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Trauma

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Forte alterazione dello stato psichico di un soggetto dovuta alla sua incapacità di reagire a fatti o esperienze sconvolgenti, estremamente dolorosi come il lutto, l’abbandono o l’abuso sessuale.

TRAUMALa parola trauma, dal greco τραῦμα, che significa “perforare”, “danneggiare”, “ledere”, “rovinare”, presenta due accezioni distinte; da un punto di vista medico sta ad indicare la lesione determinata dall’azione violenta di agenti esterni: trauma cranico, osseo, muscolare e via dicendo.

Da un punto di vista psicologico sta invece ad indicare una forte alterazione dello stato psichico di un soggetto dovuta alla sua incapacità di reagire a fatti o esperienze sconvolgenti, estremamente dolorosi come il lutto, l’abbandono o l’abuso sessuale.

Il sentimento di destabilizzazione e devastazione, rimanda ad una condizione di impotenza davanti a un’esperienza sconvolgente e incontrollabile, tale da provocare un flusso di sensazioni incontenibili, che sconvolgono l’equilibrio psichico del soggetto e determinando la messa in atto di difese patologiche.

Da un punto di vista storico, i primi a parlare di eventi traumatici furono il filosofo e psichiatra francese Pierre Janet, il cui lavoro si rivelerà fondamentale per la comprensione e il trattamento dei disturbi legati al trauma, e il neurologo francese Jean-Martin Charcot, il quale fu l’ideatore del termine “isteria traumatica”, dovuta ad un forte schock.

L’intuizione di Charcot fu quella di notare che la paralisi corporea non sempre era connessa a lesioni organiche ma, a volte, questa poteva manifestarsi in assenza di un trauma organico; da qui dedusse che le paralisi isteriche post-traumatiche erano dovute ad uno shock psichico.

Charcot aveva quindi notato che è l’idea a provocare la paralisi, sottolineando che “ la paralisi che compare dopo i traumatismi non compare immediatamente dopo lo schock, ma soltanto dopo un tempo più o meno lungo, dopo un periodo di incubazione o di meditazione, di auto-suggestione, durante il quale l’idea di impotenza dell’arto ferito, ingigantisce e si impone alla mente dell’ammalato”.

Successivamente a questi studi, nel 1925 Sigmund Freud, definì i traumi come “eventi in grado di provocare un’eccitazione psichica tale da superare la capacità del soggetto di sostenerla o elaborarla”.

Fu uno dei primi a credere che il trauma infantile svolgesse un ruolo prioritario nella patogenesi di alcuni disturbi mentali.

Inizialmente scompose l’azione del trauma in due momenti: il primo denominato “di seduzione”, dove il bambino subisce un tentativo o approccio sessuale da parte di un adulto, e un secondo momento, nella pubertà, dove si assiste alla rievocazione di quell’esperienza.

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Da un punto di vista psicoanalitico il trauma causerebbe angoscia, paure generalizzate e destabilizzanti, nonché ripiegamento e chiusura emotiva.

In questo caso, l’Io, per difendersi dall’attacco dell’angoscia, attiva dei meccanismi di difesa, come la rimozione, determinando l’insorgenza di sintomi nevrotici, che creano inevitabilmente un disturbo dell’Io e della personalità.

Il trauma è quindi per Freud una modificazione dell’Io, ossia “un’esperienza che nei limiti di un breve lasso di tempo apporta alla vita psichica un incremento di stimoli talmente forte che la sua liquidazione o elaborazione nel modo usuale non riesce, donde è giocoforza che ne discendano disturbi permanenti nell’economia energetica della psiche”.

Sarebbero dunque per Freud gli effetti traumatici a causare i sintomi isterici. Nelle sue successive elaborazioni, avvenute in concomitanza allo sviluppo delle teoria circa l’eziologia delle neuropsicosi da difesa, i sintomi isterici rappresenterebbero un ritorno di ciò che è stato rimosso e a cui l’Io reagisce attivando operazioni difensive che riguardano sia la rappresentazione rimossa, di natura sessuale, e la rappresentazione rimovente, di natura non sessuale ma associata all’esperienza sessuale traumatica.

Questa riformulazione segue un percorso che, non trascurando l’importanza della realtà oggettiva e dei suoi effetti sullo sviluppo psichico, si concentra però maggiormente sull’intrapsichico e sulla valorizzazione della fantasia inconscia e dell’angoscia traumatica.

Sempre restando nell’ambito psicoanalitico, si deve a Sàndor Ferenczi, allievo di spicco di Freud, l’introduzione del concetto di trauma in chiave relazionale.

La teoria del funzionamento psichico di Ferenczi pone al centro il concetto di trauma, cercando di analizzare la ricaduta interpersonale di un comportamento e di un atteggiamento all’interno dei processi comunicativi, per enucleare e differenziare il peso specifico del partner più forte rispetto a quello più debole, come ad esempio quello dell’uomo nei confronti della donna, del caregiver nei confronti del bambino, dell’analista nei confronti del paziente e così via.

Molta sofferenza psichica origina, secondo Ferenczi, in virtù di una trasmissione interpsichica connessa “all’introiezione non libera e non intenzionale, ma subita passivamente e forzatamente, di messaggi pulsionali grezzi e primitivi, tali da far scattare un’incorporazione, che nello stesso tempo non rappresenta il vero e unico agente patogeno”.

Per Ferenczi sono infatti la rimozione delle rappresentazioni ad essa collegate, o l’incapacità di rappresentare psichicamente ciò che si è vissuto e si è introiettato, a causa di una completa non curanza dei genitori verso i figli e del loro lasciarli soli e abbandonati a livello emozionale.

In questa iniziale concezione, per Ferenczi, il trauma presenta due risvolti impliciti: in prima battuta che il trauma è connesso non solo a qualcosa di improprio che è stato fatto, ma a qualcosa che si sarebbe dovuto fare ma non si è fatto; una specie di “omissione di soccorso” rispetto a quell’aiuto che ogni genitore dovrebbe fornire al figlio in una situazione di dolore o bisogno.

Secondariamente, il trauma, non essendo trasformato in evento psichico, può essere misconosciuto in quanto i figli adottano le qualità e gli atteggiamenti dei genitori, interiorizzandoli e conservandoli per tutta la vita.

A sua volta, l’instaurarsi di tale meccanismo, determina una dissociazione dalle proprie percezioni autonome e indipendenti, in quanto troppo lontane e in disaccordo con le modalità operative parentali.

Detto in parole semplici, i bambini, incapaci di protestare, sostenere l’impatto emotivo e sopravvivere al proprio persecutore, reagiscono con un atteggiamento di sottomissione, che si declina nella tendenza “ a indovinarne tutti i desideri, a obbedirli ciecamente, a identificarsi completamente con lui”.

Un aspetto particolare da prendere in considerazione è come l’evento traumatico scompare come realtà esterna divenendo intrapsichico e inconscio; questo fa sì che venga mantenuta la sensazione di tenerezza che caratterizzerebbe la relazione con il genitore.

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Nel bambino, a tal proposito, Ferenczi parla di “terrorismo della sofferenza”: per mantenere un rapporto tale da continuare a ricevere quella tenerezza è disposto ad assumersi le colpe degli adulti e divenire compiacente nei confronti dei loro desideri.

In questo modo, come testimoniato dall’esperienza clinica di svariati autori, il mantenere una buona relazione anche se il genitore è disturbato, identificarsi con l’aggressore, e acquisire modelli comportamentali che perdureranno nel tempo, porteranno il bambino a divenire egli stesso un adulto perverso o un genitore abusante.

Altri psicoanalisti si sono concentrati sugli aspetti evolutivi e relazionali del trauma, indagando quegli eventi stressanti e la vulnerabilità psichica ad essi connessi, che sono direttamente da rintracciare nelle relazioni primarie di attaccamento tra genitore e bambino. In modi diversi furono Winnicott, Sullivan e Bowlby a riportare l’attenzione sull’origine traumatica infantile di gran parte delle patologie della personalità.

Winnicott divenne famoso per il concetto di madre “sufficientemente buona”, per intendere quelle cure materne da cui il bambino non solo è dipendente, ma senza di esse non potrebbe esistere.

Anche se il bambino possiede un potenziale innato per svilupparsi, senza una madre che si prende cura di lui, egli non sarà in grado di divenire una persona “intera” e indipendente.

Secondo Winnicott, per studiare i processi psichici dell’infanzia, è essenziale considerarli in connessione alla funzione materna.

Per l’autore, le scarse capacità materne di Holding , ossia di contenimento, e di Handling, manipolazione, possono assumere valenza traumatica, tali da “creare una profonda frattura nella continuità personale del bambino”.

Questa linea teorica, in cui si sottolinea l’importanza della figura genitoriale nella relazione con l’infante, viene sostenuta anche da altre due importanti figure di spicco nel panorama psicoanalitico infantile, quale Melanie Klein e Wilfred Bion.

Concetto fondamentale della Klein, pioniera della teoria delle relazioni oggettuali, è che lo sviluppo sano della personalità può avere luogo solo se segnato da esperienze positive.

Bion, proseguendo la teoria della Klein, introduce il concetto di reverie materna, ovvero la capacità della madre di contenere le angosce del proprio figlio, di dargli un significato e di restituirgliele già digerite, ossia più tollerabili; per dirla in altri termini, è la capacità materna di “prestare la propria mente” al bambino.

Questi approcci teorici considerano quindi il trauma come effetto patologico di un’esposizione cronica ad esperienze di trascuratezza emotiva e di maltrattamento vissute dall’individuo sin dalla sua infanzia nel rapporto con caregiver poco responsivi.

Da un punto di vista fisiologico, l’esperienza del trauma relazionale, incide in senso negativo sullo sviluppo delle aree dell’emisfero destro adibite alla regolazione affettiva, nonché sede della memoria implicita delle rappresentazioni diadiche interattive.

Le proiezioni discendenti dalla corteccia prefrontale orbito-mediale e del cingolo anteriore sull’amigdala, maturano durante l’infanzia, e le esperienze relazionali traumatiche possono indurre una “potatura” eccessiva di queste connessioni, che facilitano a loro volta i processi dissociativi.

La descrizione di tali aspetti permette di comprendere come i ricordi relativi ad un trauma sono codificati in una memoria speciale, a causa di uno stato fisiologico di iperattivazione che li caratterizza.

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L’evento traumatico non è quindi immagazzinato come ricordo, bensì come stato emozionale e senso-percettivo (sensazioni somatiche, immagini visive, odori, suoni), che è separato dalle altre esperienze percettive e quindi non organizzate in maniera unificata.

L’eccesso di stimolazione e l’insostenibilità del dolore e della paura causano un blocco delle funzioni integrative della memoria, dando luogo a stati di coscienza dissociati e all’esclusione dalla coscienza delle esperienze traumatiche.

Il problema dell’impatto del trauma sulle funzioni mentali è ripreso da Fonagy e Target nella loro teoria sulla funzione riflessiva; con questo termine si fa riferimento alla capacità di interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di ipotetici stati mentali, cioè in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e intenzioni.

Tale costrutto rappresenta l’operazionalizzazione del concetto di “mentalizzazione”, che può essere considerato come sinonimo di quello appena esposto.

Coloro che hanno sperimentato delle carenze nel rapporto con i propri genitori manifestano una specifica difficoltà a pensare a sé e agli altri in termini di stati mentali, manifestando problemi nell’espressione e nel controllo delle emozioni e risultando più vulnerabili alle esperienze traumatiche.

Queste facoltà si acquisiscono nell’ambito delle prime relazioni di attaccamento e sono fondamentali per l’organizzazione del sé e la regolazione delle emozioni.

Esse comportano una componente sia autoriflessiva (legata alla rappresentazione del Sé) che interpersonale (legata alla rappresentazione degli altri).

Attaccamento e mentalizzazione procedono insieme fino a un certo punto; il trauma infatti attiva il sistema di attaccamento, legato agli oppiodi endogeni, e inibisce i comportamenti esplorativi, legati al sistema dopaminergico.

Il conflitto tra tali sistemi inibisce il processo di mentalizzazione e quindi la capacità di comprendere le emozioni proprie e altrui, il legame sociale e la consapevolezza autoriflessiva.

Proprio in funzione del fatto che il deficit di mentalizzazione compromette lo stabilirsi di confini definiti tra il Sé e l’oggetto, il caregiver non responsivo e traumatizzante verrò introiettato come “Sé alieno”, costituendo da un punto di vista psicoanalitico\psicodinamico, un oggetto interno persecutorio.

Volendo concludere, quando si parla di trauma, si fa riferimento a un evento esterno violento, unico, da costituirsi in sé quale agente patogeno o piuttosto di un insieme di microtraumi relazionali, ripetuti e poco evidenti, che si accumulano silenziosamente nel corso del processo di sviluppo.

Da quanto esposto si può quindi intuire che il concetto di trauma in letteratura è molto vasto, ci sono modelli e teorie diverse ed è impossibile adottare un termine unico; si può pertanto considerare il trauma come un termine-ombrello, necessario ma non sufficiente.

 

Per approfondimenti

  • Charcot, J.M. (1897). “Isterismo, in Trattato di medicina.” Vol. VI, 477-536 Torino: Unione Tipografico.
  • Freud S., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, vol. 8, Bollati Boringhieri, 1989, Torino
  • Ferenczi S. (1932), Diario clinico , Cortina, Milano, 1988.
  • Lingiardi V. (2004), “La personalità e i suoi disturbi”, Milano: Il saggiatore
  • Farina B. & Liotti G. (2011), Dimensione dissociativa e trauma dello sviluppo. Cognitivismo clinico, 8, 1, pp. 3-17.

 

( A cura della Dottoressa Giorgia Lauro)

 


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