Tutti abbiamo dentro una nostra storia sulla quale confabulare per allargarla in un romanzo, il capolavoro della nostra vita, ma un romanzo da non condividere almeno finché si è impegnati a scriverlo. Il romanzo dentro non viene fuori, resta dentro sotto forma d’introversione e di autocompiacimento. L’autogratificazione allevia la solitudine dello scrittore di se stesso. L’angoscia si sublima nell’attesa del riconoscimento e del trionfo. 

“perché la vita l'ha già messo al muro”

Il muro condensa un “fantasma di morte”, una fucilazione ingiusta ma risolutiva di uno stato d’angoscia che non trova sbocchi diversi dalla morte. La condanna è firmata dalla “Vita”, un’entità astratta ma massimamente concreta perché incarnata nel corpo e nella mente del nostro protagonista, “l’uomo solo”. Il verso richiama alcune tesi della “filosofia dell’esistenza” di Martin Heidegger: “l’esistenza banale e l’esistenza autentica”. Il rifiuto della prima e la vanificazione della ricerca della seconda spiegano la condanna a morte di quest’uomo che non è riuscito a risolvere le sue frustrazioni e le sue castrazioni. Il “fantasma di morte” è dominante in questo verso.   

“o perché in mondo falso è un uomo vero.”

La verità di se stesso in primo luogo, è costretto a contemplare la possibilità della falsità e dell’inganno. L’”uomo solo” s’imbatte nell’opposizione dialettica tra verità e falsità: “esistenza autentica” o “esistenza banale”. E’ facile difendersi dagli altri pensando di essere nel giusto, nel vero e nel bello. Ritorna il narcisismo e la convinzione che gli altri sono l‘ignoranza e l’ipocrisia.  

“Dio delle città e dell'immensità”

Ecco l’invocazione laica! Viene chiamato in causa il Dio degli uomini e il Dio dell’universo, il “Figlio” che ama l’umanità e il “Padre” che crea. Le “città” sono il simbolo delle relazioni umane, così come “l’immensità” rievoca il sentimento del “Sublime” dinamico di Kant. La teologia biblica e la filosofia illuministica sono richiamate in un’efficace e ardita combinazione sintetica. Tre semplici parole per tre concetti di vasta portata interagiscono sulla questione dell’umana solitudine: Dio, la città, l’immensità.       
“se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi”

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Si ricerca un Dio umano, Gesù Cristo, il Dio che si è fatto uomo per essere consapevole della condizione umana, per vivere sulla propria carne l’odissea dell’essere mortali, i vizi e le virtù del nascere in compagnia e del morir da soli. Si cerca un Dio reale che abbia una funzione per un uomo che anela la sua verità. Si cerca un Dio che sappia più dell’uomo, che abbia un bagaglio di conoscenze sulla natura e sull’evoluzione umane superiore alle esperienze vissute dagli uomini stessi. Quest’uomo è Gesù Cristo, un Dio che ha viaggiato come uomo e che conosce anche i misteri dell’universo. E’ impressionante come in una sintesi poderosa siano immessi note profonde di teologia cristiana secondo un laico sentire. Nulla di teologico e tanto meno clericale in questo verso così umano e in questo grido di aiuto! Seve un Dio a misura d’uomo per aiutare quest’ultimo a non cadere nelle spire malefiche della solitudine.              

“vediamo se si può imparare questa vita”

Non è la “vita” che insegna, è la “vita” che s’impara: l’educazione e la conoscenza sono salvifiche. Se la vita s’impara, ci vuole un padre e una madre, un maestro, la generosità del dare, la solidarietà del condividere. L’uomo è attivo nell’essere protagonista della sua vita, una vita tutta da imparare non certo da soli.

“e magari un po' cambiarla prima che ci cambi lei.”

Ecco il conflitto esistenziale: la vita siamo noi o la vita è altro da noi? La vita non è altro da noi e tanto meno s’identifica negli altri. L’uomo deve essere arbitro del proprio destino e deve amarsi amando quel destino che costruisce giorno dopo giorno: l’atavico “amor fati”. L’uomo deve essere protagonista del suo vivere e non deve alienarsi in niente che non sia se stesso, ma per far questo ha bisogno del suo simile. L’”altro da me” è condizione indispensabile per la “coscienza di sé”. La solitudine si lega alla mancata consapevolezza di questo umano “Credo”.

“Vediamo se si può farci amare come siamo”

E’ possibile farsi amare come siamo? Farsi amare in base al nostro essere uomini è possibile perché significa riconoscere di condividere la stessa natura e lo stesso progetto: il destino di uomini d’amare e che amano. Questo è il vissuto psicofisico della “simpatia”: “soffrire insieme”. Ma la natura dell’uomo è in perenne divenire. Lo stallo psichico è la malattia del vivere. L’amore non è un dono del cielo o dell’”altro da me”, l’amore è un “investimento di libido” evoluta in “genitale”, una “libido” che riconosce l’altro come condizione della sua evoluzione psichica e umana. “Come siamo” è una sintesi momentanea che cambia nel momento in cui la fermo in un’immagine, in una “coscienza di sé”. Il “come siamo” è un’utopia, una difesa dal cambiamento, la ratifica di un’impossibile immodificabilità e di una pretesa immobilità che tralignano immancabilmente nella solitudine.

“senza violentarsi più con nevrosi e gelosie”

Bisogna volersi bene! E’ questa la prima verità. Le “nevrosi” sono conflitti psichici che contraddistinguono l’uomo nella sua evoluzione, contrasti interiori che comportano dolore e struggimento oltre che conversione in sintomi psicosomatici. Le “gelosie” sono proiezioni sugli altri di pulsioni inappagate e di bisogni affettivi che si traducono in invidie e frustrazioni. La “violenza” è una prevaricazione su se stesso e sull’altro, un mancato riconoscimento dei diritti nostri e altrui, una negazione che trionfa nella solitudine. I mali dell’”uomo solo” sono competizioni con quell’altro uomo che non si riconosce e si nega per difesa, ma che si afferma con il proprio malessere e che degenera nel male di vivere.  

“perché questa vita stende”

Si profila una verità di base: la “vita stende”, una concezione pessimistica dell’uomo degna dell’”Esistenzialismo” più amaro degli anni cinquanta del secolo scorso. La vita non è degna di essere vissuta perché la vita è dolore e angoscia e perché assurdamente si conclude con la morte. Sembra di sentire Schopenhauer e Leopardi con le loro convinzioni pessimistiche sull’essenza del vivere e dell’uomo o addirittura sull’universo. Tanta filosofia si apre verso un ridimensionamento dell’angoscia e una risoluzione del dolore. “Stendere” significa colpire irrimediabilmente e senza possibilità di riscatto. Bisogna difendersi da questa “natura matrigna”. Tanto pessimismo sembra sfuggito dalla penna degli autori perché risulta esagerato rispetto alle tesi moderate precedenti.    

“e chi è steso dorme o muore oppure fa l'amore.”

E infatti abbiamo il recupero del tono e del significato. L’uomo “steso” ha diverse interpretazioni: “dorme”, “muore” o “fa l’amore”. L’uomo “steso” è inattivo o non è vivo o gode perché si vuole tanto bene. La varietà delle umane cose e la diversità delle umane convinzioni oscillano tra la solitudine e la comunione. “Stendere” è una parola con diversi significati che vanno dalla vita alla morte, da Eros a Thanatos. La soluzione migliore esige la vitalità e l’attività, l’investimento della “libido genitale” per non esser “uomini soli”, per esorcizzare e sublimare l’angoscia del vivere che contraddistingue l’uomo.    

“Ci sono uomini soli per la sete d'avventura”

Ritorna il catalogo delle patologie depressive, quelle che contemplano la solitudine come necessaria compagna di viaggio. La sete d’avventura o la “sindrome di Ulisse”, secondo Dante, consuma questi uomini arditi che non hanno posto e tempo per un’eventuale Penelope o per un eventuale Euriloco o Perimede. Ma è proprio vero che gli uomini che non vogliono “viver come bruti” ma vogliono seguir “virtute e canoscenza” sono soli e amano la solitudine? Assolutamente no! La curiosità si sposa con l’avventura e con il viaggio in compagnia. Pur tuttavia, ritorna il “narcisismo” del primo attore che si compiace in primo luogo del suo valore, della sua esigenza di novità e della sua fobia della monotonia. E’ importante che non subentri la “nostalgia” della sindrome di Ulisse, altrimenti sono guai.

“perché han studiato da prete”

La vocazione sacerdotale e la permanenza in seminario sono ostacoli alla socializzazione per la vergogna che avvolge questa esperienza formativa, stimata come un disvalore culturale o una debolezza psichica nell’Imaginario collettivo. Abbracciare un progetto religioso di vita, che poi si conclude nella delusione del fallimento, porta a espiare la colpa dell’incompiuta e la vergogna della scelta con l’isolamento e la solitudine. Formidabile è la sintesi popolare “han studiato da prete” e l’accezione negativa con cui il popolo la intende e la sottintende. In ogni caso questi “preti mancati” si isolano o forse si sono già isolati per la paura di coinvolgersi.

“o per vent'anni di galera”

Vent’anni di galera ti segnano nel cuore e nella mente, t’induriscono, ti abbrutiscono, ti umiliano fino al punto di portarti all’isolamento per rabbia e alla solitudine per vergogna. Ma soprattutto vent’anni di galera s’iscrivono in un corpo costretto al blocco delle proprie energie e al chiuso di un ambiente squallido. Chi ha sortito vent’anni di galera sul groppone, fatica a reinserirsi nella società e stenta a riadattarsi a schemi culturali di vita abbandonati per tanto tempo e caduti in disuso. 

“per madri che non li hanno mai svezzati”

Immancabilmente viene rimorchiato dalla Psicoanalisi di Freud il “complesso di Edipo”, una profonda verità psichica incarnata e vissuta da tutti quelli che nascono da padre e da madre, oltremodo aggravata nelle “culture matriarcali”. Le madri non liberano i figli e inducono dipendenza a vita con la loro seduzione ricattatrice e incestuosa. Questi uomini rimasti figli avvertono una costrizione interiore che li porta a non affidarsi a un’altra donna semplicemente perché non sono cresciuti a livello affettivo e relazionale e non hanno autonomia psichica, non hanno messo la loro mamma al posto giusto riconoscendola come “la madre”. Questi uomini sono “soli” e restano realmente “soli” dopo la morte della madre. Immancabilmente arriva la depressione a completare l’opera dal momento che non hanno concepito il senso della loro vita e non si sono ribellati alle spire seduttive degli affetti primari.

“per donne che li han rivoltati e persi”

Non poteva mancare in questo drammatico elenco di solitudini la donna manipolatrice e profittatrice, quella che li ha fatti innamorare e poi li ha abbandonati al loro destino di solitudine: la “parte negativa” del “fantasma della donna” per dirla secondo i dettami della “Psicoanalisi”. Si tratta di uomini che si sono lasciati “rivoltare” a causa della loro debolezza psichica e dei loro spasmodici bisogni affettivi non adeguatamente riconosciuti.

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Si tratta di donne perverse e affette della “sindrome delle Sirene”, degne eredi delle Streghe in versione erotica. In prima istanza questi uomini si sono smarriti dentro se stessi a traino di una madre possessiva, prima di perdersi tra le spire malefiche di una donna. Si sono fatti ammaliare per debolezza e hanno perso l’amore della donna per mancanza di personalità e di capacità affermativa. Sono uomini che hanno una soglia di frustrazione affettiva molto bassa e sono capaci anche di gesti estremi per risolvere definitivamente l’acerbo dolore che si portano dentro.

“o solo perché sono dei diversi.”

Siamo negli anni novanta e l’omosessualità, dopo la tolleranza, muove i primi passi verso il riconoscimento civile e giuridico. L’omofobia non è del tutto sconfitta e la società civile si apre verso la libera scelta dell’identità sessuale di ogni persona e verso l’accettazione dell’altro. “Diverso” è un termine brutto e negativo, sa di emarginazione e di condanna, ma si giustifica con il fatto che in quel periodo storico e culturale, gli anni ’90, l’omosessualità non era assimilata anche a livello politico. La “diversità” porta alla solitudine perché non si può comunicare ed esibire la propria identità sessuale o perché si vive male o perché porta a emarginazione. La solitudine depressiva resta la via regia per un’omosessualità nascosta e colpevolizzata. In effetti l’omosessualità anche a livello clinico psichiatrico è passata dal grado di perversione a quello di malattia, per poi approdare alla più umana definizione di formazione psichica e di libera scelta di vita.     

“Dio delle città e dell'immensità se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi vediamo se si può imparare questi dogmi”

Ritorna il grido di rabbia o l’invocazione gridata verso il Padre e verso il Figlio, il creatore dell’universo e dell’uomo e il redentore dell’uomo dal peccato originale. Il dubbio sulla loro esistenza è funzionale al bisogno di un loro intervento a favore di una soluzione della solitudine dell’uomo e del destino drammatico della vita umana. L’esperienza è sapienza del viaggio umano, ma non basta perché è necessaria l’attenuazione della drasticità dei “dogmi” religiosi. Bisogna ridurre alla conoscenza e all’azione dell’uomo il rigore e la colpa. Il dogma è una verità di fede e non di ragione, impone una legge e un comportamento non passibile di spiegazione logica. Il dogma è una verità di fede che condiziona i modi di pensare e di vivere di ogni credente. “Imparare” significa, per l’appunto, acquistare, assimilare, far propri, introiettare i dettami della Fede senza alcuna mediazione logica. Si tratta d’imperativi categorici non giustificati alla Kant con l’essenza razionale dell’uomo, ma con l’essere figli di Dio. La drasticità del dogma aiuta il conflitto psichico che porta alla solitudine.      

“e cambiare un po' per loro e cambiarne un po' per noi”.

La soluzione del conflitto sta nella via di mezzo come la virtù umana e non si attesta nell’eccesso o nel difetto: “in medio stat virtus”, l’uomo va verso il dogma e il dogma va verso l’uomo. Il primo è consapevole dell’importanza dei valori religiosi e il secondo si adatta alle esigenze dell’uomo in modo speciale alla sua umanità. “Cambiare” ha un’etimologia commerciale, indica lo scambio di una merce tra un compratore e un acquirente ed è esatto nel nostro caso perché attesta del dare e dell’avere, impone di trovare un equilibrio logico e un’osmosi psicofisica.

L’uomo ha bisogno di “Dio” e della sua “Legge”, ma di un “Padre” e di una “Norma” a misura d’uomo, una “Legge” per gli uomini e per i tempi degli uomini. La storia indica i superamenti da fare per rendere la vita umana amabile e l’uomo non “solo”. 

“Ma Dio delle città e dell'immensità magari tu ci sei e problemi non ne hai”

Alla solita invocazione alta e nobile, gridata in armonia da Roby Facchinetti, segue il dubbio giusto e giustificato verso un “Dio” invisibile e onnipotente, un “Dio” che non si manifesta e che può tutto, un “Dio” che “problemi non ne” ha, problemi umani logicamente perché al concetto di divino non si associano le miserie umane. “Dio” è misericordia, “cuore compassionevole” come giustamente sostiene il Pontefice romano. Eppure la teologia tramanda il problema fondamentale di “Dio Padre”: salvare il seme di Adamo mandando il “Figlio”. Dovunque ci giriamo, troviamo sempre tanto, quasi un “troppo tanto”, di umano. Al di là delle teologie elaborate da un uomo mistico, l’uomo concreto resta solo.  

“ma quaggiù non siamo in cielo”

“Quaggiù” è simbolo della terra, della materia, del Male, della colpa, della punizione, dell’inferiorità, della dimensione psichica crepuscolare. Il “cielo” è simbolo di Dio padre, del Bene, della “sublimazione della libido”, dell’assoluzione della colpa, dello spirito, della bellezza. L’opposizione tra il “quaggiù e il “cielo” aggrava il compito esistenziale dell’uomo manifestando in maniera inequivocabile la fallacia dell’umana natura. L’uomo è materia vivente intrisa di Male e tendente al Bene.  

“e se un uomo perde il filo”

Il “filo” è quello logico esistenziale, la ragione del suo vivere. E se un uomo cade in depressione e si uccide? E se non trova il bandolo della matassa della sua vita, cosa succede? “Perdere il filo” equivale a smarrirsi dentro se stesso nelle mille emozioni e nelle mille angosce collegate all’assenza di senso e di significato, un tragico “nulla” umano. 

“è soltanto un uomo solo.”

La conclusione è in linea perfetta con il titolo del testo, “uomini soli”. La solitudine si associa alla perdita del “filo” logico dell’esistenza e non collima con l’amorosa cura del proprio destino e con le giuste motivazioni per continuare a vivere. Un “uomo solo” è metallico, senza emozioni e senza radici. Un “uomo solo” ha staccato la spina affettiva ed è pronto a staccare la spina biologica.

Questa è la decodificazione di un prodotto psico-culturale d’ispirazione neorealistica, una canzone che non è una semplice canzone.
Adesso non resta che riascoltarla.

 

 

Articolo a cura del Dottor Salvatore Vallone

 


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Tags: solitudine canzoni analisi psicodinamica

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