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Articolo 23 - il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentato

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Su Psiconline.it prosegue, a cura di Catello Parmentola e di Elena Leardini, con l'art.23 (compenso professionale) il commento settimanale che spiega ed approfondisce gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani

Articolo 23 il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentatoArticolo 23

Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso professionale.

In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera.

In ambito clinico tale compenso non può essere condizionato all’esito o ai risultati dell’intervento professionale.

Anche questo articolo è estremamente bello e complesso.

Sembrerebbe riguardare solo aspetti ‘prosaici’ di compenso economico ed invece è tra gli articoli più ‘puntutamente’ epistemologici.

Come tanti altri articoli, è stato esteso partendo da una misura epistemologica, passando poi da quella clinica e giuridica e finendo in un assetto tecnico-formale.

Proprio questo tipo di viaggio spiegava la composizione della Commissione che estese il Codice e le quattro ‘competenze prevalenti’ richieste.

Questo articolo, che attualmente ha un buon equilibrio, è stato attraversato dai venti tempestosi delle modifiche indotte dal Decreto Bersani.

Un ingiustificato senso di urgenza ne determinò compulse e frettolose trasfigurazioni, approvate in una rumorosa assemblea plenaria.

Ciononostante, ci ritroviamo oggi a commentare un buon articolo, intensamente epistemologico, aspetto non coglibile da chiunque si lasci ingarbugliare solo da meri aspetti tariffari.

Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso professionale.

Questo comma è organicamente prefigurato all’interno della logica di un Consenso Informato.

Il paziente deve essere tranquillo su questo punto per potere prevedere un suo affidamento nel tempo.

Disordinati assoggettamenti del compenso ad incoerenti variabili potrebbero essere un problema per il paziente e disturbare-distrarre-stressare la sua adesione terapeutica al setting.

Ciò non sarebbe conciliabile con quell’atmosfera che deve informare un contesto psicologico.

Ma, soprattutto, ogni aspetto formale va sempre definito in premessa al processo terapeutico per un altro motivo.

‘La forma’ convoca nella relazione strutture e strumenti personologici diversi e incoerenti rispetto a quelli che convoca ‘il processo’.

Per questo è fondamentale che stiano distinti in fasi diverse del rapporto.

Tutto quello che –di formale- non è chiarito nella fase iniziale, torna nelle fasi successive –in forma di equivoco- a disturbare il processo.

Ma il terapeuta non può entrare ed uscire dal processo, che si sostanzia di un certo tipo di funzionali atmosfere e toni relazionali, per mettersi a chiarire equivoci formali.

Questo entrare ed uscire dal processo andrebbe a scapito dello stesso e delle sue funzioni e scopi.

Per questo è importante che la forma, piccola o grande che sia, venga svolta sempre, una vola e per tutte, prima del processo.

Il processo terapeutico è fatto solo ‘di relazione profonda’, si sostanzia di se stesso e non sopporta alcuna contaminazione.

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Abbiamo voluto spiegare questo comma per farlo meglio abitare dall’esercizio professionale.

Ma esso è comunque pregiudizialmente già detto e vincolato giuridicamente da Norme correnti quali quelle sul Consenso Informato, ma anche da quella recente sull’Obbligo di Preventivo che specifica molto a riguardo.

Al netto di una previsione che, nel caso della professione psicologica, resta un po’ più complessa rispetto ad altre professioni a transazione più ‘materiale’.

In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera.

Qui non sono solo in gioco, come sarebbe nel caso di altri tipi di professione, aspetti normativi legati a tariffari o aspetti professionali e culturali legati alla dignità e al valore della prestazione.

Anche.

Ma sono in gioco anche aspetti clinici.

Un soggetto ha bisogno del terapeuta per essere aiutato ad avvicinare nuclei di sé che è stato -fino ad allora- troppo difficile avvicinare.

Il soggetto è pieno di resistenze e difese a riguardo. Sono in gioco cose importanti e profonde, le più importanti e profonde.

Se il compenso non fosse adeguato, ad ogni passaggio difficile della relazione clinica, le resistenze e le difese inconsce del paziente gli farebbero far tardi o saltare le sedute.

Perché il costo rimesso per le sedute sarebbe inferiore al costo di quel dato passaggio difficile della relazione clinica.

Un compenso adeguato invece vincola di più, media adesione al setting.

E, per lo stesso motivo, che si ritiene clinicamente, prima che economicamente, importante che siano riscosse anche le sedute saltate senza congruo preavviso: ‘evitare’ le sedute deve ‘costare’ perché non si può facilitare ‘l’inconscio difendersene’ ogni volta che ci si sente vicini ad un proprio nucleo difficile da affrontare.

C’è poi anche un motivo culturale.

La professione psicologica è relativamente nuova. Non tutti ne hanno chiaro l’Oggetto. Ha come strumento fondamentale dimensioni non tangibili come la parola, le emozioni, i sentimenti. È facilmente equivocabile in ‘quattro chiacchiere’, ‘un consiglio al volo’, ‘un po’ di compagnia’: più il compenso è adeguato, più si dipanano gli equivoci. Si comprende di più che si tratta di una prestazione molto professionale, che richiede specifiche e coerenti competenze e prevede significative esposizioni di responsabilità: dunque ha un grande valore assegnato, anche in termini di compenso.

In ambito clinico tale compenso non può essere condizionato all’esito o ai risultati dell’intervento professionale, perché l’esito non è correlato in modo stringente solo alla qualità dell’innesco professionale.

La terapia si fa in due, assieme terapeuta e paziente: il terapeuta ascolta e rispetta i tempi e i modi del paziente, resistenze e difese.

L’esito è l’esito di troppe cose in gioco, non ci dice solo del merito del dottore e di quanto il dottore ‘meriti’.

Ci sono contesti ed eventi di vita, l’atteggiamento e la funzionalità terapeutica del paziente, il ‘di quanto tempo ha bisogno’ e il ‘fin dove può arrivare’, quale e quanto esito può sostenere: è una complessità non riducibile.

Ed inoltre è insondabile l’esito e il cosa si intende per esito.

C’è una domanda del paziente, spesso non esplicitata ma fantasmatizzata.

Un problema ‘designato’ che quasi sempre maschera il problema reale.

Poi c’è la lettura del terapeuta sui suoi paradigmi clinici, riguardo a quello che ci sarebbe da affrontare e a quello che si potrebbe ottenere.

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La relazione terapeutica sostanza sempre ‘un progredire’, è tutta sempre informata di ‘esito’.

Ma l’esito è processuale, non ha una misura formale, non può essere un risultato misurabile cui proporzionare un compenso.

Quando si tratta di soggettività e di vita, sono troppe le dimensioni possibili di uno stare meglio per potere oggettivare l’esito, il compimento del percorso.

Non ci sarebbe neanche mai un finale di partita perché resta sempre un nucleo non elaborabile (la morte), però si può star meglio per la riduzione di un sintomo o per un maggiore equilibrio intervenuto, per una maggiore consapevolezza o per una maggiore funzionalità, per l’elaborazione di un nucleo conflittuale, per la risoluzione di un problema, per la liberazione di un accesso, per una più focalizzata identificazione, per una vita più onesta con se stessa, perché ci si sente più felici…

L’esito può essere in così tanti diversi luoghi di noi che spesso prende corpo dove non lo cerchiamo e sfugge ad un primo sguardo ‘formale’.

I medici hanno una norma e un discostamento dalla norma da ridurre, i medici possono riscontrare in centimetri la riduzione di una dermatite a seguito dell’applicazione fisica di una pomata.

Gli psicologi hanno come Oggetto la soggettività irripetibile, l’infinita possibilità di mondi che ogni soggettività può prospettare, hanno quindi una diversa epistemologia di riferimento e paradigmi di scientificità con riferimenti diversi.

Andamento clinico ed esito clinico non potranno mai ridursi a dato oggettivo e misurabile e la complessità dei fattori in gioco in una relazione clinica non consentirà mai di ridurre l’esito a mero effetto di una mera e univoca causa, l’innesco professionale da premiare o svalutare.

 

Settimana dopo settimana prosegue il nostro commento di tutti gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. L'appuntamento è per la prossima settimana con il commento all'Articolo 24. Non mancate.

In questa pagina trovate tutti i commenti finora pubblicati!

(a cura del Dottor Catello Parmentola e dell'Avvocato Elena Leardini)

 

 

 


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Tags: psicologia codice deontologico catello parmentola elena leardini Codice Deontologico degli Psicologi Italiani articolo 23

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