Xenofobia
Il significato etimologico del termine Xenofobia (dal greco ξενοφοβία, composto da ξένος, ‘estraneo, insolito’, e φόβος, ‘paura’) è “paura dell’estraneo” o anche “paura dell’insolito”.
Il vocabolario della lingua italiana “Treccani” lo definisce come il “sentimento di avversione generica per gli stranieri e per ciò che è straniero che si manifesta in atteggiamenti e azioni di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi”.
Collegando l’etimologia con la definizione della parola, si può sostenere che il suo tratto distintivo è il sentimento di avversione, il quale è l’evidente manifestazione di un altro sentimento che lo anticipa, la paura: si è xenofobi perché si ha paura dell’estraneo o, più in generale, di ciò che è insolito.
Il sintomo più classico è, di conseguenza, l'evitamento: gli xenofobici arrivano ad evitare tutti i luoghi nei quali sanno che potranno incontrare gli stranieri. Se, viceversa, questo accade, può comparire un forte disagio ed uno stato d'ansia crescente. Nei soggetti predisposti all'aggressività, però, questo atteggiamento non si ferma all'ansia, ma sfocia in episodi di discriminazione e, a volte, di violenza.
I fattori di rischio più comuni per l’insorgenza di tale fenomeno sono:
- Un substrato familiare e culturale, in cui il soggetto si è trovato a vivere e ad apprendere tali condotte;
- Eventi traumatici passati, che riguardavano, in qualche modo, le persone considerate diverse.
- Predisposizione naturale agli stati ansiosi.
In generale, non esiste una terapia specifica. Se gli episodi di intolleranza, nei confronti di persone considerate estranee e pericolose, diventano frequenti ed invalidanti, oppure sfociano in atti violenti, allora è necessario ricorrere ad uno specialista. In questi casi può essere d'aiuto un ciclo di psicoterapia cognitivo-comportamentale, che preveda un percorso terapeutico di accettazione dell'altro diverso da sé.
Gli psicologi hanno dedicato molti studi alla reazione di rifiuto dello straniero da parte di chi fa parte di un gruppo, formulando varie ipotesi.
Freud, in primis, collega lo spirito di gruppo e l'avversione per lo straniero all'ostilità, generata da un sentimento di minaccia e di abbandono, con cui il bambino accoglie i fratelli che sembrano sottrargli l'affetto e le cure dei genitori (“crisi dell’ottavo mese”). Questo sentimento scomodo e penoso può essere sostituito solo con un forte investimento in una diversa direzione, cioè attraverso l'identificazione con altri bambini non appartenenti alla famiglia, che, negli anni successivi, si consolida con l'appartenenza ad un gruppo di pari. La reazione di fronte agli estranei al gruppo di pari dipenderebbe, allora, dal superamento di questa crisi e dalle modalità di risoluzione del processo di individuazione-separazione dalla figura primaria (la madre).
La ricerca psicodinamica, da Freud in poi, ha svelato come l’oggetto fobico (ciò che fa paura) sia deprivato delle sue caratteristiche di realtà, in seguito ad un’intensa ed articolata attività intrapsichica, per mezzo della quale il fobico ha trasferito su di esso elementi altri, che ne giustificano la paura e la conseguente reazione. Sullo straniero, poiché oggetto fobico, è trasferito, quindi, il mondo interno di ogni individuo/gruppo/comunità. Il gruppo svolge, allora, una funzione terapeutica per i suoi membri: facendosi carico della loro ansia, li libera parzialmente da essa e, nello stesso tempo, accogliendo il tema persecutorio, li farà sentire in grado di affrontare ciò che fa paura in certi momenti ed occasioni. Quindi, esso permette a ciascun membro di rispondere all’ansia generata dall’oggetto fobico, non paralizzandosi, né fuggendo, ma attaccandolo.
Bibliografia:
- Basaglia Ongaro, F., Esclusione/Integrazione, in Enciclopedia Einaudi, vol. V, Torino.
- Enciclopedia Treccani.
- Freud, S., Psicologia delle masse e analisi dell'Io, Torino 1977.
- Maldonato M., Dizionario di Scienze Psicologiche, Edizioni Simone.
- Rivista di Psicologia Clinica, n.3, 2008.
(A cura della dottoressa Alice Fusella)
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