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Contemporaneamente - Luci ed ombre del Millennio

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Il migrante che sta al mio confine

Il migrante che sta al mio confineAgosto merita un articolo estivo, uno scritto assolato da leggere sotto l’ombrellone, all’ombra di un albero sopra una collina, oppure, se siete rimasti in città, da far scorrere sul vostro telefonino mentre gustate un caffè freddo al baretto nella piazza a Roma, Milano, Torino o … in qualunque “metropoli” semideserta. 

In questo momento io vi penso e vi scrivo seduta in un bel giardino; me ne sto a guardare i villeggianti che passeggiano sul lungomare di Ventimiglia, al confine tra l’Italia e la Francia.

A qualche centinaio di metri da me, sotto il ponte della ferrovia, sostano ancora decine e decine di migranti, e sono quasi tutti uomini in attesa del buio che è forse il momento migliore della giornata, l’oscurità amica che permetterà a qualcuno di loro - forse, ma forse no - di passare oltre il limite, di aggirare i controlli della polizia di frontiera transitando velocemente lungo le rotaie prima che passi il treno, o correndo come il fulmine per attraversare l’autostrada prima di incrociare nella stessa corsia, nello stesso momento, la vettura della famiglia X o Y - perché l’automobile, gonfia di bagagli e voglia di vacanza, sta arrivando a destinazione.

La notte giunge lentamente dopo che il sole va calando a Ovest, ed è proprio laggiù, dietro la collina, verso il sito archeologico dei Balzi Rossi, che i migranti vorrebbero andare. Costretti a rimanere in Italia e a rimandare la realizzazione del desiderio di un futuro degno di essere presente, fremono qui, mescolandosi alla stessa popolazione che freme, e tutta una città di confine si riconosce nella stessa tensione.

C'è chi aiuta i migranti tramite la Caritas; ci sono i vecchi che giocano a bocce al parco di fronte ai gruppetti di stranieri; c'è chi ignora o nomina il “problema” con lo stesso tono di chi non vede “soluzioni”; c'è chi sbuffa in faccia ai giovani sdraiati sulle aiuole di fronte alla stazione; c'è chi si preoccupa perché c'è un’ordinanza del sindaco che impedisce ai comuni cittadini di portare cibo a questi uomini e c'è il sindaco che intende sgomberare l’area di bivacco e concentrare gli aiuti nel centro del Parco Roja; ci sono le forze dell'ordine sempre all’erta; c'è chi...

Ventimiglia è attualmente uno dei punti caldi della questione “umani in transito”, ovvero il passaggio di vite e ideali verso un presente e un domani che in molti sperano migliore del passato africano, ma che per la maggior parte di coloro che si mettono in cammino si rivelerà deludente, mostrerà l’ostacolo, lo scoglio, il blocco, la frontiera insuperabile.

Le interviste agli uomini che fino a oggi han dormito tra le anatre e i topi sopra logore coperte in riva al fiume, tra le sterpaglie del quartiere Gianchette (che i titoli dei giornali stamattina indicano come zona da evacuare), narrano la storia di un obiettivo luminoso che non si spegne nemmeno di fronte alle difficoltà evidenti, all’impedimento (tenace, ruvido, duro, definitivo o meno).

Se i francesi non gradiscono nuovi ingressi, la maggior parte dei richiedenti asilo presenti qui sul confine non mira comunque a restare con noi, non brama la nostra Italia come patria in cui mettere radici.

Gli uomini (e le donne con minori) attualmente ospiti a Ventimiglia sono costretti a sostare sulla linea, on the border, ed è una linea che, come in una battaglia di tiro alla fune, si tende sempre di più. Una buona parte della popolazione si dà da fare, aiuta come può; altre persone se la prendono con i migranti, come se questi fossero la causa del disagio collettivo e non un mero strumento di politiche incancrenite non idonee al benessere dello Stato. E chi può dire se siano dinamiche curabili o non curabili, quando l’idea renziana dell’aiutare “a casa loro” - ipotizzando che l’aiuto sia reale - richiederebbe tali e tanti cambiamenti in e per noi tutti, noi che di certo non siamo persone “a impatto zero”, da non essere oggettivamente realizzabili.

E allora, che cosa si può fare, considerando che no, non possiamo accogliere in Italia da qui all’eternità migliaia di persone senza ricevere sostegno dai nostri vicini europei, e che no, non siamo ancora in grado di organizzarci al meglio sul lungo termine, a giudicare dalla corsa al guadagno facile messa in atto in tempi non remoti da cooperative improvvisate e alberghi che magicamente si sono trasformati in case di accoglienza (molte delle quali adatte soltanto a offrire cibo e un tetto).

Nei primi anni dopo il 2000 presso la scuola di specializzazione della COIRAG ho avuto la fortuna di sperimentare per la prima volta il sociodramma. Che cos'è il sociodramma? Nato dalla creatività quasi illimitata di Jacob Levy Moreno, lo stesso padre dello psicodramma, questo strumento fa sì che sulla scena prendano vita le dinamiche di una comunità di persone, grande o piccola che sia, con i ruoli sociali che le caratterizzano, e non solo fatti personali o di coppia come avviene nello psicodramma. Si tratta di un metodo utile in caso di tensione all’interno di un gruppo, o di più gruppi sociali, magari per elaborare conflitti nodali di un gruppo o eventi traumatici che coinvolgono più persone (oggi penso anche agli incendi del Sud Italia, argomento caldo in questa estate 2017, già accennato nel mio ultimo articolo).

Il focus sul gruppo è la chiave di accesso alla possibilità di avvicinare le persone tra loro. Non mi spingo fino ad affermare che il lavoro di gruppo potrebbe essere la soluzione, la formazione civica, anche nel momento in cui la tensione sta a tratti diventando ingestibile, però sono certa che se lavorassimo in tanti, in più luoghi d’Italia, su questo tema e con questa risorsa, accenderemmo numerosi barlumi di coscienza. Tengo al caldo questo pensiero e me lo covo, contattando alcuni colleghi per riflettere insieme.

Penso anche all’esperienza che da tempo coinvolge Maurizio Gasseau e Leandra Perrotta, ovvero al loro lavoro con il metodo del sociodramma in situazioni di guerra - “Imagine giving Peace a hand”/dal 2005 la FEPTO ha creato una “Task Force for Peace and Conflict Resolution”, mettendo, ad esempio, in relazione gli opposti per andare a creare pace nel conflitto tra israeliani e palestinesi
https://www.fepto.com/wp-content/uploads/Task-force-report-for-Lisbon.pdf

Il tema “migranti” (nel mio caso oggi dico “migranti al confine”) richiede un’osservazione il più possibile completa, da più punti di vista, attraverso gli occhi di più “ruoli collettivi”. I protagonisti sono tanti, se immaginiamo un ipotetico momento in cui prendano posizione gli attori in scena.

Ci sono i migranti - quelli che partono dal loro paese e sperano di poter sopravvivere, ma anche di vivere meglio; quelli che non vogliono sostare sul nostro territorio e quelli che invece abitano da tempo con noi; ci sono quelli che arrivano sui barconi giorno dopo giorno e finiscono nelle mani di chi li accoglie o di chi li sfrutta, come le ragazzine nel racket della prostituzione e i ragazzi chiamati nei giri dello spaccio; ci sono quelli che frequentano la scuola con i nostri figli, quelli che…

Ci sono i politici italiani e quelli che dall’Europa del Nord mostrano i muscoli o le terga per decidere sulla pelle delle persone quale paese europeo conti di più e che cosa sia l’Europa.

Ci sono anche le multinazionali dello sfruttamento, i detentori del potere con le loro dinamiche abusanti, quelli che dall’occidente - e dalla stessa Africa - vampirizzano la terra e le genti che arrivano qui come migranti.

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Ci sono le navi delle ONG, con tutti i lati oscuri emersi in questi ultimi giorni e settimane. Ci sono organizzazioni umanitarie di ogni genere, cooperative che si occupano di stranieri, e scuole nelle quali l’italiano è oggi tra le lingue della speranza; ci sono le case famiglia - quelle degne e quelle indegne di chiamarsi tali.

Ci sono le mafie di ogni tipo, ed è un ruolo confuso con gli altri.

Ci sono gli abitanti dei paesini italiani, i contadini e i commercianti, i giovani e i vecchi che in sempre più numerosi luoghi della penisola vedono arrivare gruppi di persone a coabitare con loro forzatamente, in un connubio di identità che non è scontato ma che deve essere costruito, perché l’inclusione non è mica una questione di soldi o di mere belle parole e intenzioni.

Ci sono i cittadini, quelli di città come Roma, Milano, Torino… metropoli dove sempre più diventa necessario un pensiero multietnico capace di mettere ogni giorno in pista domande aperte sul senso dell’essere umani. Penso alle molte iniziative di San Salvario, un quartiere noto a Torino per la sua reale possibilità di essere quartiere multietnico, ai luoghi di incontro sul territorio (casa del quartiere, piazza, mercato).

Ci sono gli abitanti dei luoghi di confine, come qui a Ventimiglia: differente ancora è la situazione di chi abita e coabita con il continuo spostamento di persone, con il transito senza fine e con la costrizione.

Le forze dell’ordine, non dimentichiamole, coinvolte a pieno ritmo su questo argomento nelle zone calde d’italia.

E poi, tra gli altri, vedo muoversi sul palco gli utenti dei Social network, alcuni sono gli stessi abitanti dei paesi, delle città, del confine, altri sono ignari di quel che il vicino vive, perché nonostante i media aprano lo sguardo di tutto su tutto, nelle polarizzazioni che da tempo permeano i Social sul tema, si percepisce una mancanza di chiarezza e di ascolto del punto di vista altrui.

Mentre raccolgo le mie cose, penne, libri, per andare via dal giardino che mi ha ospitata accogliendo anche le mie riflessioni mi coglie un ultimo pensiero, ed è un pensiero che diventa “status” nei miei profili Social. Sì, è vero. È vero. Ci sono tante persone ignoranti che se la prendono con i migranti, come se questi fossero la causa del disagio che l'Italia sta vivendo nel periodo storico attuale. Persone che non vedono come le politiche di sfruttamento abbiano creato e nutrito questo stesso disagio. È più facile prendersela con l'uomo nero che con la nostra incapacità di far fronte alla situazione.

Il nostro compito, allora, il compito di scrittori, psicologi, filosofi, pensatori con barlumi di coscienza vari, non è quello di sbeffeggiare la fascia del popolo senza neuroni che, stanco e impaurito, se la prende con "mamma lì turchi", bensì quello - io insisto - di cercare di offrire con parole, opere e missioni (non omissioni) - sociodramma, gruppi di studio, incontri - una serie di stimoli alla produzione di sinapsi.

Buon proseguimento. Ci vediamo a settembre.

 

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