La Grande Madre è ormai una Grande Macchina?
Perché uno psicologo psicoterapeuta dovrebbe mantenere un atteggiamento critico verso il mondo contemporaneo, nei confronti dello spirito del suo tempo, mettendo ad esempio in discussione un legittimo desiderio di maternità e/o paternità?
DOTT.SSA VALERIA BIANCHI MIAN
Un professionista che lavori con e attraverso la relazione terapeutica può e deve condividere le proprie riflessioni, se queste esulano dalla pratica clinica vis-à-vis con il paziente o con i gruppi? Il suddetto professionista può e deve rivolgersi con sguardo curioso verso il confronto multidisciplinare, avviando addirittura discussioni con sociologi, filosofi, magari persino letterati e giornalisti, relativamente a tematiche più o meno nuove come, per fare un esempio, la questione GPA (maternità surrogata)?
Come ho più volte sottolineato nel corso dei miei interventi nelle rubriche di psicologia online e nel libro “Utero in anima” (Bianchi Mian, V., Ceresa, S.G., Putti, S., Lithos Ed., 2016), noi psicoterapeuti siamo chiamati a operare con, attraverso, e per le relazioni.
Si tratta di relazioni che sono cambiate e ancora cambiano in quanto a mezzi di comunicazione tra individui e rispetto alle modalità di incontro. Era impensabile fino a qualche decennio fa, era una faccenda inimmaginabile, eppure oggi – per fare un esempio – alcuni colleghi svolgono i colloqui clinici via Skype o via e-mail. Per gli psicoterapeuti contemporanei, al fine di conoscere e strutturare nuove forme di setting, è d’uopo esplorare le possibilità della pratica clinica addentrandosi nel contesto con occhio attento e anche critico. Nutro una particolare predilezione per la Psicologia del Dubbio, dell’Errore e del Limite, oltre che per il concetto di Responsabilità. Con Silvana Graziella Ceresa e Simonetta Putti ci siamo messe all’opera proprio grazie a questi strumenti, affinati sul campo esperienziale; insieme, possiamo dirci oggi ‘in gioco’.
Ognuno di noi può, se desidera partecipare al mondo, riconoscersi professionista ‘engagé’ (un concetto nato dal pensiero critico dei colleghi analisti Stefano Candellieri e Davide Favero).
Dal nostro comune impegno è nato un libro sul tema della maternità surrogata e sulle ‘nuove maternità’, tenendo conto dei miti sottesi al ‘modus operandi’ della modernità.
Il libro è stato preceduto da un congresso internazionale (Roma 2015, IAAP Congress: Analysis and Activism). Lo ha accompagnato un lavoro redazionale (articoli per il dossier sulla GPA del sito Spiweb, prima; una rubrica su www.psychiatryonline.it, poi; il Blog Contemporanea/Mente qui su Psiconline, adesso). Mi trovo a continuare il percorso di riflessione sul tema, conscia del fatto che le ombre di questo millennio sono sempre difficili da riconoscere, considerata la pericolosa commistione di tecniche e desiderio umano nello scenario delle biopolitiche della maternità, ed è un mix che sfiora il simbolo ma afferra l’elemento divino che abita la nostra psiche solo per renderlo segno.
Come afferma anche L. Laufer, la professione di analista (e psicoterapeuta) non può fare a meno di osservare e vivere l’epoca nella quale l’analista – il terapeuta – svolge il suo mestiere. Non possiamo noi emettere sentenze, prendere posizioni nette, legiferare, ma al contempo non possiamo evitare di sentirci parte – implicati e interessati – alle diverse vie che l’anima umana segue per esprimere il significato della vita, nonché, ad un livello più concreto, alle implicazioni dei mutamenti che avvengono nella società (https://www.spiweb.it/.../6539-29-novembre-cmp-la).
È importante riflettere sulle implicazioni del bio-capitalismo quando si prenda in considerazione il livello collettivo. La madre surrogata è una donna che porta nel proprio ventre il figlio di un’altra donna e lo fa nascere, tramite il proprio ovulo, o quello dell’altra donna fertilizzato dal partner di questa, o di un’altra donna ancora (nel caso in cui i ‘genitori programmati’ fossero due uomini omosessuali o un uomo che desidera diventare padre ma restare single.
Esplorando il web, si incappa facilmente (ad esempio su Pinterest) nei gadget del caso. Una T-shirt e svariati gingilli con su scritto: “Si, tu puoi!” e anche “Il loro panino, il mio forno”. Sui social media, dappertutto nel web, tra i vari tipi di pubblicità compare l’invito a diventare madri surrogate. Sono immagini seducenti che arrivano anche a noi attraverso reiterati programmi televisivi, Blog e siti costruiti ad hoc., mondi patinati e idilliaci. È un tripudio di accessori femminili: puoi trovare spille, bracciali magliette che inneggiano al cosiddetto ‘utero in affitto’. Sono immagini dense di significati, tra le quali trovare ispirazione. Se digiti ‘surrogacy’ sulla tua tastiera, puoi vedere una sfilza di volti sorridenti e leggere storie che raccontano della fantastica esperienza che la mamma surrogata ha vissuto. “Io sono la prova che gli uomini gay possono generare figli” – suggerisce una T-shirt dentro la quale sorride una gestante rubizza. Ecco, è l’atto linguistico performativo scritto sopra una maglietta, dichiarato attraverso la pancia femminile. “Sei interessata a diventare una mamma surrogata? Contattaci!”
Il ventre è da sempre commerciabile, elemento di transazione economica, ma oggi più che mai questa insostenibile pesantezza dell’essere umano si maschera da nuove conquiste del liberismo, un gioco perverso e un giogo nel quale la GPA diventa segno decaduto di un simbolo da osservare con attenzione. La Grande Madre è ormai una Grande Macchina? Continuo a farmi domande, non trovo risposte certe, osservo il mondo e mi immergo nel dubbio, ancora e sempre ‘engagée’
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