Diventare mamma: che ruolo ha l'istinto?
La creazione del legame fra una madre e un figlio non è spontanea e non è innata, attiene piuttosto all’esperienza di accudimento che ogni donna, futura mamma, ha avuto con la propria madre, oltre che alla sensibilità empatica personale.
Molti ritengono che il diventare madre ed il modo con cui si accudisce un bambino sia basato in larga misura su una dimensione istintuale.
L’istinto materno è assimilato ad una sorta di “programmazione” naturale, geneticamente data, che guiderebbe la neomamma verso un accudimento efficace del suo bambino.
Presupposto, questo, che lascia intendere una certa “facilità” nella gestione del ruolo, e che spesso viene usato proprio come strumento per far sentire in colpa quella madre che non riesce ad adattarsi così facilmente al nuovo ruolo e viva i momenti che seguono la nascita in modo problematico.
Sempre più di frequente si assiste a narrazioni lontane da quella che vorrebbe la donna programmata alla procreazione, narrazioni che parlano di donne che vivono un forte disagio causato dalla maternità, che hanno bisogno di essere aiutate ad elaborare le emozioni dolorose, contrastanti, inaccettate ed inaccettabili.
Il concetto di istinto rimanda all’idea che ci sia una base innata nella donna che la predisporrebbe naturalmente alla comunicazione col neonato. Alcune ricerche avrebbero anche dimostrato che esistono delle aree cerebrali che si attiverebbero quando una mamma si prende cura del suo piccolo.
Ma se davvero fosse una caratteristica stabilita geneticamente, perché alcune donne potrebbero non averla? E se esiste perfino un’area cerebrale legata a questa relazione, perché in alcune donne non si attiverebbe? E dunque nella creazione del legame fra madre e figlio prevale la componente biologica, e genetica, oppure quella esperienziale, ed emotiva?
Pensiamo alla definizione di istinto e facciamo un esempio pratico: tutti i mammiferi quando vedono uno dei loro cuccioli ancora indifeso allontanarsi dalla tana, ravvisandone il pericolo, istintivamente lo riportano dentro, in un situazione di sicurezza; secondo lo stesso principio una mamma che sente suo figlio piangere è istintivamente portata a comprenderne la causa e, di conseguenza, a reagire.
Questo sillogismo può valere per gli animali, ma non è così automatico negli uomini: il pianto è un canale comunicativo, il primo di ogni individuo, e rappresenta l’evento che mette più in crisi i neogenitori, spaventati dal non riuscire a decifrarlo, poiché non è così innato identificarne l’origine.
Alcuni sostengono che, pur essendo innato, l’istinto materno necessita di eventi esterni per essere attivato. Dunque non sarà che sia più rilevante l’esperienza, piuttosto che la genetica, nella costruzione di un legame relazionale e comunicativo madre-figlio? Ogni azione che compiamo vede attivarsi delle aree specifiche del cervello, ma non per questo dobbiamo dedurne che quell’area si attivi perché geneticamente determinata.
La creazione del legame fra una madre e un figlio non è spontanea e non è innata, attiene piuttosto all’esperienza di accudimento che ogni donna, futura mamma, ha avuto con la propria madre, oltre che alla sensibilità empatica personale. Il legame materno non può essere solo un dato biologico, innato: è fatto di capacità di accudimento, ascolto, accoglienza, comunicazione, emozioni scambiate, trasmesse e condivise. Ed è un legame che inizia a prendere forma a partire dal lungo periodo gestazionale, quando la condivisione di un unico corpo diventa anche condivisione di stimoli, informazioni, sensazioni ed inizia a strutturare l’esperienza del feto.
L’esperienza personale di figlia accudita crea un bagaglio conoscitivo, che è sicuramente operazionale, cioè fatto di azioni, gesti, modalità accuditive; ma è soprattutto emozionale, cioè uno scambio di emozioni e affetti che fanno sì che il figlio si senta amato, accettato e accolto oppure no. Probabilmente ci sono donne che sono naturalmente o più facilmente portate ad entrare subito in relazione con il proprio bambino, ciò può far pensare ad una componente di “spontaneità” nel ruolo. Ma sono più portata a ritenere che sia una spontaneità dovuta ad una sensibilità empatica personale, legata ad una certa sicurezza di sé e delle proprie capacità, molto probabilmente legata, a sua volta, ad una relazione con la propria madre sufficientemente soddisfacente.
(Articolo a cura della Dottoressa Maria Amati, Psicologa Psicoterapeuta familiare)
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