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Identificazione proiettiva

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“Ora mi sembra che l’esperienza del controtransfert abbia proprio una caratteristica particolare che dovrebbe permettere all’analista di distinguere le situazioni in cui è oggetto di una identificazione proiettiva da quelle in cui non lo è. L’analista sente di essere manipolato come se stesse recitando una parte, non importa quanto difficile a riconoscersi, nella fantasia di qualcun altro” Wilfred Bion

Identificazione proiettivaL’identificazione proiettiva è un concetto che sempre più è entrato a far parte del linguaggio psicoanalitico ed è considerato come un “ponte” tra la psicoanalisi classica e quella interpersonale, in quanto permette di tenere conto dell’importanza dell’interazione tra le persone nella genesi della psicopatologia, uscendo così da un’ottica puramente individuale o intrapsichica.

Questo concetto è stato introdotto per la prima volta da Melanie Klein (1946) in “Notes on some schizoid mechanisms”, per intendere la proiezione di parti del Sè nel corpo materno per poterlo possedere, controllare ed eventualmente danneggiare, attuando così il processo identificativo con l’oggetto, non più sentito come separato.

Secondo la Klein l’identificazione proiettiva assolve diversi scopi: vanno dalla scissione, separazione di parti indesiderate di sé causa di dolore e angoscia, all’espulsione e collocazione in un altro individuo indotto a sperimentarne la sofferenza; dal controllo dell’altro, da cui attraverso la proiezione di sé non si può essere separati, all’impossessarsi delle sue capacità, fino alla sua distruzione.

Nel 1957, con “Invidia e gratitudine”, la Klein individua le basi dell’eccessiva intensità dell’identificazione proiettiva nell’invidia, causa dello svuotamento del soggetto e della grave confusione tra il sé e l’oggetto.

Il fatto che il bambino sviluppi la fantasia di entrare nel corpo della madre, ponendosi in una relazione oggettuale di tipo aggressivo – secondo la prima formulazione della Klein – non vuol però dire che i meccanismi espulsivi e proiettivi riguardino esclusivamente le sue parti “cattive”: essenziale è infatti la proiezione delle parti “buone” affinchè nel lattante si sviluppi la capacità di creare relazioni oggettuali positive oltre l’integrazione dell’Io.

Attraverso l’introduzione di tale concetto la Klein delineava quindi un nuovo modo di intendere la vita psichica e il suo funzionamento, adattando e riconsiderando alcuni concetti cardini della psicoanalisi concepiti da Freud quali: la pulsione di morte, l’Io, l’oggetto, e il concetto di identificazione.

Una prima distinzione con Freud riguarda la metapsicologia, infatti mentre per Freud le istanze psichiche di Io, Es e Super-Io hanno un valore metaforico, nella teoria Kleiniana queste assumono un valore concreto.

La formazione stessa delle istanze psichiche è differente; mentre per Freud l’Io si formerebbe in un secondo momento, la Klein sottolinea invece come l’Io sia presente già dalla nascita, anche se in modo poco integrato, ma è proprio questo Io primitivo che renderebbe possibile la relazione oggettuale.

Diversamente da Freud che ipotizzò l’esistenza di una pulsione di morte che agisce accanto ad una libidica e che si presenta clinicamente attraverso la coazione a ripetere certe esperienze dolorose e connotata da caratteristiche mute e silenti, la Klein dimostra che nei bambini questo istinto si manifesta nella relazione oggettuale.

Per comprendere meglio questa nuova formulazione teorica è importante effettuare alcune considerazioni sviluppate dalla Klein nel suo lavoro sui meccanismi schizoidi.

Sottolinea infatti che “si abbiano relazioni oggettuali già all’inizio della vita e che il primo oggetto sia il seno materno, che viene scisso in seno buono (gratificante) e seno cattivo(frustrante) […]. Ho avanzato l’ipotesi che la relazione con il primo oggetto comporti l’introiezione e la proiezione dello stesso, in modo che fin dall’inizio le relazioni oggettuali sono modellate dall’interazione tra introiezione e proiezione, tra oggetti e situazioni interni e oggetti e situazioni esterni […]; nei primi mesi di vita l’ansia viene vissuta in prevalenza come paura della persecuzione e questo contribuisce al formarsi di certi meccanismi e certe difese caratteristiche degli stati paranoide e schizoide. Tra le più importanti di queste difese è il meccanismo della scissione in oggetti interni e oggetti esterni, in emozioni ed Io”.

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L’autrice quindi sottolinea l’importanza dei processi di diniego e scissione nella fase evolutiva in cui “la libido orale predomina ancora, le fantasie e gli impulsi libidici e aggressivi vengono alla ribalta da altre fonti e portano a una confluenza di desideri orali, uretrali e anali sia libidici che aggressivi”.

La madre, nel contenere le parti cattive del Sé, non è percepita come oggetto separato, ma come il Sé cattivo e “questo conduce a una forma particolare di identificazione che stabilisce il prototipo di una relazione oggettuale aggressiva. Io propongo per questi processi il termine di identificazione proiettiva”.

Successivamente, nel 1955, nello scritto “Sull’identificazione”, la Klein estende il concetto di identificazione proiettiva per evidenziare, oltre la forma patologica, anche quella che si configura come processo normale della vita psichica.

In questa estensione del concetto, l’identificazione proiettiva è vista come base dell’empatia che permette di condividere affettivamente gli stati emozionali di un’altra persona.

Attraverso questo processo ci si può porre nei panni dell’altro per capirne sentimenti, comportamenti, atteggiamento e reazioni.

Un autore che ha fornito importanti contributi sulle applicazioni cliniche della teoria dell’identificazione proiettiva è sicuramente Herbert Rosenfeld, il quale la considerava il principale fattore tecnico per il trattamento delle psicosi.

Effettuò una distinzione tra due tipi di identificazione proiettiva: la prima usata come forma di “comunicazione” e che si può riscontrare sia nei pazienti nevrotici che psicotici.

Nel paziente psicotico, in particolare, tali meccanismi appaiono come una distorsione o intensificazione della relazione infantile normale in cui, impulsi, angosce e parti di Sé difficili da tollerare sono proiettate nella madre affinchè le contenga alleviando così l’angoscia (è ciò che Bion ha descritto come “reverie”).

Lo psicotico può usare questo processo nel transfert, in maniera conscia o inconscia, proiettando tali componenti sull’analista in modo che quest’ultimo senta e capisca i suoi vissuti, li contenga finchè non perdono le loro connotazioni minacciose e insopportabili, conferendo loro un significato attraverso le interpretazioni.

È solo attraverso le interpretazioni che le reazioni e i vissuti infantili minacciosi e privi di significato divengono accessibili al Sé in maniera più sana.

Il secondo tipo di identificazione proiettiva viene presentata come una chiave di lettura per alcuni sintomi psicotici quali la catatonia, i disturbi del pensiero e la depersonalizzazione.

Per una brevità di esposizione verranno quindi elencate solo le modalità di utilizzo dell’identificazione proiettiva nel paziente psicotico, con un breve excursus sulle caratteristiche principali:

  • Uso dell’identificazione proiettiva per il diniego della realtà psichica: parti del Sé, impulsi e angosce sono scisse e proiettate nell’analista al fine di evacuare il contenuto mentale disturbante;
  • Uso dell’identificazione proiettiva come controllo onnipotente del corpo e della mente dell’analista: relazione transferale basata su una relazione oggettuale infantile molto primitiva in cui si presenta fusione o confusione con l’analista e perdita del Sé;
  • Uso dell’identificazione proiettiva per maneggiare l’invidia: fusione con l’analista e attribuzione a se stesso di tutto il valore che ha l’analista (narcisismo onnipotente); qualora subentra l’angoscia da separazione nei confronti dell’analista, compaiono violenti impulsi distruttivi;
  • Uso dell’identificazione proiettiva come relazione oggettuale parassitaria: il paziente psicotico ha la fantasia di vivere completamente all’interno di un oggetto, l’analista, e si comporta come un parassita che vive “succhiando” le capacità dell’analista. È sia una difesa contro l’invidia e la separazione, che una manifestazione aggressiva;
  • Uso dell’identificazione proiettiva come relazione oggettuale delirante: il paziente psicotico vive completamente all’interno dell’oggetto del delirio; manifesta un totale distacco in quanto assorto nelle sue proprie allucinazioni, tanto da proiettare tale vissuto sull’analista.

Un altro autore che certamente non si può trascurare in virtù degli sviluppi apportati al concetto di identificazione proiettiva è Wilfred Bion, il quale ha focalizzato maggiormente la propria attenzione sulla nascita del pensiero e degli aspetti psicotici della personalità.

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L’identificazione proiettiva viene infatti presentata come un meccanismo fondamentale nel processo schizofrenico, in quanto rappresentante il fattore di differenziazione tra personalità psicotica e non psicotica.

Seguendo le teorizzazione della sua insegnante, Melanie Klein, l’identificazione proiettiva è connotata da una fantasia onnipotente in cui parti indesiderate della personalità o degli oggetti interni vengono rifiutate, proiettate e contenuto all’interno dell’oggetto in cui sono state proiettate.

L’oggetto è quindi vissuto come se fosse controllato da queste parti proiettate e impregnato delle loro qualità.

Questo processo conduce ad un allontanamento sempre maggiore dalla realtà; il paziente infatti tenta di liberarsi di tutte le funzioni dell’Io che corrispondono al principio di realtà (pensieri, coscienza, attenzione e giudizio), dirigendosi contro quelle che Bion chiama “matrici di pensiero”.

Per Bion l’identificazione proiettiva assume anche connotazioni positive determinanti per la formazione dei simboli e lo sviluppo della comunicazione umana.

Egli postula la presenza nel bambini dei cosiddetti “protopensieri”, cioè “impressioni sensoriali ed esperienze emotive molto primitive” (elementi beta) e basandosi sul modello della relazione “contenitore-contenuto” suggerisce che l’infante, attraverso l’identificazione proiettiva, proietta i propri contenuti distruttivi nella madre (contenitore), che con la sua capacità di reverie li elabora, li metabolizza al fine di restituirli al bambino in maniera tale da conferire un significato all’esperienza del bambino e favorendo così l’inizio dello sviluppo della capacità riflessiva sugli stati mentali.

Questa modalità secondo Bion, rappresenta una forma di comunicazione importante attraverso cui il lattante riesce a trasmettere le proprie emozioni primitive alla madre, facendole sentire ciò che lui prova ed è proprio questa relazione che viene interiorizzata per dare origine all’apparato cognitivo del bambino.

Successivamente, col procedere delle sue teorizzazioni, Bion ha evidenziato come l’identificazione proiettiva svolga un ruolo fondamentale nell’interazione tra paziente e analista sia rispetto ad un setting individuale che gruppale.

L’analista, così come la madre, deve essere in grado di accogliere le proiezioni del paziente, comprenderle e rispondere adeguatamente ad esso. L’autore afferma infatti che “il paziente fa qualcosa all’analista e l’analista fa qualcosa al paziente, non è solo una fantasia onnipotente”.

In questo modo l’identificazione proiettiva diventa un processo fondamentale che sottostà al transfert e al controtransfert.

Altri autori come Leon Grinberg, James S. Grotstein e Thomas H. Ogden ritengono che l’identificazione proiettiva sia un processo fondamentale nella pratica clinica utile a comprendere determinati fenomeni psicopatologici.

Leon Grinberg fornisce un’interessante classificazione delle identificazioni proiettive focalizzandosi sull’aspetto qualitativo di tale meccanismo.

Sostiene infatti che il funzionamento dell’identificazione proiettiva varia in relazione ad una serie di fattori: minore o maggiore predominio degli impulsi aggressivi, grado di tolleranza alla frustrazione, tipo di contatto con la realtà esterne e psichica, stato di funzionamento dell’Io, qualità dei meccanismi di difesa e qualità dei legami di oggetto.

La qualità e la quantità con cui si innescano tali fattori permette di determinare la gravità dei diversi quadri psicopatologici.

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Grotstein distingue invece due forme di identificazione proiettiva: una di tipo non difensivo che permette la crescita e la maturazione, in quanto non si assiste a una trasformazione del Sé o dell’oggetto e che viene indicata con il termine di “esternalizzazione”; l’altra invece con connotazioni difensive, sottolineando che la scissione e l’identificazione proiettiva lavorano in coppia: quest’ultima opererebbe infatti “come appendice della scissione assegnando a un contenitore una percezione o una parte di Sé scissa”.

Proprio come Bion, Grotstein assegna un ruolo importante all’oggetto ricevente le proiezioni, ossia il terapeuta, sostenendo che “l’esistenza dell’identificazione proiettiva dipende, in fondo, da chi la riceve. Quanto più l’oggetto terapeutico è empatico verso le identificazioni proiettive del paziente e quanto meno queste ultime sono proiettive e identificatorie, tanto più esse diventano comunicazioni che possono avere per il paziente il significato di un arricchimento. Nello stesso tempo, le identificazioni proiettive su cui il paziente non è pronto a riflettere devono essere contenute dal terapeuta.”

L’identificazione proiettiva, quindi, non sembra più essere solo qualcosa che si verifica nella sfera intrapsichica, ma si produce all’interno di una relazione interpersonale, che pertanto, va a rappresentare la forma più importante di comunicazione tra terapeuta e paziente.

A tal proposito, si deve a Thomas Ogden una definizione di identificazione proiettiva che sottolinea l’importanza della relazione interpersonale tra paziente e analista, pur rimanendo intrapsichica.

Egli infatti la definisce in questo modo: “l’identificazione proiettiva non è un concetto meta psicologico, è piuttosto un fenomeno reale in cui colui che proietta ha la fantasia inconscia di liberarsi di una parte di Sé non desiderata, inclusi i propri oggetti interni; di depositarla in un’altra persona; e infine di recuperare una versione modificata di ciò che era stato espulso”.

Attraverso queste nuove teorizzazioni e il porre l’identificazione proiettiva in relazione agli eventi transferali all’interno del rapporto terapeutico, può quindi aiutarci a comprendere la sua importanza nelle interazioni terapeutiche tra analista e paziente.

 

Bibliografia

  • Bion W.R. (1954). Note sulla teoria della schizofrenia. In W.R.Bion: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970.
  • Bion W.R. (1956). Sviluppo del pensiero schizofrenico. In W.R.Bion: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970
  • Grinberg L. (1982). Teoria dell’identificazione. Loescher, Torino.
  • Grotstein J.S. (1983). Scissione e identificazione proiettiva. Astrolabio, Roma.
  • Klein M. (1946). Notes on some schizoid mechanisms. In M.Klein et al.: Development in Psychoanalisys, Hogart Press London, 1952. Trad. It. Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1979.
  • Klein M. (1955), Sull’identificazione. In Nuove vie della Psicoanalisi. Il Saggiatore, Milano, 1982.
  • Ogden T.H. (1994). La identificazione proiettiva e la tecnica psicoterapeutica. Astrolabio, Roma.
  • Rosenfeld H. (1973). Stati psicotici. Armando, Roma.
  • Rosenfeld H. (1980). Sull’identificazione proiettiva. Rivista di Psicoanalisi, 26, pp 118-139.

 

A cura della Dottoressa Giorgia Lauro

 


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