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Obblighi e doveri dello psicologo

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Un dottore, come spesso accade, tecnicamente bravo è, per ricaduta, un dottore corretto. Un dottore deontologicamente scorretto non potrà, per ricaduta, che fornire prestazioni tecnicamente scadenti” (Catello Parmentola)

psicologoNel 1998, in seguito all'approvazione del Codice Deontologico, vengono per la prima volta stabilite le regole di comportamento cui lo psicologo deve attenersi nel corso della sua attività professionale.

  Ossia, l'insieme degli articoli ivi presenti non solo come norme da rispettare (per le trasgressioni più gravi la pena è la radiazione dall'albo professionale) ma, più in generale, come bussola che lo psicologo dovrebbe seguire per orientare le proprie scelte e comportamento.

Alla base del C.D. ci sono 4 principi generali o imperativi guida necessari nell’attività professionale dello psicologo (Calvi-Gullotta):

1. meritare la fiducia del cliente: artt. 11, 18, 21, 25 (discende dalla concezione della professione come servizio e comporta che il professionista può fare solo ciò che è a vantaggio del cliente);

2. possedere   una   competenza   adeguata   a   rispondere   alla   domanda   del   cliente: artt. 5, 22, 37 (questo comporta non solo la necessità di formazione permanente, ma anche la capacità di autovalutazione di proprie competenze, e quindi di essere consapevole dei limiti del proprio sapere e di svolgere attività per le quali non ci si sente preparati);

3. usare con giustizia il proprio potere: artt. 22, 4, 18, 28, 38, 39, 40 (cioè saper rispettare e favorire le capacità decisionali del cliente);

4. difendere l’autonomia professionale: art. 6 (ciò comporta il rifiuto ad ogni ingerenza esterna al corpus professionale nel controllo dell’attività del professionista; tali ingerenze produrrebbero un calo di fiducia che   il   cliente   deve   avere   nei   confronti   dello   psicologo,   con   conseguenti   scadimenti   degli   standard professionali).

In alcuni passaggi del Codice Deontologico sembra si voglia delineare uno stile di vita cui lo psicologo dovrebbe auspicare, ispirato ai criteri di decoro professionale, serietà scientifica e tutela dell’immagine personale. A tal proposito l´articolo 3 recita:  “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell´individuo, del gruppo e della comunità”.

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L’immagine che emerge è quella di una persona capace di guardare il mondo con laicità intellettuale, proponendosi e relazionandosi con le persone che lo circondano attraverso i valori della tolleranza e del rispetto per le loro sofferenze, un uomo che considera proprio dovere “ …aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte. ” (art. 39).

Più in dettaglio vi sono una serie di regole cardine che lo psicologo deve osservare all’interno di una relazione terapeutica, al fine di tutelare l’utente che si rivolge al professionista.  In particolare mi sembra utile sottolineare le seguenti regole:

– il segreto professionale (lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale - art. 11, pertanto non può rivelare notizie apprese in ragione del suo rapporto professionale nemmeno in un’eventuale testimonianza processuale 'a meno di un’esplicita richiesta da parte dell’imputato'). ;

– il divieto di trarre vantaggi che vadano oltre al compenso pattuito (E’ proibito accettare compensi che non rientrino in quanto pattuito ad inizio terapia - art. 30). ;

– evitare di effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale (art. 28). La ragione di questo divieto risiede nel fatto che all’interno del contesto relazionale psicoterapico le relazioni personali possono provocare una distorsione dell’immagine del paziente, portando così a diagnosi erronee. La prestazione del clinico potrebbe, in effetti, essere influenzata dalla familiarità col soggetto, con conseguente scarsa obiettività nel giudizio ;

– l´obbligo di fornire una corretta informazione circa le prestazioni fornite, oltre alle responsabilità nei confronti di una società all´interno della quale lo psicologo ha il dovere di utilizzare le sue conoscenze per promuoverne il benessere psicologico.

Consenso Informato e Legge sulla Privacy

Per quanto riguarda il consenso informato al trattamento dei dati personali dobbiamo considerare che ogni attività svolta dallo psicologo, sia clinica che non, prevede almeno la registrazione dei dati personali. Inoltre la maggioranza delle prestazioni professionali in campo psicologico implicano la raccolta di dati sensibili quali quelli sulla vita psichica, affettiva o sessuale delle persone. Questo comporta che per la nostra professione costituisce un obbligo l’applicazione del Codice in Materia di Protezione dei Dati - D.Lgs n. 196 del 30/6/2003 in vigore dal 1° gennaio 2004 e succ. mod. - (questa normativa ha abrogato la precedente Legge 675/96).

Lo  psicologo,  come  peraltro  il  medico,  non  può essere  considerato  titolare  di  un  astratto  diritto di  curare  il  paziente,  ma  semplicemente  di  una facoltà  di  curarlo  in  presenza  del  suo  necessario consenso all’indagine diagnostica o al trattamento proposti.
Qualsiasi  intervento  che  abbia  come  obiettivo  il miglioramento  dello  stato  di  salute  psicofisica  di una persona deve tenere in considerazione, innanzitutto,  che  l’art.  32  della  Costituzione  garantisce il diritto alla salute quale diritto fondamentale dell’individuo  e  interesse  della  collettività,  precisando  però  che  “nessuno  può  essere  obbligato  a un  determinato  trattamento  sanitario  se  non  per disposizione di legge “la quale” non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della per sona umana”.

La  professione  di  psicologo,  nella  misura  in  cui incide  sulla  salute  dei  singoli  o  della  collettività come evidenziato anche dall’art 3 del CD stesso, ove  si  afferma  che  “...lo  psicologo  è  consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire signi ficativamente nella vita degli altri” e sul principio  di autodeterminazione in materia sanitaria, tocca proprio quegli interessi primari, costituzionalmente garantiti a tutti i consociati.

Secondo  il  prevalente  orientamento  giurisprudenziale,  il  consenso  informato  consiste  nell’accettazione volontaria di un trattamento sanitario, accettazione  che  il  paziente  esprime  in  maniera libera, non mediata dai familiari, dopo essere stato  adeguatamente    informato  sulle  modalità  del trattamento stesso, sui benefici ad esso correlati, sugli eventuali effetti collaterali, sui rischi ragio nevolmente prevedibili in relazione alle condizioni di salute, nonché sull’esistenza di valide alternative terapeutiche.  
In base alla legislazione vigente, il consenso informato può essere espresso da un individuo soltanto  se sussistono due condizioni di base:

• la capacità di agire, che salve eccezioni si acquisisce con il compimento del diciottesimo anno di età (art. 2 c.c.);
• la capacità di intendere e di volere.

In definitiva, quindi, l’attuale ordinamento giuridico prevede che solo gli individui maggiorenni in grado  di  intendere  e  di  volere  possano  esprimere il  consenso  a  qualunque  trattamento  sanitario  li riguardi.

Il consenso, per essere valido, deve possedere tutte le seguenti prerogative:

•  personale,  ovvero  deve  essere  manifestato  dal destinatario  dell’intervento  (e  non  dal  committente!), unico titolare del diritto alla salute costituzionalmente  garantito;  in  casi  particolari (minorenni ed incapaci legalmente o di fatto)  il consenso deve  essere espresso dai genitori o dal tutore;
• libero, cioè dato dal singolo come frutto di una scelta  personale  e  consapevole,  senza  forzature da parte di familiari o altri soggetti;
• attuale, cioè dato in un momento prossimo alla
prestazione cui inerisce; con il passare del tempo,  infatti,  possono  intervenire  mutamenti  nel contesto in cui il consenso si è formato tali da impedire di considerarlo ancora valido;
•  informato,  cioè  preceduto  da  un’informazione completa  sulla  situazione,  sul  trattamento,  sui rischi e benefici, in modo da consentire al soggetto di effettuare una scelta pienamente consapevole;
• compreso, si rende pertanto necessario verificare che il paziente abbia recepito bene quanto è stato comunicato dallo psicologo;
• manifesto, cioè espresso in forma scritta (preferibile) o in qualunque altra forma che non lasci
alcun dubbio sulle reali intenzioni  del soggetto.

Si può aggiungere, per inciso, che la manifestazione espressa consente di risolvere, all’occorrenza, il problema  della “prova” del consenso.

Da  quanto  suesposto  si  evince  che  in  capo  allo psicologo  risiede  l’obbligo  di  informare  il  cliente in modo esaustivo sull’intervento imminente, fornendogli  conoscenze  scientifiche  aggiornate  con modalità  terminologicamente  corrette,  pur  senza  mai pregiudicare la comprensibilità del linguaggio, che, ai fini della validità del consenso, deve essere in ogni caso parametrato alla capacità di comprensione del paziente.

È  allora  chiaro  che  quando  si  parla  di  consenso informato si intende non solo e non tanto la sottoscrizione di un modulo di consenso, ma un benestare  sostanziale  senza  il  quale  ogni  agire,  ed in  particolar  modo quello psicologico,  rischia  di essere, salvi alcuni casi del tutto eccezionali, non solo giuridicamente non corretto, ma altresì completamente inutile.

Il Codice, comunemente noto come Legge sulla Privacy, è un insieme di norme per la tutela della persona, e disciplina il trattamento dei dati personali considerandoli proprietà inalienabile dell’individuo.

Agli psicologi, così come ad altri professionisti del settore sanitario, è consentito trattare questi dati senza richiedere l’autorizzazione al Garante, ad eccezione dei casi dove vengono gestite ampie banche dati come nella selezione del personale, la condizione è che vengano osservate precise misure a tutela dell’anonimato. La Legge sulla privacy si applica dal momento della raccolta di dati sia personali sia sensibili, sottoponendo al cliente/paziente un modulo di consenso informato che, dopo averlo letto e compreso nel dettaglio, può firmarlo. L'originale firmato resta al professionista mentre una copia, per correttezza, va rilasciata alla persona interessata.

Da notare come la Legge sulla Privacy vada ad integrarsi con il segreto professionale offrendo un'ampia copertura in termini di riservatezza. Infatti mentre la privacy riguarda la regolamentazione delle modalità di raccolta, elaborazione e conservazione non solo dei dati personali e sensibili, ma di tutti i dati del cliente/paziente, anche quelli insignificanti dal punto di vista della segretezza; il segreto professionale, invece, riguarda l’obbligo, indicato ampiamente dal nostro Codice Deontologico (Artt. dall'11 al 17) di tutelare l’intimità della relazione professionale ed, in particolare, quelle informazioni molto personali e riservate che il cliente/paziente vuole che rimangano all'interno del rapporto professionale. Così per via del combinato disposto di queste due normative possiamo concludere che ogni informazione ricevuta nell'ambito dell'esercizio dell'attività di psicologo va adeguatamente protetta e ben conservata ed inoltre per almeno cinque anni (art.17 C.D.).

Pubblico Vs Privato

Va fatta però una distinzione fra psicologo privato e psicologo del servizio pubblico.

L'obbligo al segreto professionale vale per entrambi, ma in caso lo psicologo venga a sapere di un reato (già commesso), se è uno psicologo privato, non può comunque denunciare il paziente, mentre se si tratta di uno psicologo del servizio pubblico, per lui vale l'obbligo di denuncia, dal momento che si tratta di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni.

In altre parole, se un paziente confessa di aver svaligiato una casa in passato, se lo psicologo che ha di fronte è privato, questi non potrà violare il segreto, mentre se lavora presso il SSN e la "confessione" è avvenuta durante l'esercizio delle sue funzioni pubbliche, è obbligato a denunciare il proprio paziente.

Lo psicologo privato, quindi, si comporta quasi come un avvocato difensore; non può denunciare il proprio paziente, altrimenti rischia una denuncia penale dal paziente stesso (Art.622 del Codice Penale).

Esistono però delle deroghe al segreto professionale.

Qualora il reato confessato stia per essere reiterato con possibili lesioni gravi o morte di altri soggetti (compreso il paziente stesso), vi è la deroga per giusta causa.
E' ugualmente considerata una deroga per giusta causa se è lo psicologo ad essere in pericolo di vita o di lesioni gravi.
Si riferisce comunque agli inquirenti solo lo stretto necessario e non i dettagli delle sedute.

Altri tipi di deroghe sono relative alla liberatoria effettuata dal cliente (deroga per consenso), che quindi autorizza lo psicologo a denunciare il reato riferito.

Le norme che riguardano questo argomento, sono prima di tutto alcuni articoli del Codice Deontologico degli Psicologi e, naturalmente, alcuni articoli del Codice Penale (c.p.) e del codice di Procedura Penale (c.p.p.), come descritto di seguito:

- Artt. 11 – 12 – 13 – 14 – 15 – 16 e 17 Codice Deontologico degli Psicologi.
- Art. 200 c.p.p.: “Segreto Professionale”.
- Art. 256 c.p.p.: “Dovere di esibizione e segreti”.
- Art. 362 c.p.p.: “Assunzione di informazioni”.
- Art. 334 c.p.p.: “Referto”.
- Art. 365 c.p.: “Omissione di referto”.
- Art. 622 c.p.: “Rivelazione di segreto professionale”.

Una ulteriore distinzione da valutare, inoltre, riguarda il reato che può essere perseguibile d’ufficio, cioè punibile anche se la parte lesa non sporge denuncia, o non perseguibile d’ufficio, cioè non punibile se la parte offesa non ha sporto querela.

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Il collega che viene a conoscenza di fatti che configurino un’ipotesi di reato mentre sta svolgendo un’attività che lo inquadra come  pubblico  ufficiale  oppure  come  incaricato  di pubblico servizio ha un obbligo di denuncia più stringente di un libero professionista, ed in particolare è tenuto a denunciare senza ritardi e per iscritto ogni reato di cui venga a conoscenza, purché perseguibile d’ufficio (quali ad es. maltrattamento in famiglia, cioè lesioni continuate compiute all’interno della famiglia, rissa, pedofilia, pedopornografia, sequestro di persona, estorsione, usura, ricettazione, rapine, ecc.).

Vengono esclusi da tale obbligo di denuncia i reati procedibili a querela di parte (es. ingiurie, diffamazione, ecc.). Ciò in quanto, in questi casi, l’ordinamento giuridico subordina la punibilità del reato alla querela presentata dalla persona offesa. La questioni si complica ulteriormente in relazione a due reati fra i più frequentemente segnalati dai professionisti: le lesioni (art. 582 c.p.) e la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.); entrambi tali reati, nella loro fattispecie base (definita “semplice”) sono procedibili a querela, e quindi non implicano obbligo d denunzia, mentre qualora siano aggravati (ad es. per la gravità delle lesioni, o per l’età della vittima nella violenza sessuale) divengono pro edibili d’ufficio.

È necessaria un’ulteriore precisazione: l’obbligo di denuncia sussiste anche se si viene a conoscenza dell’ipotetico reato (ipotetico perché sarà il Giudice e decidere se sussiste o no il reato denunciato) non durante le ore dedicate alla propria attività istituzionale (pubblica), ma a causa di questa, cioè anche fuori dall’orario di servizio, se ci sono evidenze - o viene addirittura esplicitato - che la persona che sta  riferendo  il  fatto  lo  sta  facendo  proprio  perché a  conoscenza  della  funzione  pubblica  ricoperta  dal collega.  Per  coloro  che  esercitano,  anche  soltanto per poche ore settimanali, un’attività che si inquadra come incaricato di pubblico servizio diventa, pertanto fondamentale conoscere approfonditamente quanto previsto dalla legge a riguardo dell’obbligo di denuncia ed in particolare l’art. 331 del Cod. Proc. Pen. e gli artt. 361 e 362 del Codice Penale, riportati in appendice.

Nell’effettuare l’obbligatoria denuncia i collegi devono attenersi a quanto stabilito dal Codice Deontologico sull’essenzialità della stessa (“stretto necessario” dell’art. 13 del Codice Deontologico), ricordando comunque che è indispensabile fornire all’Autorità Giudiziaria gli elementi conosciuti che sono necessari per il corretto inquadramento del fatto (in particolare l’art. 332 c.p.p. prevede che la denunzia contenga, fra l’altro, “l’esposizione degli elementi essenziali del fatto”, “le fonti di prova già note” nonché “le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti”). Nello specifico momento in cui, invece, si opera come libero professionista non si deve rispettare alcun obbligo di denunzia, se non nel caso (riferito però a tutti i cittadini) in cui si venga a conoscenza di reati “contro la personalità dello Stato” (eversione, attentato, ecc) o comunque di reati che prevedono come pena l’ergastolo.

Ferma la scarsissima rilevanza statistica di tale reato, previsto dall’art. 364 c.p., occorre chiedersi se sussista obbligo di denunzia in capo al cittadino (e quindi anche allo psicologo libero professionista) che apprenda di un omicidio; infatti, tale reato è punito, nella sua forma semplice (ovvero qualora non ricorrano aggravanti) con la “reclusione non inferiore ad anni ventuno” (art. 575 c.p.), e quindi non con l’ergastolo, che interviene solo in presenza di una o più aggravanti. In via di pura interpretazione pare  potersi  escludere  tale  eventualità,  ma  un approfondimento  è,  nel  caso,  quanto  mai  opportuno.

Bisogna, però, essere a conoscenza di un’altra norma, l’art. 365 c.p., che pur non mutando sostanzialmente il quadro così come fin qui definito, interviene a complicarlo e potrebbe aprire varchi a dubbi, anche rilevanti; tale articolo dispone, infatti, che i professionisti sanitari che hanno prestato assistenza “in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d’ufficio” hanno l’obbligo di riferire all’Autorità Giudiziaria (c.d. obbligo di referto), a meno che il referto (i.e. la segnalazione) esponga “la persona assistita a procedimento penale”. 

Questo, ad una prima e superficiale lettura, potrebbe cambiare quanto precedentemente affermato e far ipotizzare un  obbligo  di  denuncia  da  parte  di  tutti  i  colleghi, non soltanto per coloro che esercitano come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio; in realtà questa  previsione  di  obbligo  di  referto  per  tutta  la nostra categoria è alquanto dubbia.

Vediamo il perché: la normativa parla espressamente di professioni sanitarie, ma la nostra professione pur prevedendo molte attività sanitarie (tanto che i colleghi applicano l’esenzione IVA su questo tipo di prestazioni) - è sempre definibile con certezza come “sanitaria”? La legge a questo riguardo, interpretata in senso letterale/restrittivo, risponde di no. E ciò perché né la figura professionale dello Psicologo “tout court” né quelle più “specialistiche” dello Psicoterapeuta o dello Psicologo Clinico, risultano in realtà inserite tra le “Professioni sanitarie” esplicitamente citate nell’art. 99 del “Testo Unico delle Leggi Sanitarie” (T.U.LL.SS).

Il dubbio che si insinua in questo modo rimane senz’altro molto forte in quanto si potrebbe dissertare a lungo sul fatto che un’interpretazione sostanziale e non letterale della normativa dovrebbe vedere applicato l’obbligo di referto anche agli Psicologi nel momento in cui effettuano prestazioni sanitarie esenti IVA.

La  consapevolezza  dell’esistenza  di  questo  dubbio interpretativo è fondamentale perché fa capire che siamo su un terreno “con asperità” che non permette di arrivare a decisioni facili e sicure; credo, quindi, sia meglio che ogni collega, prima di assumere decisioni valuti caso per caso in base ad una conoscenza approfondita della situazione specifica.

Rapporto Vs Referto

L'ultima distinzione da tenere presente riguarda la denuncia all’Autorità Giudiziaria che è obbligatorio redigere in forma scritta una volta che si è venuti a conoscenza, nell’ambito dell’esercizio di una professione sanitaria, di fatti che potrebbero rappresentare ipotesi di un reato. Se, tornando alla prima distinzione, ci riferiamo ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, tale denuncia scritta assume il nome di rapporto, se invece è un libero professionista a redigerla, parleremo di referto.

 

A cura della Dottoressa Emanuela Torrente

 

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Tags: psicologo paziente codice deontologico denuncia obblighi doveri

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