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Articolo 29 - il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentato

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Prosegue su Psiconline.it, con il commento all'art.29 (uso presidi), il lavoro a cura di Catello Parmentola e di Elena Leardini che settimana dopo settimana spiega ed approfondisce gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani

Articolo 29 il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani commentato.fwArticolo 29

Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di determinati presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale.

Molti articoli da adesso in poi saranno molto essenziali poiché riprendono un singolo punto di articolati già precedentemente commentati.

Anche il commento quindi trae le fila da riflessioni già svolte, ma intende soffermarsi su un aspetto particolare: come è valso per altri articoli, le norme deontologiche possono apparire a prima vista in contrasto con alcuni principi fondamentali dell'ordinamento giuridico vigente.

Possiamo ricordare, brevemente e a tal proposito, gli articoli riferiti all'obbligo al segreto professionale (artt. 11 e ss. CD). Essi assoggettano tale obbligo ad alcune ipotesi di giusta causa di deroga attinte dal sistema giuridico vigente e sancite da norme di rango superiore. Ci riferiamo ai doveri di denuncia, di referto, di testimonianza in sede giudiziale; istituti che, in quanto espressamente richiamati, devono essere altresì applicati correttamente nella loro interezza. E, quindi, potrebbe a prima vista apparire un formale contrasto tra il dovere di ‘non nascondere nulla di quanto è’ di propria conoscenza che incombe sul testimone ex art. 372 CP e le previsioni deontologiche che non solo riconoscono, ma anzi impongono, allo psicologo di limitarsi a riferire quanto strettamente necessario e, in ogni caso, di considerare sempre preminente la tutela psicologica del destinatario della prestazione. Una simile difformità tra profilo penale e norma professionale costituisce un punto di ricaduta a livello deontologico spiegabile e comprensibile solo all’interno di una cornice epistemologica.

Partiamo proprio da quest’ultima.

Lo psicologo deve avere una sagomatura identitaria molto informata di etica attiva e diversa da altre figure professionali perché lo richiede concretamente il proprio tipo di esercizio professionale.

Il Codice deontologico non si pone contro il precetto normativo, ma – quando correttamente interpretati entrambi - lo arricchisce di significati corretti, in quanto declinati alla luce della migliore regola professionale.

In tema di segreto professionale, ad esempio, esistono una serie di specificità - che qui ci limiteremo appena ad accennare, quali la sostanziale differenza tra vissuti e accadimenti reali, o tra verità terapeutiche e verità storiche – che lo psicologo deve ben conoscere e che non possono che suggerire al professionista una prudente valutazione laddove egli debba distinguere tra le une e le altre.

E se scopo della norma ordinaria è quello di garantire al processo e al Giudice un'informazione corretta che consenta di giungere ad una reale, equa, efficace amministrazione della giustizia, spicca per coerenza logica, prima ancora che giuridica, la previsione deontologica che impone allo psicologo di astenersi dal riferire tutto e indiscriminatamente ciò che egli, in buona sostanza, crede di sapere.

Tornando all'argomento corrente, l'articolo 29 C.D. e la stessa epistemologia professionale di riferimento non consentono allo psicologo di commercializzarsi sul sintomo o sulla malattia in quanto la psicologia ha un Oggetto più ampio e complesso: il Soggetto riferito ai Contesti di Relazione, con i suoi Disagi riferiti ai loro Punti Generativi e al Prima, alla Storia Personale.

Ma lo psicologo non può commercializzarsi anche per un altro motivo: la relazione clinica dello psicologo e dello psicoterapeuta è un’esperienza non facile per il paziente per tanti diversi motivi.

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Per svolgersi è indispensabile un’adesione molto intensa, una motivazione molto forte, spesso corroborata da una radicalizzazione del Disagio.

Il costo della terapia deve essere inferiore al costo di non farla: il paziente deve partire da un suo ‘bisogno’ del Curante.

Se lo psicologo si definisse sul sintomo-malattia, si facesse identificare dal sintomo-malattia, se ne facesse commercializzare, ne conseguirebbero radicali trasfigurazioni identitarie.

Da un lato, non potrebbe più coerentemente militare nella prevenzione, sulle cause, impegnarsi intellettualmente e culturalmente in una riflessione sulla società ammalante, smarrirebbe quindi il suo Oggetto complesso.

Per il semplice motivo che sarebbe costretto a militare in senso opposto: avrebbe bisogno della malattia perché la malattia sarebbe il suo sostentamento economico.

Il Curante avrebbe quindi bisogno del paziente, anziché il paziente bisogno del Curante.

La relazione clinica sarebbe corrotta da questo capovolgimento, vedendone ridisegnati tutti i paradigmi e le coordinate, le premesse, l’azione e gli obiettivi.

Ecco perché lo psicologo non può permettersi uno slittamento commerciale verso il modello ‘medico della psiche’.

Come in parte già avvenuto in altri contesti, la Psicologia finirebbe per diventare ‘un business sulla malattia’, degenerare in lobby e sviluppare un interesse alla proliferazione della malattia.

Tutte le premesse epistemologiche verrebbero trasfigurate.

Lo psicologo non potrebbe più fare lo psicologo in questi nuovi, trasfigurati termini poiché ‘i propri termini’ sostanziano la sua identità giustificandone l’esistenza e dettano il suo esercizio professionale che è concretamente fatto di una sostanza epistemologica che è tutt’uno con la forma della propria clinica.

In questa cornice epistemologica è chiaro perché Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di determinati presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale.

Perché, in assenza di fondati motivi di natura scientifico-professionale, quali potrebbero essere altri motivi, se non motivi prosaici, di interessi prosaici, in una logica di comparaggi e transazioni opache sulla pelle del paziente?

Per questo, l’art. 29 allerta una vigilanza deontologica, partendo da un sotteso epistemologico e prefigurando profili giudiziari.

Per questo abbiamo svolto una lunga premessa sulle degenerazioni commercialistiche, sul business della malattia da cui inevitabilmente ricadrebbero tante tentazioni organizzative riguardo al proprio esercizio, compresi gli accordi di comparaggio e di mutuo reciproco scambio di favori e di pacchetti clienti tra professionista ed altri soggetti.

Un altro delicato passaggio della norma deontologica che potrebbe apparire addirittura in aperto contrasto con gli stessi principi costituzionali e, in particolare, con il diritto fondamentale alla libertà di scelta di cura, è rappresentato dalla possibilità che lo psicologo subordini il proprio intervento a condizioni, così di fatto esercitando una qualche forma di limitazione dell'autodeterminazione del paziente.

Ebbene, una corretta interpretazione della norma, svolta alla luce della corretta regola professionale, non può non tenere conto di quei fondati motivi di natura scientifico-professionale che giustificano la condizione che il paziente si serva di determinati presidi, istituti o luoghi di cura.

Il più ricorrente è costituito dal presidio farmacologico.

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Accade che un paziente non sia nelle condizioni di utilizzare congruamente la relazione psicologica o psicoterapeutica e trarne beneficio perché troppo scompensato dai sintomi. 

Sarebbe poco deontologico, nonché una perdita di tempo e denaro, attivare comunque un intervento professionale palesemente inutile col paziente in tale condizione di scompenso.

È doveroso, quindi, prospettare la possibilità dell’intervento solo a condizione che il paziente si serva pregiudizialmente di adeguati presidi farmacologici.

E il Principio è onorato laddove, ancor prima che un'astratta idea di libertà, al destinatario della prestazione viene offerta la possibilità di vedere rispettato in maniera concreta il suo diritto ad essere assistito nel modo migliore possibile.

Su questa linea, sono prefigurabili anche altri presidi purché, come nell’esempio riportato, ricorrano motivi –sempre fondati- di natura scientifico-professionale.

 

Settimana dopo settimana prosegue il nostro commento di tutti gli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. L'appuntamento è per la prossima settimana con il commento all'Articolo 30. Non mancate.

In questa pagina trovate tutti i commenti finora pubblicati!

(a cura del Dottor Catello Parmentola e dell'Avvocato Elena Leardini)

 

 

 


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Tags: psicologia codice deontologico catello parmentola elena leardini Codice Deontologico degli Psicologi Italiani articolo 29

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