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Depressione, Chaos, Desiderio, Trasformazione

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Suggestioni immaginali in setting analitico con un paziente depresso

caos e cambiamento leonardo seidita"Se si potesse ascoltare la pancia di un terapeuta..."
(D. Napolitani)

«Ἦ τοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ᾽, αὐτὰρ ἔπειτα
Γαῖ᾽ εὐρύστερνος, πάντων ἕδος ἀσφαλὲς αἰεὶ
[ἀθανάτων, οἳ ἔχουσι κάρη νιφόεντος Ὀλύμπου,
Τάρταρά τ᾽ ἠερόεντα μυχῷ χθονὸς εὐρυοδείης,]
ἠδ᾽ Ἔρος, ὃς κάλλιστος ἐν ἀθανάτοισι θεοῖσι,
λυσιμελής, πάντων δὲ θεῶν πάντων τ᾽ ἀνθρώπων
δάμναται ἐν στήθεσσι νόον καὶ ἐπίφρονα βουλήν.
Ἐκ Χάεος δ᾽ Ἔρεβός τε μέλαινά τε Νὺξ ἐγένοντο•
Νυκτὸς δ᾽ αὖτ᾽ Αἰθήρ τε καὶ Ἡμέρη ἐξεγένοντο,
οὓς τέκε κυσαμένη Ἐρέβει φιλότητι μιγεῖσα.»
(Esiodo, Teogonia)

“Dunque, per primo fu il Chaos”. Così Esiodo esordisce nel suo mito di creazione degli dèi. Risalendo all’etimologia del termine “caos”, si scopre come esso, in origine, non abbia l'attuale connotazione di "disordine”; il termine greco antico "chaos" rimanda piuttosto a “spazio aperto” nel senso di voragine, fenditura, burrone. Ne deriva quindi il senso di “abisso oscuro” come “spazio di fondo”, “un buco nero dell'universo” (G. Guidorizzi, 2009). Caos dunque - dirà Guidorizzi (2009) in “Il mito greco. Gli dèi” - come “vuoto primordiale, una specie di gorgo buio che risucchia ogni cosa in un abisso senza fine paragonabile a una nera gola spalancata (χάσκω, "inghiotto")”.

E il luogo del Caos sembra essere la “terra di ritorno” per il paziente che fa esperienza di depressione, di ritiro lento e inesauribile dal mondo e dalle relazioni, da qualsiasi immagine di sé protesa in avanti, dall’idea stessa di agente progettuale. Un volver - per implosione dell’energia psichica – alla “terra dei morti”.

Scrive Jung nel suo Libro Rosso:
"Ogni essere umano ha nella sua anima un luogo tranquillo dove tutto è naturale e facilmente spiegabile, un luogo dove gli piace rifugiarsi di fronte alle sconcertanti possibilità della vita, perché lì tutto è semplice e chiaro e ha uno scopo evidente e circoscritto. A nulla al mondo l’uomo può dire con altrettanta convinzione come a questo luogo: «Non sei altro che...», cosa che egli ha anche già detto. E questo luogo è una superficie piana, una parete quotidiana, una crosta ben protetta e spesso levigata sopra il mistero del caos. Se tu infrangi questa banalissima parete, il caos si riverserà all’interno, in un flusso travolgente. Il Caos non è cosa semplice, ma infinita molteplicità. Non è amorfo, altrimenti sarebbe semplice, ma è colmo di figure che, per la loro ricchezza, hanno un effetto sconcertante e sconvolgente. Queste figure sono i morti, non solo i tuoi morti, vale a dire tutte le immagini a cui hai dato forma in passato e che la tua vita si lascia alle spalle nel suo procedere, bensì le masse di morti della storia umana, il corteo di fantasmi del passato, un oceano di fronte alla goccia costituita dallo spazio della tua vita. Scorgo dietro di te, dietro lo specchio del tuo occhio, l’affollarsi di ombre minacciose, dei morti che avidi scrutano dalle orbite vuote, che gemono e sperano di portare a compimento attraverso di te tutto ciò che in ogni tempo è rimasto irrisolto e che in loro sospira. […] È questo infatti il luogo in cui il giorno e la notte si mescolano con tormento." (Op. Cit., p. 220)

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Mi accade di sostare da qualche tempo, accanto ad un uomo che fa da anni esperienza di depressione maggiore, resistente agli psicofarmaci, ed il luogo del Chaos è il luogo che quest’uomo abita oramai da anni. Un blocco di magma amorfo, spento ai lati che refluisce continuamente dal mondo, dalle relazioni e dai legami; senza sosta sfiancato e sfiancante, come un corridore senza direzione, come occhi che non sanno posare lo sguardo, come un corpo insicuro e unto, che ha perduto il suo proprietario e si trascina senza collare e senza meta.

Il discendere con lui nella “voragine” e sostargli accanto – percorso che ha come obiettivo la cura e la trasformazione - si connota ad ogni incontro per il dominio di immagini che giungono ad amplificare il sentimento della catastrofe e dell'assenza, quasi totale, del desiderio. Le mie gambe sono impantanate nel fango di fredde pozzanghere. Una qualche forma umana mi trae verso un basso indefinito. Una mano stridula mi soffoca dal collo retroverso d'una camicia bianca lacerata. Un esercito che guerreggia senza territori da poter occupare o conquistare. Contese impossibili d'altri tempi. Una pancia flaccida che secerne pus. Respirare sott'acqua e annegare. Una cappa di nebbia che mi circonda, che mi rallenta sino alla velocità con cui sboccia un fiore o cresce un germoglio. Il colore del metallo. Una donna che grida la rovina del suo popolo.

È quasi curioso come alcune di queste immagini sappiano ben risuonare nei miei luoghi dello sconforto e della perdita, che si ravvivano inesorabilmente. Ed è quasi curioso come il tempo in cui giunge il paziente è un tempo che rischia di configurarsi sincronico, poiché ha a che fare, anche stavolta, con la possibile perdita anche di tale relazione di cura, poiché i miei risvolti personali e privati pongono la possibilità di un mio trasferimento di territorio, e per il paziente questo darebbe conferma che non esiste alcuno che possa prendersene carico, considerata la sua pregressa storia personale e, appunto, di presa in carico.

Ed è ancora curioso, se non fosse per le già consolidate elaborazioni controtransferali, come si innesti all'interno di questo contenitore di cura, di questa coppia analitica, di questo campo mentale in cui il mio incontra il suo, e come si faccia pressante e presente quasi autonomamente, fuori dal controllo della coscienza, il tema del Desiderio. È un Desiderio che dirompe in maniera enantiodromica e vorrebbe, con la forza d'orde di cavalli e puledri, prendere, avvolgere e direzionare a vita questa informità depressiva. E tale sentimento del Desiderio, sepolto nel paziente, si erge in me, con figure e immagini salvifiche e potentemente di luce. Una donna dalle vesti sfavillanti di seta e zucchero filato che prende in braccio l'uomo e lo reca in un luogo sicuro. Una biga alata d'oro. Un vortice di fuoco che sale dalle profondità. Una corrente ascensionale di foglie e musica. La mano di un Golem che si fa largo tra gli alberi di una foresta nera a far luce nel sottobosco. Piccole lucciole nella notte buia. L'amplesso di Achille con Briseide. La Vergine del Lago deflorata.

Ed è curioso come tali immagini - che rischierebbero l'agito di un mancato rispetto dei giusti tempi della cura se restituite immediatamente come risolutive e trasformative - laddove si traducano in qualità della relazione terapeutica, guidino comunque le scelte e proteggano nei momenti del "non so", "non capisco", del "mi sento confuso", come un sottofondo animico, un “super-luogo immaginale” che costella la stanza d'analisi, connotandola di un plusvalore sacrale.

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Procedendo cauti nella “terra dei morti” e memori di quello che pare essere un monito da parte di Jung, quando esorta: “Quindi volgiti ai morti, ascoltane il lamento e prenditi amorevolmente cura di loro.” (Op. cit. p. 224), dal Chaos, dallo Spazio profondo, giungerà presto un sogno di trasformazione che diverrà ricorrente, sino a compimento del percorso psicoterapico. Un sogno denso di immagini archetipiche che sembrano rimandare fortemente al mito cosmogonico cinese, che aprirà le porte a possibili sprazzi di cambiamento.

Apro gli occhi e dinnanzi a me un uovo gigantesco. Chiaro, levigato, solido. Attorno a me e l’uovo, il vuoto. Un vuoto gelido. D’un tratto mi ritrovo io l’Essere dentro l’uovo. È tutto buio, troppo buio, mi affanno, fatico a muovere le braccia e le gambe, tocco solide pareti. Devo pur fendere, forare, spaccare, devo pur uscire dall’Uovo. È tutto con me dentro questo luogo. Scalcio una, due, tre volte; ancora più forte. Sento un lieve crack, un altro, un altro ancora. Le pareti si sfaldano e fanno entrare la Luce. Sollevo la testa e spingo le gambe, come un pulcino partorisce dal guscio se stesso con tutto il dolore possibile. Apro gli occhi, mi sveglio. Sto meglio.” Phan Ku era sorto.

 

 

Articolo a cura del Dottor Leonardo Seidita

 

 


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